QUALCHE CONSIDERAZIONE SUL 
"PRINCIPIO DI AUTORITÀ"



San Paolo ricorda che “ogni  autorità viene da Dio” (Rm 13, 1).
Questo richiamo di San Paolo è fondato sullo stesso insegnamento di nostro Signore: mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra (Mt 28, 18).

Per un fedele di Gesú Cristo, Figlio Unigenito del Padre che è nei Cieli, è cosa scontata; e lo è soprattutto perché si deve presupporre che un fedele discepolo di Gesú sia inevitabilmente un uomo religioso, un uomo cioè che informa la sua vita agli insegnamenti divini.
Ma è cosí che stanno le cose nella realtà?
Oggi, che viviamo in un mondo ove regna indisturbata la confusione, è possibile affermare con serietà che il cattolico abbia chiaro il concetto che “ogni autorità viene da Dio”?

Non si può non convenire che la questione è molto piú complessa di quanto potrebbe apparire a prima vista.

In effetti, quando si parla della “dignità dell’uomo”, per quanto si possa o si voglia avere in vista che il principio di tale dignità risieda in Dio, resta il fatto che, nella conduzione pratica della vita e nello sviluppo del pensiero e del comportamento umano, l’idea che l’uomo sia soggetto e attore principale è oggi quella che va per la maggiore. Dio ha concesso all’uomo la “libertà”: si dice; e da questo sembra derivare per l’uomo una possibile autonomia di comprensione e di scelta. Da qui, c’è solo un passo per giungere al convincimento che la comprensione e la volontà umana siano le sole cose reali, o quantomeno le piú importanti: relegando Dio in un àmbito cosí lontano e cosí staccato dalla realtà, da rappresentare infine un mero elaborato della mente, di scarsissima incidenza sulla vita ordinaria dell’uomo.

Lo stesso accade per l’Autorità.

Dopo alcuni secoli di educazione “umanistica” o “omocentrica”, questa sottesa primazia dell’uomo è sottilmente vissuta anche tra i credenti e i praticanti cattolici.
Per la maggior parte di essi l’istanza religiosa è divenuta tutt’uno con l’istanza filantropica: è difficile trovare oggi dei credenti cattolici che vivano l’amore per l’uomo come un fattore subordinato all’amore per Dio.
Mentre invece è diffusissima la pratica della religione intesa come “impegno” per la “promozione umana”. 
Non si ama piú Iddio per la sua trascendenza, in quanto principio della nostra stessa esistenza, facendone poi derivare logicamente l’amore per l’uomo, come inevitabile manifestazione esteriore del primario amore per Dio. 
Al contrario, ci si accanisce nell’amore per l’uomo convinti che cosí facendo si esprima e si viva l’amore per Dio; dimostrando, in tal modo, che non si conosce piú come vivere primariamente l’amore per Dio: quasi una sorta di confessione implicita che non si conosce piú Dio, ma solo l’uomo.

Quando si continua a dibattere la questione se sia la Fede a salvare primariamente o se siano le opere, ci si dimentica con troppa facilità che la Fede e le opere non solo altro che le due facce di una stessa medaglia; e, come in tutte le medaglie, delle due facce: una è la diritta e l’altra è la rovescia, una è la testa e l’altra è la croce. Non è mai esistita medaglia con due teste o con due croci. Lo stesso dicasi per il rapporto che c’è tra la Fede e le opere. La Fede è la testa della medaglia, quella che fa sí che si comprenda di che medaglia si tratti, le opere sono la croce, e quindi l’esplicitazione o, se si vuole, l’applicazione pratica della Fede.
In realtà, quando si dice che ci si salva per le opere, si deve intendere, e non può essere altrimenti, che ci si salva per le “opere della Fede”. Diversamente si incorrerebbe nell’errore di considerare la salvezza come dipendente dalle opere umane, e cioè dalla mera volontà e dalla semplice azione dell’uomo.
Che cosa può intendersi con l’espressione: “opere della Fede”? Che, primariamente, ogni azione e comportamento umano deve discendere dagli insegnamenti della Fede e dev’essere ad essi conforme. Non può darsi un comportamento umano fedele all’insegnamento della Fede che tenga come orientamento l’esigenza umana e non l’esigenza della Fede.
Ora, l’esigenza primaria della Fede consiste nella salvezza delle ànime, non nel benessere dell’esistenza terrena.

È questo il contesto complessivo nel quale deve collocarsi ogni riflessione sul “Principio di Autorità”.

Ai giorni nostri si ha la tendenza a considerare che ogni uomo possa autonomamente valutare la correttezza e la legittimità dei diversi comportamenti umani, e quindi possa tranquillamente decidere senza incorrere in molti errori di valutazione. In campo religioso, per esempio, ogni uomo potrebbe leggere e studiare le Sacre Scritture e cosí apprendere qual è la vera volontà di Dio e metterla in pratica.
La Chiesa, invece, ha sempre insegnato che non basta leggere o studiare le Sacre Scritture per poterle apprendere nella maniera giusta e quindi tradurre tale apprendimento in comportamenti corretti. Occorre che la Scrittura venga offerta all’apprendimento dei fedeli nella maniera piú adeguata, e cioè nella maniera piú conforme al suo intrinseco significato, poiché diversamente ogni fedele incapperebbe nell’errore di leggerla, studiarla ed apprenderla in conformità con sé stesso.
Per giungere a questo risultato, la Chiesa esercita il Magistero, cioè si fa maestra per l’edificazione dei fedeli, e questo suo esser maestra coincide con l’esercizio di una Autorità che essa non trae da sé stessa, ma che ha ricevuto direttamente da Nostro Signore (Mt 28, 19-20; Mc 16, 15-16). La Chiesa infatti è costituita sugli Apostoli ai quali Nostro Signore ha comandato di insegnare a tutti ciò che Egli stesso ha loro insegnato, e di insegnarlo nel suo Nome. Cosí che Autorità e Magistero sono tutt’uno e insieme promanano dalla Chiesa e hanno il loro fondamento in Gesú Cristo nostro Signore.

Ora, come gli Apostoli erano degli uomini con le loro debolezze, cosí sono sempre stati i loro successori, ma questo non ha mai impedito all’Autorità di esercitarsi per loro tramite, poiché la stessa Autorità, in quanto principio di ogni insegnamento, è al sopra di ogni debolezza umana.
Non bisogna dimenticare infatti che il Principio di questa Autorità è Dio stesso.

Tuttavia, nel corso dei tempi, è anche possibile che qualcuno degli uomini che impersonano l’Autorità ed esercitano il Magistero, possano incorrere in errori piú o meno gravi a causa dell’eccessiva influenza esercitata su di loro dalla componente meramente umana. In questi casi sopperisce a tali errori il complesso degli insegnamenti che fin dagli Apostoli è stato mantenuto come certo e veritiero, sopperisce cioè la Tradizione: l’insieme degli insegnamenti orali e scritti riguardanti la dottrina e la morale, che è stato “trasmesso” a partire dall’insegnamento stesso di Nostro Signore e che è creduto unanimemente dappertutto.

Questo fa intendere come lo stesso Magistero “attuale” della Chiesa, e quindi l’esercizio della sua Autorità, non possano esercitarsi nel tempo se non in conformità con la Tradizione; poiché laddove si determinasse una qualche contraddizione con la Tradizione ci si troverebbe di fronte ad un errore nella trasmissione del Magistero, e cioè di fronte ad un errore commesso da chi in quel dato tempo “attuale” esercita l’Autorità.
Tuttavia, ove si verifichi, tale errore rimane, cosí che per certi versi, in un dato tempo, può accadere che si stabilisca una apparente identità tra errore e Autorità e tra errore e Magistero.
In altre parole, allorché l’interferenza del fattore umano intacchi esteriormente l’esercizio dell’Autorità e del Magistero, agli occhi del fedele si pone il problema del rifiuto dell’errore e del conseguente rifiuto dell’errante; e dal momento che l’errante è personificazione dell’Autorità, il rischio conseguente è che si possa negare all’errante ogni potere per l’esercizio dell’Autorità.

Ora, perché si eserciti l’Autorità, che è propria di Dio e quindi non ha di per sé connotazioni tangibili, come è intangibile Dio stesso, è necessario che essa abbia un riferimento umano, e cioè che essa si manifesti per il tramite di un uomo. Tale uomo dà una connotazione tangibile all’Autorità, cosí che gli altri uomini su cui essa si esercita possano averne una nozione sensibile. Non v’è però alcuna identità tra l’uomo che dà “corpo” all’Autorità e l’Autorità stessa, se non altro perché l’Autorità sta al di fuori di ogni tempo e di ogni contingenza, mentre lo stesso uomo che la impersona è contingente e perituro.
Tuttavia, da un certo punto di vista “apparente”, l’Autorità e chi la impersona possono apparire come una cosa sola, tale che se è infallibile l’Autorità sarebbe infallibile anche chi la impersona. Ne deriva che, nel caso in cui ci si trovasse al cospetto dell’errore, non si potrebbe ammettere di trovarsi ancora di fronte all’Autorità, e quindi si negherebbe ogni autorità all’errante, poiché in quanto errante non potrebbe essere espressione dell’Autorità che è infallibile.
Negare però, in un qualsiasi momento temporale ogni elemento di Autorità a chi la impersona, equivale all’affermare che in quel momento l’Autorità non è piú presente nel creato, il che è impossibile.

Alcuni sono convinti che l’Autorità continuerebbe ad esercitarsi a prescindere da chi la impersona, e non si rendono conto che in tal modo affermano la relativa importanza della personificazione dell’Autorità.
Se le cose stessero cosí, non ci sarebbe stato alcun bisogno di “costituire” gli Apostoli: l’Onnipotenza di Nostro Signore avrebbe potuto benissimo fare a meno di un tramite come loro. Se gli Apostoli sono stati costituiti come fondamento della Chiesa, e se l’Apostolo Pietro è stato costituito come “roccia” di questa Chiesa, col potere di “sciogliere” e di “legare” in terra cosí da determinare lo stesso effetto in Cielo, è inevitabile dedurne che il tramite umano tra l’Autorità divina e la sua applicazione terrena è non solo necessario, ma perfettamente rispondente alla volontà di Dio.
In effetti, l’Autorità, per esercitarsi in terra, si serve di un uomo o di un gruppo di uomini che la impersonino perché la condizione oggettiva dell’umanità è primariamente legata ad un processo che si svolge dal basso verso l’alto. Per condursi a Dio, l’uomo passa necessariamente e primariamente per sé stesso, e quindi per l’uomo. Se si guarda all’Autorità, se si tende all’Autorità, si guarda necessariamente ad un uomo che la impersona, perché solo cosí l’uomo non dimentica che il Principio dell’Autorità, e cioè Dio stesso, è costantemente e tangibilmente presente nel mondo. Tenere fermo tale riferimento umano significa tenere fermo lo stesso Principio di Autorità, e questo a prescindere dai modi e dai termini con cui la stessa Autorità viene da questi praticamente esercitata. 
L’ossequio al Principio è cosa ben piú importante e primaria dell’ossequio alla sua applicazione terrena.

Cosí, se il Papa rappresenta in terra nostro Signore Gesú Cristo, è perché ogni fedele non dimentichi che il primo riferimento è l’Autorità di Nostro Signore, ed essa resta tale indipendentemente da ogni giudizio che si potrebbe legittimamente esprimere sull’uomo che in un dato momento è il Papa. L’ossequio al Papa è tutt’uno con l’ossequio a Nostro Signore. Questo, però, non impedisce che, in un secondo momento, passando all’ossequio nei confronti dell’esercizio dell’Autorità da parte del Papa, si possa determinare la necessità di operare dei possibili distinguo, sulla base del continuo confronto tra tale esercizio e la Tradizione della Santa Chiesa. Se in seguito a questo confronto si evincessero delle contraddizioni, è scontato che si dovrebbe dare la prevalenza alla Tradizione, sminuendo l’esercizio dell’Autorità da parte del Papa, ma ciò non significa che tale Autorità, di per sé, possa essere considerata inesistente, poiché essa continuerebbe a sussistere nonostante l’errore. È questo che permette di correggere l’errore stesso e di superare quindi ogni contraddizione tra l’esercizio dell’Autorità e la Tradizione.

Ma cosa accade quando l’errore non venga corretto?
È a questo punto che sorgono i problemi pratici per il fedele: se l’errore persiste e se il fedele, non solo è tenuto a rifiutarlo, ma anche a condannarlo, non si finisce cosí per condannare anche chi propone a credere l’errore, e cioè la stessa personificazione dell’Autorità? 
È quasi inevitabile. 
Ma è altrettanto inevitabile che si tenga fermo l’ossequio alla funzione, nonostante la contemporanea condanna di ciò che esprime il rappresentante di questa funzione in un dato momento.

Non si può mettere in dubbio che ci si trovi al cospetto di un’impresa alquanto difficile: come condannare e rifiutare una dottrina errata e il Papa che la propone, e, al tempo stesso, professare il doveroso ossequio a questo stesso Papa in quanto personificazione dell’Autorità?

La soluzione piú semplice, soprattutto in relazione alla sensibilità del fedele, sembra consistere nel riconoscere che quel dato papa non è un papa, perché se lo fosse non insegnerebbe l’errore.
Ma si tratta proprio della soluzione piú semplice, che introduce però il fedele in un vicolo cieco. Stabilendo che il Papa non è tale, perché in quel dato momento non può esserlo, ecco che si pone il problema di dover decidere quando lo è. Non solo, ma se questa situazione si protraesse lungo la successione di piú papi, ci si troverebbe nella necessità di dover stabilire quando un papa sbaglia e anche quale papa è veramente tale. 
In definitiva, il vicolo cieco consiste nel porsi nella condizione di dover stabilire, volta per volta, se vi è un papa o non vi è. 
E questo, dal punto di vista pratico, comporta un rischio grandissimo e quasi certo: che cioè possa essere il fedele a dover decidere della legittimità di un papa, trasferendo cosí, di fatto, a sé stesso l’esercizio dell’Autorità.

Un cosa siffatta, per quanto ipotizzabile come possibile in tempi di grandissima confusione come i nostri, è sicuramente la piú grande sciagura che potrebbe capitare alla Chiesa e ai fedeli; e proprio perché gli stessi tempi di confusione permetterebbero di introdurre, seppure sottilmente, il convincimento che ogni fedele possa essere papa a sé stesso.

Non bisogna mai dimenticare che il demonio ha sempre lavorato in questa direzione, poiché se è grave non condannare l’errore, o non condannarlo duramente, è certo ancor piú grave porsi nella disposizione di spirito che porta a pensare di poter operare il discrimine tra errore e Verità con le sole forze della ragione. In effetti, ciò che piú conta per il demonio, non è impedire che si condanni l’errore, ma indurre il fedele a convincersi che da solo possa sapere quale esso sia: è in questo modo che egli può giungere ad avere in mano la sua ànima. Dal punto di vista del demonio, poco importa che il fedele pratichi la verità o l’errore, ciò che invece importa è che egli si convinca della propria autonomia di comprensione. 
L’uomo potrebbe pure vivere un’intera vita praticando gli insegnamenti di Dio, ma se, facendolo, non riconosce che questi insegnamenti sono di Dio, è come se non riconoscesse Dio. È questo che importa al demonio, che l’uomo non riconosca Dio. Quando invece l’uomo, pur sbagliando, pur praticando l’errore, tiene fermo il riconoscimento di Dio, la sua sottomissione e la sua dipendenza da Dio, e li pratica “umanamente” riconoscendo i segni di Dio, i rappresentanti di Dio, ecco che diventa una preda quasi imprendibile per il demonio: poiché tale riconoscimento costituisce un legame sul quale, per quanto flebile sia, il demonio non ha alcun potere.

D’altronde, allorché si supponesse che il Papa non è un papa, ne deriverebbe subito una vacanza nella personificazione dell’Autorità. Non essendoci il Papa, l’Autorità non sarebbe piú personificata, quindi non sarebbe piú presente nel creato per il suo tramite naturale. 
Ora, come abbiamo detto, la cosa è impossibile, ma ancor piú è assurda ove si pensi che la personificazione dell’Autorità non attiene alla “persona” del Papa in quanto chierico investito della funzione papale, ma attiene primariamente alla sua “funzione” di vescovo, cioè al fatto che si tratta di un diretto discendente degli Apostoli che, come loro, porta in sé il “soffio” dello Spirito Santo, trasmesso fino a lui dallo stesso Signore Gesú.
L’elemento fondante della elezione a papa, e quindi della funzione magisteriale e dell’esercizio dell’Autorità, è il potere vescovile dato dall’influenza dello Spirito Santo che lo stesso vescovo ha ricevuto e può trasmettere in continuità con la successione apostolica. Senza questo elemento non ci sarebbe neanche la successiva elezione a papa, che fissa formalmente il riferimento umano unico per tutta la Chiesa.

In questa ottica, l’Autorità resta presente nel mondo soprattutto tramite i vescovi. Ora, nel caso in cui si pretendesse che un papa non è un papa, ne deriverebbe che tutti i vescovi da lui ordinati non potrebbero essere vescovi; e se tale situazione si protraesse nel tempo, fino alla scomparsa di tutti vescovi regolarmente ordinati, ne deriverebbe la scomparsa della stessa successione apostolica e, quindi la scomparsa della Chiesa. Il che è ancora impossibile.
Ma prima ancora di arrivare a questo limite, si cadrebbe inevitabilmente in un altro vicolo cieco.
Se del Papa si può dire che non c’è, a maggior ragione questo può dirsi per un vescovo, quindi per una chiesa locale, cosí che ci si troverebbe nella situazione che in certi luoghi non esisterebbe la Chiesa, e la sua possibilità di esistenza passerebbe necessariamente attraverso il parere di chi dovrebbe stabilire la legittimità o meno del vescovo. In tal modo ci si verrebbe a trovare nella assurda situazione che in certi luoghi la Chiesa scomparirebbe e riapparirebbe a seconda dei giudizi di qualcuno.

Certo, è ben comprensibile che molte volte possa accadere che qualcuno di noi, esasperato dalla situazione difficile in cui si trova rispetto alla pratica della Fede, possa giungere a formulare una qualche giustificazione per soddisfare l’esigenza di razionalità. E una tale possibilità è ancora piú frequente presso individui che posseggono una acuta intelligenza speculativa e una forte personalità. Ma la oggettiva condizione in cui ci si trova e le qualità individuali che si posseggono non bastano a giustificare certe conclusioni, poiché allora si dovrebbe ammettere che quello che piú conta è la difficoltà della vita e l’intelligenza personale per superarla. Ora, se questo può essere accettabile in riferimento alla semplice sopravvivenza umana, non può esserlo nel caso della pratica delle Fede e delle questioni teologiche ad essa connesse; al contrario, in questo caso il sacrificio personale, il combattimento interiore con le proprie convinzioni e con le proprie problematiche esistenziali, la convivenza con le difficoltà e con le contraddizioni del tempo in cui si vive e del contesto in cui si è nati, sono tutti fattori che compongono quella croce di cui parlava Nostro Signore insegnando ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8, 34).

Resta ancora da vedere, però, come sia possibile far coesistere la condanna e il rifiuto di una dottrina errata e del Papa che la propone, insieme al doveroso ossequio che si deve allo stesso Papa in quanto personificazione dell’Autorità.
Occorre innanzi tutto tenere in mente che l’Autorità personificata dal Papa continua a rimanere presente indipendentemente dall’esercizio che il Papa ne fa. Anche quando il Papa commette degli errori, sia pure di ordine dottrinale, la personificazione dell’Autorità non viene meno, poiché diversamente ci si troverebbe al cospetto di una inversione dei valori. Dal punto di vista umano, l’Autorità non sarebbe piú la fonte di sé stessa, ma dipenderebbe dalla correttezza del Papa che la esercita. Come dire che l’Autorità soccomberebbe agli errori del Papa. Il che, non solo è impossibile in linea di principio, ma è impossibile anche il linea di fatto.

Ogni insegnamento papale è, fino a prova contraria, infallibile, non in quanto è il Papa ad essere infallibile, ma in quanto è infallibile la dottrina che egli insegna. Dottrina che non è la sua, né potrebbe esserlo, nel suo caso come nel caso di chiunque altro, poiché la sana Dottrina non può essere il parto della mente di qualcuno, ma è l’insegnamento che viene direttamente da Dio. Infatti, è solo in questo senso che il termine Tradizione assume tutto il suo vero significato: Essa è l’insieme degli insegnamenti divini che viene regolarmente “trasmesso” lungo la linea della successione apostolica, arricchito da tutti i contributi esplicativi che nel corso dei secoli hanno apportato i Padri, i Santi e il Magistero.
Quando il Papa esercita l’Autorità e insegna in maniera infallibile, può insegnare solo la sana Dottrina, tutto il resto è farina del suo sacco e come tale soggetto a cautela. Se il Papa, invece, non insegna la sana Dottrina, accade semplicemente che sbaglia, e quindi nessuno ha l’obbligo di sottomettersi al suo magistero che, in questo caso, non è vincolante perché veicola le opinioni del Papa e non la Tradizione della Chiesa.
Ne consegue che non v’è alcuna difficoltà a riconoscere contemporaneamente nello stesso Papa la personificazione dell’Autorità, poiché tale personificazione è indipendente dal suo erroneo insegnamento, e dipende solo dall’Autorità stessa, che rimane intoccata da tale errore.

Chi decide, allora, quando il Papa sbaglia?
Non l’individuo, un semplice fedele o un chierico, ma la coerenza con la Tradizione. 
Peraltro, vi sono degli aspetti della Tradizione, i piú importanti, che non comportano alcuna difficoltà di comparazione con l’insegnamento “attuale” di un papa. Aspetti che, per molti versi, non hanno neanche bisogno di una qualche preparazione teologica per essere compresi, ma si impongono da soli per la loro semplicità e per la loro chiarezza. 
Se per esempio si guarda alla cosiddetta “libertà religiosa”, qualunque fedele può rendersi conto della contraddizione con la Tradizione: tant’è che i sostenitori di detta “libertà” si affrettano a precisare subito che si tratta di una innovazione contenuta “in nuce” nella Tradizione, innovazione di cui non si trova traccia nella Tradizione stessa, ma che sarebbe stata espunta da essa attraverso il lavoro di speculazione teologica di alcuni chierici. Insomma, si tratterebbe di un fattore della cosiddetta “tradizione vivente”, di una tradizione, cioè, che cambia continuamente: quindi di una tradizione che non è stata trasmessa, una tradizione senza tradizione.

Per capire questa palese contraddizione non v’è certo bisogno di essere laureati in teologia dogmatica.
In questo caso, rifiutare l’insegnamento del Papa è cosa doverosa nei confronti della sana Dottrina e nei confronti di sé stessi, per non incorrere nella possibilità di dannarsi l’ànima.

E mentre si riconosce che il Papa insegna una cosa scorretta, e la si rifiuta, ci si ricorda di tenere fermo che egli, nonostante tutto, continua ad essere la personificazione dell’Autorità; poiché se si vuole mantenere interamente la coerenza con la Tradizione è necessario che la si segua sia nel rigettare l’errore, sia nel rispettare il segno tangibile dell’Autorità: lo stesso Papa che sbaglia.

C’è solo da precisare che certi discorsi complicati di tipo normativo e giuridico, pur mantenendo la loro relativa legittimità, non attengono, propriamente parlando, alla sana Dottrina e alla Tradizione. Essi attengono primariamente alle ricerche specifiche degli specialisti della giurisprudenza e, come tali, sono spesso viziati da preoccupazioni di ordine formale che nel corso della vita della Chiesa hanno prodotto piú danni che utili.
Nella realtà della vita religiosa del fedele ciò che piú conta è la coerenza con la Tradizione, non il tenere fermi certi elementi giuridici che spesso sono piú contingenti di quanto appaiano a prima vista.

È questo il caso della stessa disputa che spesso si tiene sulla “infallibilità” papale.
Il Papa è infallibile quando insegna la sana Dottrina, non perché cosí è stato stabilito dal concilio Vaticano I. Piuttosto è il contrario: il concilio Vaticano I ha fissato, nero su bianco, una verità che era presente da sempre nella vita della Chiesa, ed era presente per la natura intrinseca della Dottrina, che è essa infallibile, al di là dei papi che la esplicitano. Il concilio Vaticano I si vide costretto a mettere per iscritto una verità che non veniva piú compresa e accettata per il sopraggiunto indurimento dei cuori e delle menti di molti chierici e di molti laici. Ora, era inevitabile che la formulazione scritta di questa verità comportasse delle forme giuridiche, ma non sono esse che possono dare il senso vero dell’infallibilità papale. Piuttosto, allorché per approfondire il senso di tale infallibilità, ci si attaccasse a tali forme giuridiche, si commetterebbe l’errore di scendere sullo stesso piano di coloro che, per il loro indurimento, hanno costretto il concilio Vaticano I a pronunciarsi “formalmente”;  si commetterebbe cioè l’errore di scendere sullo stesso piano dei negatori dell’infallibilità papale e quindi della infallibilità della Dottrina e della Tradizione.

Per finire, ci sembra opportuno precisare che queste nostre considerazioni non hanno alcuna pretesa esaustiva: l’argomento di cui si tratta presenta seriamente molti aspetti difficili e controversi, soprattutto dal punto di vista dei comportamenti pratici dei fedeli. Nostro scopo è stato solo quello di indicare alcuni elementi di riflessione che possono concorrere ad affrontare la questione con maggiore compiutezza, tenendo presente che tali elementi, per la loro natura, hanno una connotazione di imprescindibilità.

Giovanni Servodio

 
 
 

(aprile 2002)


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