![]() |
![]() |
QUALCHE CONSIDERAZIONE SUL
San Paolo ricorda che “ogni autorità viene da Dio”
(Rm 13, 1).
Per un fedele di Gesú Cristo, Figlio Unigenito del Padre che
è nei Cieli, è cosa scontata; e lo è soprattutto perché
si deve presupporre che un fedele discepolo di Gesú sia inevitabilmente
un uomo religioso, un uomo cioè che informa la sua vita agli insegnamenti
divini.
Non si può non convenire che la questione è molto piú complessa di quanto potrebbe apparire a prima vista. In effetti, quando si parla della “dignità dell’uomo”, per quanto si possa o si voglia avere in vista che il principio di tale dignità risieda in Dio, resta il fatto che, nella conduzione pratica della vita e nello sviluppo del pensiero e del comportamento umano, l’idea che l’uomo sia soggetto e attore principale è oggi quella che va per la maggiore. Dio ha concesso all’uomo la “libertà”: si dice; e da questo sembra derivare per l’uomo una possibile autonomia di comprensione e di scelta. Da qui, c’è solo un passo per giungere al convincimento che la comprensione e la volontà umana siano le sole cose reali, o quantomeno le piú importanti: relegando Dio in un àmbito cosí lontano e cosí staccato dalla realtà, da rappresentare infine un mero elaborato della mente, di scarsissima incidenza sulla vita ordinaria dell’uomo. Lo stesso accade per l’Autorità. Dopo alcuni secoli di educazione “umanistica” o “omocentrica”, questa
sottesa primazia dell’uomo è sottilmente vissuta anche tra i credenti
e i praticanti cattolici.
Quando si continua a dibattere la questione se sia la Fede a salvare
primariamente o se siano le opere, ci si dimentica con troppa facilità
che la Fede e le opere non solo altro che le due facce di una stessa medaglia;
e, come in tutte le medaglie, delle due facce: una è la diritta
e l’altra è la rovescia, una è la testa e l’altra è
la croce. Non è mai esistita medaglia con due teste o con due croci.
Lo stesso dicasi per il rapporto che c’è tra la Fede e le opere.
La Fede è la testa della medaglia, quella che fa sí che si
comprenda di che medaglia si tratti, le opere sono la croce, e quindi l’esplicitazione
o, se si vuole, l’applicazione pratica della Fede.
È questo il contesto complessivo nel quale deve collocarsi ogni riflessione sul “Principio di Autorità”. Ai giorni nostri si ha la tendenza a considerare che ogni uomo possa
autonomamente valutare la correttezza e la legittimità dei diversi
comportamenti umani, e quindi possa tranquillamente decidere senza incorrere
in molti errori di valutazione. In campo religioso, per esempio, ogni uomo
potrebbe leggere e studiare le Sacre Scritture e cosí apprendere
qual è la vera volontà di Dio e metterla in pratica.
Ora, come gli Apostoli erano degli uomini con le loro debolezze,
cosí sono sempre stati i loro successori, ma questo non ha mai impedito
all’Autorità di esercitarsi per loro tramite, poiché la stessa
Autorità, in quanto principio di ogni insegnamento, è al
sopra di ogni debolezza umana.
Tuttavia, nel corso dei tempi, è anche possibile che qualcuno degli uomini che impersonano l’Autorità ed esercitano il Magistero, possano incorrere in errori piú o meno gravi a causa dell’eccessiva influenza esercitata su di loro dalla componente meramente umana. In questi casi sopperisce a tali errori il complesso degli insegnamenti che fin dagli Apostoli è stato mantenuto come certo e veritiero, sopperisce cioè la Tradizione: l’insieme degli insegnamenti orali e scritti riguardanti la dottrina e la morale, che è stato “trasmesso” a partire dall’insegnamento stesso di Nostro Signore e che è creduto unanimemente dappertutto. Questo fa intendere come lo stesso Magistero “attuale” della Chiesa,
e quindi l’esercizio della sua Autorità, non possano esercitarsi
nel tempo se non in conformità con la Tradizione; poiché
laddove si determinasse una qualche contraddizione con la Tradizione ci
si troverebbe di fronte ad un errore nella trasmissione del Magistero,
e cioè di fronte ad un errore commesso da chi in quel dato tempo
“attuale” esercita l’Autorità.
Ora, perché si eserciti l’Autorità, che è
propria di Dio e quindi non ha di per sé connotazioni tangibili,
come è intangibile Dio stesso, è necessario che essa abbia
un riferimento umano, e cioè che essa si manifesti per il tramite
di un uomo. Tale uomo dà una connotazione tangibile all’Autorità,
cosí che gli altri uomini su cui essa si esercita possano averne
una nozione sensibile. Non v’è però alcuna identità
tra l’uomo che dà “corpo” all’Autorità e l’Autorità
stessa, se non altro perché l’Autorità sta al di fuori
di ogni tempo e di ogni contingenza, mentre lo stesso uomo che la impersona
è contingente e perituro.
Alcuni sono convinti che l’Autorità continuerebbe ad esercitarsi
a prescindere da chi la impersona, e non si rendono conto che in tal modo
affermano la relativa importanza della personificazione dell’Autorità.
Cosí, se il Papa rappresenta in terra nostro Signore Gesú Cristo, è perché ogni fedele non dimentichi che il primo riferimento è l’Autorità di Nostro Signore, ed essa resta tale indipendentemente da ogni giudizio che si potrebbe legittimamente esprimere sull’uomo che in un dato momento è il Papa. L’ossequio al Papa è tutt’uno con l’ossequio a Nostro Signore. Questo, però, non impedisce che, in un secondo momento, passando all’ossequio nei confronti dell’esercizio dell’Autorità da parte del Papa, si possa determinare la necessità di operare dei possibili distinguo, sulla base del continuo confronto tra tale esercizio e la Tradizione della Santa Chiesa. Se in seguito a questo confronto si evincessero delle contraddizioni, è scontato che si dovrebbe dare la prevalenza alla Tradizione, sminuendo l’esercizio dell’Autorità da parte del Papa, ma ciò non significa che tale Autorità, di per sé, possa essere considerata inesistente, poiché essa continuerebbe a sussistere nonostante l’errore. È questo che permette di correggere l’errore stesso e di superare quindi ogni contraddizione tra l’esercizio dell’Autorità e la Tradizione. Ma cosa accade quando l’errore non venga corretto?
Non si può mettere in dubbio che ci si trovi al cospetto di un’impresa alquanto difficile: come condannare e rifiutare una dottrina errata e il Papa che la propone, e, al tempo stesso, professare il doveroso ossequio a questo stesso Papa in quanto personificazione dell’Autorità? La soluzione piú semplice, soprattutto in relazione alla sensibilità
del fedele, sembra consistere nel riconoscere che quel dato papa non è
un papa, perché se lo fosse non insegnerebbe l’errore.
Un cosa siffatta, per quanto ipotizzabile come possibile in tempi di grandissima confusione come i nostri, è sicuramente la piú grande sciagura che potrebbe capitare alla Chiesa e ai fedeli; e proprio perché gli stessi tempi di confusione permetterebbero di introdurre, seppure sottilmente, il convincimento che ogni fedele possa essere papa a sé stesso. Non bisogna mai dimenticare che il demonio ha sempre lavorato in questa
direzione, poiché se è grave non condannare l’errore, o non
condannarlo duramente, è certo ancor piú grave porsi nella
disposizione di spirito che porta a pensare di poter operare il discrimine
tra errore e Verità con le sole forze della ragione. In effetti,
ciò che piú conta per il demonio, non è impedire che
si condanni l’errore, ma indurre il fedele a convincersi che da solo possa
sapere quale esso sia: è in questo modo che egli può giungere
ad avere in mano la sua ànima. Dal punto di vista del demonio, poco
importa che il fedele pratichi la verità o l’errore, ciò
che invece importa è che egli si convinca della propria autonomia
di comprensione.
D’altronde, allorché si supponesse che il Papa non è un
papa, ne deriverebbe subito una vacanza nella personificazione dell’Autorità.
Non essendoci il Papa, l’Autorità non sarebbe piú personificata,
quindi non sarebbe piú presente nel creato per il suo tramite naturale.
In questa ottica, l’Autorità resta presente nel mondo soprattutto
tramite i vescovi. Ora, nel caso in cui si pretendesse che un papa non
è un papa, ne deriverebbe che tutti i vescovi da lui ordinati non
potrebbero essere vescovi; e se tale situazione si protraesse nel tempo,
fino alla scomparsa di tutti vescovi regolarmente ordinati, ne deriverebbe
la scomparsa della stessa successione apostolica e, quindi la scomparsa
della Chiesa. Il che è ancora impossibile.
Certo, è ben comprensibile che molte volte possa accadere che qualcuno di noi, esasperato dalla situazione difficile in cui si trova rispetto alla pratica della Fede, possa giungere a formulare una qualche giustificazione per soddisfare l’esigenza di razionalità. E una tale possibilità è ancora piú frequente presso individui che posseggono una acuta intelligenza speculativa e una forte personalità. Ma la oggettiva condizione in cui ci si trova e le qualità individuali che si posseggono non bastano a giustificare certe conclusioni, poiché allora si dovrebbe ammettere che quello che piú conta è la difficoltà della vita e l’intelligenza personale per superarla. Ora, se questo può essere accettabile in riferimento alla semplice sopravvivenza umana, non può esserlo nel caso della pratica delle Fede e delle questioni teologiche ad essa connesse; al contrario, in questo caso il sacrificio personale, il combattimento interiore con le proprie convinzioni e con le proprie problematiche esistenziali, la convivenza con le difficoltà e con le contraddizioni del tempo in cui si vive e del contesto in cui si è nati, sono tutti fattori che compongono quella croce di cui parlava Nostro Signore insegnando ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8, 34). Resta ancora da vedere, però, come sia possibile far coesistere la condanna e il rifiuto di una dottrina errata e del Papa che la propone, insieme al doveroso ossequio che si deve allo stesso Papa in quanto personificazione dell’Autorità.Occorre innanzi tutto tenere in mente che l’Autorità personificata dal Papa continua a rimanere presente indipendentemente dall’esercizio che il Papa ne fa. Anche quando il Papa commette degli errori, sia pure di ordine dottrinale, la personificazione dell’Autorità non viene meno, poiché diversamente ci si troverebbe al cospetto di una inversione dei valori. Dal punto di vista umano, l’Autorità non sarebbe piú la fonte di sé stessa, ma dipenderebbe dalla correttezza del Papa che la esercita. Come dire che l’Autorità soccomberebbe agli errori del Papa. Il che, non solo è impossibile in linea di principio, ma è impossibile anche il linea di fatto. Ogni insegnamento papale è, fino a prova contraria, infallibile,
non in quanto è il Papa ad essere infallibile, ma in quanto è
infallibile la dottrina che egli insegna. Dottrina che non è
la sua, né potrebbe esserlo, nel suo caso come nel caso di chiunque
altro, poiché la sana Dottrina non può essere il parto della
mente di qualcuno, ma è l’insegnamento che viene direttamente da
Dio. Infatti, è solo in questo senso che il termine Tradizione assume
tutto il suo vero significato: Essa è l’insieme degli insegnamenti
divini che viene regolarmente “trasmesso” lungo la linea della successione
apostolica, arricchito da tutti i contributi esplicativi che nel corso
dei secoli hanno apportato i Padri, i Santi e il Magistero.
Chi decide, allora, quando il Papa sbaglia?
Per capire questa palese contraddizione non v’è certo bisogno
di essere laureati in teologia dogmatica.
E mentre si riconosce che il Papa insegna una cosa scorretta, e la si rifiuta, ci si ricorda di tenere fermo che egli, nonostante tutto, continua ad essere la personificazione dell’Autorità; poiché se si vuole mantenere interamente la coerenza con la Tradizione è necessario che la si segua sia nel rigettare l’errore, sia nel rispettare il segno tangibile dell’Autorità: lo stesso Papa che sbaglia. C’è solo da precisare che certi discorsi complicati di tipo
normativo e giuridico, pur mantenendo la loro relativa legittimità,
non attengono, propriamente parlando, alla sana Dottrina e alla Tradizione.
Essi attengono primariamente alle ricerche specifiche degli specialisti
della giurisprudenza e, come tali, sono spesso viziati da preoccupazioni
di ordine formale che nel corso della vita della Chiesa hanno prodotto
piú danni che utili.
È questo il caso della stessa disputa che spesso si tiene sulla
“infallibilità” papale.
Per finire, ci sembra opportuno precisare che queste nostre considerazioni non hanno alcuna pretesa esaustiva: l’argomento di cui si tratta presenta seriamente molti aspetti difficili e controversi, soprattutto dal punto di vista dei comportamenti pratici dei fedeli. Nostro scopo è stato solo quello di indicare alcuni elementi di riflessione che possono concorrere ad affrontare la questione con maggiore compiutezza, tenendo presente che tali elementi, per la loro natura, hanno una connotazione di imprescindibilità. Giovanni Servodio
(aprile 2002)
ALLA PRIMA PAGINA (Home)
|