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Il discorso per la chiusura della
IL "MAGISTERO CORRETTIVO" DI
Una riflessione
In un recente intervento, tenuto per la chiusura della Sessione Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede (1), il Santo Padre ha fatto accenno, con tono preoccupato, ad un sempre più evidente “problema di trasmissione delle verità fondamentali” all’interno della compagine ecclesiale, problema che, secondo quanto sembrerebbe evincersi dalle parole dello stesso Pontefice, ben al di là delle difficoltà legate al tormentato ambito del “confronto” con il laicismo dominante e del cosiddetto “dialogo” con le istanze del mondo contemporaneo, tenderebbe ormai a investire tout court i fedeli, la cui formazione religiosa si presenterebbe a tal punto lacunosa da apparire di fatto sprovvista perfino del “lessico” fondamentale di ciò che attiene al “retto credere” e al “retto agire” cattolico. Chiosando il laconico eppur fortemente significativo pronunciamento papale, peraltro pienamente consonante a una serie di interventi che stanno caratterizzando il magistero più recente del regnante Pontefice, si potrebbe dire che, a quarant’anni esatti dall’inizio del Vaticano II - e di fatto alle soglie della conclusione di un pontificato intensamente “missionario” (che allo spirito autentico di quel Concilio ha inteso più volte in modo esplicito richiamarsi) - la Suprema Autorità Apostolica, con valutazione - potrebbe dirsi - di carattere quasi “simmetrico” rispetto all’ottimismo ingenuamente trionfalistico della “Gaudet Mater Ecclesia” (2), attesta di fatto in modo inequivoco non solo che quell’espansione nel mondo del Cattolicesimo nei fatti non vi è stata (espansione preconizzata dall’Assise Ecumenica quale effetto della “spinta missionaria” che appunto il Concilio volle imprimere), ma che addirittura, tertio millennio ineunte, è dato piuttosto registrare un sensibile arretramento - o comunque una significativa ibridazione - del “sensus fidei” proprio all’interno stesso del corpo ecclesiale. L’amara constatazione del Santo Padre, a volerne cogliere le molteplici
risonanze, appare a dir poco dirompente, soprattutto in quanto, ben al
di là della mera registrazione di un pur drammatico stato di fatto
di cui ormai nessuno può porre in dubbio la consistenza, mette a
fuoco con grande lucidità un fenomeno patologico di dimensioni sempre
più estese, la cui manifestazione non può evidentemente non
rimandare a un “vulnus” assai grave che ferisce nel profondo l’intero tessuto
ecclesiale.
Sebbene il tenore della nota pontificia si allinei perfettamente allo stile corrente del linguaggio curiale - programmaticamente imperniato, in ossequio alle direttive sancite dal Vaticano II, sull’interdizione sistematica all’uso da parte della Gerarchia di un esplicito linguaggio censorio quando si tratti di esprimere valutazioni che pongano all’attenzione dei cattolici proble-matiche di fondo riguardanti la vita della Chiesa (circostanza che trova peraltro giustificazione ancora maggiore nel caso in esame, in cui sono addirittura oltre trent’anni della vita della Chiesa ad essere - per così dire - sul banco degli imputati) - la forma espressiva del pensiero del Santo Padre appare piuttosto perspicua e non lascia residuare soverchi margini di dubbio quanto alla sua sostanza concettuale: non si vede infatti in quale altro modo sia leggibile l’intervento del Pontefice (che Egli ne abbia avuto piena consapevolezza o meno) se non come una vera e propria “dichiarazione di fallimento”, fornita del più autorevole dei sigilli, di un’intera fase ecclesiale rappresentata da un certo “modo” di essere e di fare Chiesa, il quale deve ritenersi esemplarmente rappresentato dalle riforme post-conciliari che hanno interessato la liturgia e la pastorale. Vediamo di circostanziare meglio quanto affermato. È a tutti noto come il “nuovo corso”, varato dal Vaticano II,
sia stato precipuamente voluto dalla maggioranza dei Padri conciliari (almeno
nelle intenzioni dichiarate) affinché la Chiesa potesse vivere una
nuova “primavera missionaria” che le consentisse di riconquistare alla
Santa Fede Cattolica tanto i popoli ancora non cristiani, quanto soprattutto
quelli decristianizzati (questi ultimi da coloro - giova precisare -
che per secoli hanno condotto e tuttora conducono una guerra senza esclusione
di colpi contro la Chiesa di Dio e ai quali il Concilio chiedeva, messe
da parte le ormai “superate” contese del passato, di collaborare in nome
di un non ben identificato “servizio all’uomo” al quale la Chiesa
stessa intendeva d’allora in avanti tutta consacrarsi): tale volontà,
come è noto, per un verso si basava sul presupposto, evidentemente
assunto per scontato, della “solidità” della fede del popolo cristiano,
(ovvero in coloro che all’epoca si dichiaravano cattolici e che sicuramente,
antecedentemente al Concilio, identificavano ancora una precisa realtà
culturale denominata “Cattolicesimo”); mentre per altro mirava, “finalmente”,
a porre la Chiesa in grado di “parlare” al mondo con rinnovata e accresciuta
efficacia (resta poi a tutt’oggi un mistero come mai nessuno dei “nuovi
evangelizzatori” si sia chiesto come avesse fatto il Cattolicesimo sino
a quel momento a diffondersi sino ai più remoti angoli della terra!).
Ebbene, oggi - al principio del terzo millennio dell’Era Cristiana -
è sotto gli occhi di tutti - e il discorso del Santo Padre non fa
altro che prenderne tristemente atto - come questa gigantesca quanto
temeraria operazione si sia risolta in un fallimento di dimensioni epocali,
le cui proporzioni non lasciano residuare neppure il benché minimo
aspetto meritevole di una valutazione positiva.
Non crediamo dunque di errare affermando che si debba attribuire all’intervento di Giovanni Paolo II il valore di una dolente riflessione sui frutti di un’intera stagione della vita della Chiesa e, insieme, sulla “qualità” della crisi ecclesiale in atto, attraverso cui viene evidenziata la piena acquisizione e la positiva cognizione, da parte del Supremo Pastore, della specificità e dell’assoluta peculiarità dello stato presente in cui versa la Chiesa Cattolica, il quale “dice”, tanto sul piano degli effetti quanto soprattutto in ordine alle cause, una fra le crisi più gravi (o forse la più grave in assoluto) che la Chiesa abbia attraversato lungo il corso della sua ormai bimillenaria storia. Le parole del Pontefice individuano infatti assai correttamente la connotazione
di fondo del “male oscuro” che consuma la Cattolicità attuale: l’evaporazione
di quella che potrebbe definirsi la “struttura fondamentale” della Fede,
rilevata sintomaticamente da Giovanni Paolo II come “problema di trasmissione
di verità fondamentali”.
Ecco allora acutissimamente sintetizzato il senso profondo della grande sofferenza che affligge la Chiesa postconciliare, sofferenza storicamente inedita, per lo meno in ambito cattolico (7), che sta di fatto devitalizzando il Cattolicesimo contemporaneo: il quale, al di là ed oltre la pur connessa ed altrettanto spinosa questione del senso autentico della missionarietà e dell’apostolato nel mondo d’oggi, appare in realtà sfibrato dal devastante diffondersi “intra Ecclesia” di una vera e propria “paneresia latente”, che trova espressione tangibile nel progressivo disfacimento del Cattolicesimo stesso in quanto figura dottrinale e, conseguentemente, quale identità storica capace di esprimersi in una prassi coerente a un sistema di Verità dogmatiche codificate. A quarant’anni dall’apertura del Vaticano II e a trentasette dalla sua conclusione giunge dunque alla “base” l’onda di piena della crisi della teologia cattolica che, penetrando nei lavori dell’Assise Ecumenica, ha insinuato nei documenti che da essi risultarono tutte quelle ambiguità e contraddizioni che le riforme postconciliari si sono solo preoccupate di far esplodere, concretizzandosi prima come crisi del clero e successivamente come crisi complessiva della Chiesa. Quale sia l’esito ultimo di tale processo degenerativo abbiamo imparato
a capirlo sempre più in questi ultimi anni: in effetti, nella cognizione
comune di molti, cattolici e non, ad un Cattolicesimo imperniato sul primato
della Grazia sovrannaturale, si va lentamente sostituendo (o si è
già sostituito quale tappa intermedia che prelude inevitabilmente
alla scomparsa della Fede) un cristianesimo adogmatico, a dimensione puramente
“esistenziale” e immanente, desovrannaturalizzato e moraleggiante, caricaturalmente
pelagiano e protestantizzato al tempo stesso, interamente adattabile a
qualsiasi modello culturale e pertanto “disponibile” a essere interpretato
alla stregua di una prassi intrastorica del tutto slegata da ogni riferimento
metafisico ed escatologico.
Che fare allora? In quale modo agire prima che la disgregazione della Cristianità
si compia definitivamente, condannando il Cattolicesimo a una dimensione
di residualità?
Il magistero di quest’ultimo scorcio di pontificato di Giovanni Paolo
II accusa, per un verso, piena contezza da parte del Successore di
Pietro come di tutta la Gerarchia, dell’esistenza di un grave “stato di
emergenza” dottrinale e manifesta soprattutto con palmare evidenza la grande
preoccupazione dell’anziano Pontefice per le sorti future del Cattolicesimo
Il susseguirsi, particolarmente intenso negli ultimi tempi, di documenti
“centrati” sul tema dell’ortodossia costituisce, in questo senso, un contributo
sicuramente assai importante mediante cui il Santo Padre - ponendosi contro
una certa concezione puramente “prassistica” del Cristianesimo ancora molto
in voga in quegli ambienti cattolici secolarizzati maggiormente compromessi
nell’abbraccio mortale con il laicismo - sta cercando di tracciare le linee
guida da seguirsi per reagire al delineato disfacimento del Cattolicesimo
e di promuovere quella che potremmo definire una vera e propria “rievangelizzazione
interna”.
Il “magistero correttivo” di Giovanni Paolo II - entro il quale a pieno diritto l’intervento in esame si colloca - sollecita tuttavia alcuni gravi interrogativi: riaffermare infatti sic et simpliciter il primato dell’ortodossia, seppur debba indubbiamente ritenersi un essenziale “momento” intorno a cui fare perno in quello che dovrà essere lo sforzo catechetico della Chiesa del terzo millennio, corre seriamente il rischio di rimanere una pura petizione di principio, e ciò per due ragioni fondamentali: in primo luogo in quanto, inibendosi un’adeguata indagine sulla natura “profonda” della crisi ecclesiale, non consente un’autentica comprensione delle ragioni di fondo che hanno condotto la Chiesa al presente stato di dissesto dottrinale, impedendo di fatto l’elaborazione di una corretta ed efficace strategia complessiva nella quale si specifichi nel dettaglio quali debbano essere le modalità concrete attraverso cui tale primato vada riaffermato, circostanza quest’ultima che non può evidentemente prescindere da un adeguato approfondimento sul piano eziologico dell’attuale stato di crisi; ma anche per il fatto di non tenere in alcun modo debitamente conto di quella che è la situazione attuale della Chiesa, segnata da una sensibile erosione del principio di autorità e da una conseguente diffusa “impermeabilità” alle direttive romane di vasti settori del mondo cattolico, e perfino di talune diocesi, ormai palesemente insofferenti ad ogni forma di esercizio del potere magisteriale. Cerchiamo allora, pur con gli scarsi mezzi a nostra disposizione, di abbozzare un’analisi della situazione in atto, ragionando soprattutto su dati il più possibile incontroversi quali sono quelli offerti dalla ricognizione della storia recente della Chiesa, la quale, in conformità al principio di primazia dell’ortodossia affermato dal Pontefice, ci permetta in qualche modo di ipotizzare quali misure tra quelle possibili, in particolare operando in ciò che la Chiesa compie di essenziale, potrebbero rivelarsi in grado di avere un’effettiva incidenza nella vita ecclesiale. Abbiamo poc’anzi fatto riferimento a come le riforme postconciliari abbiano operato modificativamente sull’intero spettro delle attività ecclesiali, ossia in modo complessivo su quelli che, con linguaggio ormai ritenuto obsoleto, si definivano i “munera Ecclesiae”: i quali si sostanziano, oltre che nel potere-dovere di ordinare il popolo cristiano sotto la guida della Gerarchia (munus regendi), nell’opera di trasmissione della santa dottrina (munus docendi) e, soprattutto, nella santificazione dello stesso attraverso l’amministrazione dei sacramenti (munus sanctificandi). I tre aspetti, i quali sono ovviamente tra loro fortemente interconnessi e reciprocamente interagenti, sono stati, come si è accennato, tutti pesantemente “incisi” dal rinnovamento postconciliare. Il primo con la riforma dell’organizzazione ecclesiastica, segnata da un sensibile ridimensionamento dell’autorità papale, dovuta, per un verso, ad una sempre maggiore preponderanza del principio collegialistico, e per l’altro soprattutto a quel fenomeno definibile come di “atomizzazione” ecclesiale, in cui le diocesi - come pure altre entità ecclesiali di formazione sia antica che più recente - tendono a comportarsi alla stregua di “monadi”, praticamente slegate da ogni vincolo di carattere gerarchico e quasi completamente autore-ferenziali. Il secondo come riforma complessiva della pastorale e della catechesi, dominate sempre più da una cristologia asacrificale che, slegata dalla visione complessiva del mistero cristiano restituitaci dalla Tradizione, ha finito coll’operare una sorta di “rilettura” delle categorie fondamentali dell’edificio dottrinale cattolico; “rilettura” ottenuta attraverso una criptica “reinterpretazione” della teologia e dell’antropologia cristiana. Il terzo come vasta riformulazione della liturgia, che costituisce la “preghiera” per eccellenza della Chiesa, come pure lo scrigno in cui sono custoditi quei “segni” della fede attraverso i quali, secondo la teologia cattolica, nella Chiesa è comunicata la grazia, cioè quella “forza” soprannaturale che, nell’interazione con la libertà, rende possibile la salvezza dell’uomo. Seppur si tratti indubbiamente, come si è accennato, di tre momenti strettamente correlati tutti di capitale importanza, è possibile sostenere (ci esprimiamo naturalmente con approssimazione) che ve ne sia uno il quale si ponga in posizione di priorità, almeno nel senso di “contenere” gli altri, esprimendo sinteticamente ed esemplarmente il “tutto” della Fede? Riteniamo di poter affermare senza tema di equivoco che questo momento sia rappresentato dalla liturgia, il cui vertice apicale è costituito dalla Santa Messa, la quale riveste, come si avrà modo di approfondire meglio, una posizione di assoluta centralità, rappresentando un “primum” non solo in quanto “culmine e fonte della vita della Chiesa” (10), ma anche per la non secondaria circostanza di costituire di fatto la “prima scuola della nostra vita spirituale” (11). Sul punto lo stesso Pontefice, che già più volte aveva sottolineato il legame strettissimo e organico tra il rinnovamento liturgico e il rinnovamento dell’intera vita della Chiesa (12), affrontando il tema “Eucaristia e Chiesa” - che costituiva il secondo argomento di riflessione della Plenaria dell’ex Sant’Uffizio - di fronte al consesso responsabile dell’altissimo compito della custodia e della preservazione dell’ortodossia cattolica ed immediatamente dopo essersi riferito alla sopra detta crisi “dottrinale”, evidenzia ancora una volta il profondo legame sussistente tra fede e liturgia, sintetizzato nel menzionato principio “lex credendi legem statuat supplicandi” (la fede regola l’orazione e viceversa) (13), in particolare ricordando - con autorevolezza degna del Suo altissimo carisma e quasi a voler porre ancora una volta una sorta di “baricentro” dogmatico - il fondamentale principio secondo cui “la drammaticità del Sacrificio Eucaristico del Cristo - sorgente della vita della Chiesa - non permette una sua riduzione a semplice incontro conviviale, ma rimane sempre come segno di contraddizione e quindi anche di verifica della nostra conformità alla radicalità del suo messaggio, sia nei confronti di Dio che degli altri fratelli” (14). La considerazione del Ponte
È nella crisi liturgica che nasce e si risolve la crisi dogmatica,
cioè in definitiva l’intera crisi del Cattolicesimo contemporaneo?
Obiettivo di questa riflessione vuol essere quello di dimostrare come il primato dell’ortodossia nella dottrina, in ragione dell’indissolubile vincolo stabilito dalla teologia cattolica tra lex orandi e lex credendi, da una parte, e tra ortodossia e ortoprassi ed economia sacramentale, dall’altra, passi necessariamente attraverso una piena riaffermazione-restaurazione dell’ortodossia della liturgia, il cui “centro” unificante risiede nel concetto di Sacrificio - di fatto obliterato nella liturgia riformata - attraverso cui è mirabilmente espressa la globalità del Mistero Cristiano e insieme definito il modello archetipico esemplare della pratica religiosa. Successivamente ci si sforzerà di approfondire, tenendo anche conto della assoluta peculiarità della fase attualmente attraversata dalla Chiesa, quali riflessi le conclusioni cui si perverrà, sostanziantesi nell’assoluta necessità di riaffermazione della centralità dell’aspetto “sacrificale” del Cristianesimo sul piano teologico-liturgico, comportino nella presente situazione di instabilità dottrinale, in particolare quanto ai necessari e indifferibili interventi da adottare sul fronte liturgico. * * * Una corretta posizione della questione richiede evidentemente una necessaria
- seppur sommaria - enucleazione di alcuni fondamentali elementi teologici
sottesi alla problematica in oggetto, che converrà riportare succintamente
alla memoria, seppur si tratti di concetti fondamentali di dottrina un
tempo assolutamente scontati e pacifici, ma su cui oggi non è mai
sufficiente insistere, in ragione di una certa confusione diffusasi intorno
ad essi in taluni ambienti cattolici più attenti a equilibri politico-ecumenici
che - per dirla col Pontefice - alla esigente testimonianza alla Verità
imposta dalla radicalità del messaggio evangelico.
Cerchiamo di commentare le densissime espressioni riportate, in particolare sforzandoci di coglierne tutti i precipitati tanto sul piano dottrinale che su quello pastorale. La Tradizione immutabile della Santa Chiesa ci fornisce in proposito tutti gli elementi utili a un loro adeguato approfondimento. Essa, nel restituire attraverso l’inscindibile unità sussistente tra teologia (discorso sull’essenza di Dio), ecclesiologia (riflessione sulla natura della Chiesa) e spiritualità (pratica della perfezione cristiana) il senso integrale di una visione complessiva del Mistero della Salvezza, insegna, in piena conformità con la Santa Scrittura, che perché vi sia santità della Chiesa - Corpo Mistico di Cristo - e santificazione dei fedeli - che del Corpo Mistico sono le membra vive - non può essere sufficiente una mera acquisizione intellettuale, ancorché approfondita, delle Verità della Fede: il loro possesso intellettuale puramente “naturale” non può infatti tradursi in vera “conoscenza” (17) e, conseguentemente, in autentica vita spirituale (18) - come partecipazione alla vita divina - se non sotto l’azione della Grazia santificante, che lo Spirito effonde nella Chiesa (19) - instituta per fidem et fidei sacramenta (20) - per la santificazione delle anime attraverso l’economia sacramentale, mediante la quale la Grazia stessa “tocca” intimamente ogni battezzato il quale, lasciandosi liberamente fecondare da questa, è trasformato interiormente e reso giusto dinanzi a Dio. I sacramenti sono dunque, secondo la Tradizione della Chiesa, gli “strumenti” mediante i quali, entro lo sfondo della preghiera, è resa possibile, in quel luogo di santificazione voluto e divinamente assistito da Cristo e dal suo Spirito, che è l’unica Santa Chiesa Cattolica Apostolica, la vita di grazia del credente, il primo tra i cui effetti è appunto quello di rendere quest’ultimo permeabile alla luce dello Spirito e docile alla Verità rivelata per successivamente aprirlo alla pienezza della vita spirituale. Se dunque la centralità della dinamica della grazia fa sì che la Fede Cattolica possa dirsi davvero la “Religione della Grazia”, è però altrettanto vero che il Cattolicesimo è eminentemente tale in virtù dell’assoluta centralità di un altro mistero, che ne fa primariamente la “Religione del Sacrificio”, emble-maticamente rappresentata appunto da quel “segno” che sin dai suoi primi albori ne ha rappresentato l’emblema per eccellenza: la teologia da sempre ha individuato questo “centro vitale” della Fede Cattolica nel Mistero della Croce, identificando il Sacrificio Espiatorio dell’Uomo-Dio come l’evento centrale del piano salvifico di Dio, sia nella sua storicità, in quanto autentico “fatto fondativo” del Cristianesimo come religione positiva, sia nella sua “ripresentazione” sacramentale nel culto quale perenne fonte di edificazione e santificazione della Chiesa. I sacramenti infatti, quali veicoli mediante cui è comunicata la Grazia al Corpo Mistico e attraverso cui la Chiesa è costituita nella fede, rinvengono in quanto fonte di santificazione il loro “centro unificante” e sono in qualche modo ricondotti all’unità proprio in questo Mistero, che è il “cuore” teologico della Religione Cattolica, lo stesso dal quale la Chiesa è sgorgata, che continuamente la vivifica e per propagare i cui effetti salvifici sussiste e sussisterà intangibile e indefessa sino alla seconda venuta del Signore. Per chiarire meglio questo fondamentale passaggio, nel quale è evidenziato l’inscindibile nesso sussistente tra orazione, grazia e liturgia, è utile riportare succintamente alla memoria l’insegnamento dogmatico dal Sacrosanto Concilio Tridentino sul Santo Sacrificio della Messa. Definendo la natura della Santa Messa come Sacrificio Incruento di Cristo, cioè come Offerta che Nostro Signore fa di Se Stesso per le mani del ministro ordinato (ontologicamente e gerarchicamente “altro” dal semplice fedele) agente “in Persona Christi”, e come Mistero in cui appunto è “ripresentato” misticamente sull’altare il Sacrificio dell’Uomo-Dio che si consumò una volta per sempre in modo cruento sul Calvario, il Concilio Tridentino insegna come proprio attraverso il Sacrificio Eucaristico - che è lo stesso Sacrificio della Croce, dal quale differisce solo per il “modo” dell’offerta - si renda nell’unico vero sacerdozio l’unico vero culto all’unico vero Dio e si effonda quindi la Grazia sulla Sposa di Cristo e su tutto il popolo cristiano, al quale viene offerta la pienezza dei mezzi soprannaturali necessari alla sua vita spirituale. Il Sacrificio della Nuova Alleanza, quale unico atto di culto gradito al vero Dio, costituisce allora il principale mezzo di santificazione e nel contempo la fonte del sacramento più grande (e di tutti gli altri sacramenti) (21), mentre il sacramento altro non è se non l’applicazione all’anima dei meriti che scaturiscono dal Sacrificio del Divino Redentore: in questo senso dunque, come autorevolmente insegnato da Pio XII (22), il sacramento costituisce in certo senso il “contatto” con il Sacrificio di Cristo, il Quale, affidando alla Sua Chiesa l’“Oblatio Munda” del suo Corpo e del suo Sangue, stabilì quale dovesse essere il modo in cui elevare a Dio il sacrificio gradito, disponendo insieme come la sua oblazione sacrificale, travalicando soprannaturalmente le barriere dello spazio e del tempo, dovesse con la sua forza salvifica “toccare” ogni redento nella storia. Ma se nel Sacrificio risiede il cuore della Fede Cattolica, allora è evidente come nell’espressione liturgica attraverso cui è resa possibile, per azione dello Spirito Santo, la perpetuazione sacramentale di quello che per la Religione Cattolica è il “fatto salvifico” per eccellenza, debba essere parimenti contenuta la codificazione linguistica più perfetta della Verità rivelata, altresì chiarendosi in quale modo all’inscindibile nesso intercorrente tra “lex credendi” e “lex agendi” - tra ortodossia e ortoprassi - si affianchi l’altrettanto inscindibile vincolo che entrambe le avvince alla “lex orandi”. Nell’azione liturgica sacrificale, insieme massimo luogo di culto e sorgente della vita di grazia, l’ortodossia della “lex credendi” è dunque compiutamente significata e inequivocabilmente proclamata con la totalità del Mistero Cristiano: in essa infatti la Chiesa prega e si santifica, nel contempo “ordinando” il popolo cristiano e insegnandogli ciò che deve credere, ciò che deve operare e ciò che deve sperare. Ma è pur vero che, se quanto sinora esaminato ci consente di comprendere sul piano teologico in che senso il Santo Sacrificio della Messa si ponga, nel tempo tra la prima e la seconda parousìa, come il fulcro della Fede e il centro di tutta l’economia sacramentale (la quale per sua stessa natura, “dice” il Sacrificio, al quale è astretta da indissolubile legame), l’analisi da ultimo svolta del profilo dottrinale espresso nella nota massima teologica “legem credendi lex statuat supplicandi” stimola qualche ulteriore considerazione relativa all’altissimo valore “pedagogico” della liturgia cattolica ortodossa, evidenziando un profilo catechetico-pastorale di enorme rilievo. Se infatti, il Santo Sacrificio della Messa, oltre che principale fonte
di santificazione e “forma” perfetta della lode da tributare a Dio, si
pone quale espressione esemplare della “recta fides”, è evidente
come costituisca, nel suo valore di “summa” dogmatica che le spetta anche
in quanto “legge del credere”, una sintesi mirabile della Verità
Cattolica.
Cerchiamo di esplicitare meglio questo concetto. Se sul piano teologico il Sacrificio di Nostro Signore, nella sua dinamicità intertrinitaria, è il “modo” attraverso cui il Dio Triunico rende conoscibile, secondo quanto è consentito dal Suo volere all’umana capacità, la Sua Natura di Mistero ineffabile di Amore come Comunione di Persone sussistenti ciascuna “per” l’altra (il Figlio offre Se Stesso al Padre nello Spirito), rivelando nel contempo l’incommensurabile amore del Dio Trinitario per l’uomo, per il quale la Divinità giunge sino alla “follia” della Croce, sul piano antropologico il Sacrificio manifesta l’essenza autentica dell’uomo in cui è inscritta la “misura senza misura” mediante cui la Trinità, chiamando l’uomo stesso sin da questa vita alla comunione con Sé affinché possa di Lui godere nella beatitudine eterna, chiede di essere incondizionatamente amata attraverso l’imitazione dell’Unigenito fatto uomo. La Croce dunque non solo rivela l’essenza di Dio e la natura dell’uomo, chiamato in Cristo a “essere per Dio”, ma rivela anche, in quanto forma perfetta della carità e sintesi esemplare delle virtù cristiane, la via prescelta dal Dio Trinitario affinché ogni redento possa pervenire a Lui. In questo senso il Sacrificio è dunque l’emblema dell’antropologia teocentrica cristiana, mediante cui si afferma l’orientamento totale a Dio come autentica verità dell’uomo e nel contempo si definisce - nel sacrificio di se stessi innestato a quello del Cristo - la “forma” dell’apertura incondizionata dell’umano al divino, resa possibile dalla grazia di cui la natura umana, per i meriti del Divino Redentore, viene rivestita mediante i sacramenti. Vi è presente, dunque, teologia e antropologia, ma anche ecclesiologia, se è vero che la Santa Messa, oltre che “compendio” teo-antropologico del Cristianesimo, reca pure - in un momento di grave confusione quale quello in cui ci troviamo a vivere - un essenziale profilo ecclesiologico: il Sacrificio della Croce infatti, oltre a “dire” l’essenza di Dio e la vocazione dell’uomo, “dice” la Chiesa di Cristo, scaturita dal Sacrificio e per il Sacrificio sussistente, Chiesa della quale rende comprensibile nella fede la natura di realtà divino-umana e di luogo di santificazione in cui massimamente si esprime il mistero dell’azione di Dio nella storia, restituendone altresì la strutturalità gerarchica espressa nella “verticalità” della distinzione dei ministeri. Anche la Chiesa, infatti, prosecuzione storica dell’opera della redenzione scaturita dalla Croce, sussiste “per” il Sacrificio, del quale è chiamata a propagare gli effetti salvifici sino al ritorno del Signore alla fine dei tempi: in essa, nella quale è stabilito il vero sacerdozio cattolico il cui “centro” consiste appunto nell’offerta di quel Sacrificio Eucaristico che è sorgente di tutta la vita ecclesiale, è elevato nella storia il vero culto all’unico vero Dio; e il popolo dei redenti, retto dai ministri ordinati, associandosi alla lode eterna di Maria Santissima, degli Angeli e dei Santi che nella liturgia terrestre è chiamato a pregustare, riceve, nella confessione della vera fede, la pienezza della Grazia e della Verità rivelata, in tal modo compaginandosi quale Corpo Mistico di Cristo, unico gregge sotto un unico pastore. La ricostruzione sin qui fatta si è dunque sforzata di dimostrare come la centralità del Sacrificio Eucaristico nella vita della Chiesa comporti inevitabilmente che, ferita la Messa Cattolica, tutto il Cattolicesimo, tanto sul piano dogmatico che su quello catechetico-pastorale, ne risulti necessariamente ferito, risultandone compromessa, insieme all’economia della grazia santificante, la stessa trasmissione e la pratica della fede. Tanto puntualizzato sotto il profilo dottrinale, una seppur sommaria ricognizione delle principali liturgie orientali e occidentali ci conferma in modo inequivoco come in queste si ritrovi di fatto mirabilmente codificata la pienezza del Mistero Cristiano, la cui “sacrificalità” è espressa con cristallina purezza massimamente nella liturgia antica della “Madre di tutte le Chiese”, ossia in quella liturgia romana che San Pio V riordinò e donò alla Chiesa Latina, fissando nel Messale Romano, che da Lui impropriamente prese nome, le espressioni più belle che lo Spirito Santo - e non già una fredda commissione di “esperti” - ha suggerito consegnandole alla Cristianità sin dai tempi dei Padri. In particolare la Liturgia Romana tradizionale (la quale riposa sull’assunto teologico fondamentale secondo cui: ‘l’Eucaristia è un Sacrificio e anche un memoriale’) mediante la menzionata “accentuazione” della valenza sacrificale dell’atto di culto, chiarisce come nessun’altra, in una forma insuperabile e superiore alle stesse liturgie dell’oriente cristiano, il rapporto di dipendenza “ontologica” tra Sacrificio e Sacramento, evidenziando attraverso il concetto di “participatio” (23), l’autenticità della dottrina cattolica della grazia e quindi, di riflesso, il senso complessivo dell’antropologia soprannaturale cristiana. Ma se è vero - e la formidabile capacità di santificazione
nei secoli della liturgia romana ancor di più dell’analisi teologica
sta a dimostrarlo senza alcuna possibilità di equivoco - che in
ogni parola del Messale Tridentino si sente davvero risuonare la pienezza
del Cattolicesimo e nel contempo pulsare la vita autentica della Chiesa,
possiamo dire altrettanto della liturgia riformata attualmente celebrata?
Riprendendo il concetto poc’anzi espresso a proposito della Messa Tridentina, si può probabilmente a ragione affermare che, se l’assunto teologico essenziale posto a fondamento della liturgia tradizionale della Chiesa Cattolica, in assoluta consonanza con l’insegnamento dogmatico del Concilio Tridentino, era sintetizzabile nell’espressione secondo cui: ‘l’Eucaristia è un Sacrificio e anche un memoriale’, le teologie moderne, sulla cui base è stata elaborata la liturgia riformata, affermando di fatto che: ‘l’Eucaristia è un pasto e un memoriale, e anche un Sacrificio’, operano uno strano “rovesciamento” delle due proposizioni, delle quali la principale (o forse, come sarebbe meglio dire, la fondamentale) risulta posposta alla secondaria, la quale è tale non dal punto di vista sintattico, ma sul piano teologico, stante la “priorità”, per dir così, ontologica del Sacrificio rispetto al Sacramento, che sopra ci siamo sforzati di enucleare. La diversità, che parrebbe poggiare su una irrilevante sottigliezza (qualcuno potrebbe dire che le due proposizioni affermano esattamente il medesimo concetto), risulta in realtà foriera di conseguenze assai rilevanti, valendo di fatto una tale apparentemente innocua inversione sintattica - che sottende una differente “posizione di accenti” di valenza tutta teologica - una percezione completamente differente (quasi una riformulazione) non solo della teologia della Messa cattolica, ma dell’intero Mistero Cristiano, il cui “centro ricapitolativo” risiede, come sopra si è cercato di dimostrare, nel Santo Sacrificio Eucaristico, sacramentalmente ripresentato e pertanto espresso nel modo più perfetto nella Messa Cattolica. Ciò che in realtà deriva da questa apparentemente innocua “inversione di accenti” è, attraverso una restrizione dell’idea di Sacrificio, la sua relativizzazione di fatto sul piano teologico ovvero la ridefinizione del suo “status” nel quadro delle verità fondamentali, con ricadute devastanti sull’intero edificio della fede, i cui effetti - oggi incontrovertibilmente riscontrabili - prendono forma in quella grande criptoeresia alla quale abbiamo fatto riferimento nella prima parte di questa riflessione. A livello liturgico, il “prevalere” della verità “comprensibile” del memoriale, “ricollocando” le fondamentali categorie teologiche dell’Eucaristia e soprattutto introducendo delle ambiguità quanto alla natura “cultica” e quindi “verticale” della Messa, attraverso un processo involutivo probabilmente non previsto neppure da chi introdusse la riforma e nel quale tanta parte hanno avuto le successive distorsioni di una prassi tuttavia “legittimata” dalla “lettera” non sufficientemente definita della nuova lex orandi, conduce a una del tutto incomprensibile sacramentalità “acefala” che, disancorata da quel Sacrificio che ne costituisce la ragione “fontale”, paradossalmente fa pian piano perdere all’Eucaristia proprio la sua consistenza specifica di “evento sacramentale” (come azione visibile entro cui opera e agisce invisibilmente il Divino), finendo coll’annichilirla in quanto “fatto sacro” e innescando quella “deriva antropocentrica”, propiziata dalla lacuna “soprannaturale” creatasi in seguito al nascondimento della verità teologica “difficile” che nella Messa è contenuta ed espressa, nella quale il fattore puramente “umano”, rappresentato dal “fatto naturale” dell’incontro conviviale in cui l’assemblea è riunita per la gioiosa condivisione del “pasto”, diviene preponderante (24). Il ridimensionamento in ambito liturgico della centralità del
sacrificio non limita tuttavia le sue conseguenze alla pur gravissima alterazione
della nozione dell’atto di culto e all’altrettanto grave oscuramento della
sua pregnanza soprannaturale, ma comporta anche dei gravissimi precipitati
sul piano teologico e antropologico.
È evidente che l’assolutizzazione non debitamente circostanziata
del concetto secondo cui il Padre Celeste ha creato l’uomo per la felicità
(quale?) e ha manifestato in Cristo il suo amore (come?), - assolutizzazione
di fatto possibile a tenore di talune espressioni contenute nelle costituzioni
conciliari -, possa logicamente condurre a una vera e propria “ricomprensione”
del Mistero Cristiano, cioè ad una sua rilettura al di fuori delle
categorie consegnateci dalla Tradizione.
La cristologia asacrificale secolarizzata reagisce dunque sulla teologia
e sull’antropologia cristiana, ma produce ovviamente effetti eversivi anche
sull’ecclesiologia: infatti l’orizzontalità che, per effetto dell’affermata
priorità del carattere “memoriale” della liturgia, pone in
primo piano l’assemblea liturgica nella quale il ministro ordinato in qualche
modo si “annulla”, determina logicamente un appiattimento della Chiesa
sulla sua dimensione puramente “sociale”, nonché l’esaltazione dell’aspetto
umano a detrimento di quello soprannaturale.
La sollevata questione dell’orizzontalità (o, meglio, dell’“orizzontalismo”) della nuova liturgia suggerisce infine una considerazione - per così dire - meno tecnica e di carattere generale che attiene al profilo più strettamente catechetico-pastorale della riforma liturgica e sulla quale si misura tangibilmente proprio il suo fallimento “pastorale”. A parte l’equivoco di fondo accreditato da taluni, secondo cui la celebrazione liturgica sia chiamata a sostituire tout court la catechesi (26) (la cui condizione di efficacia viene peraltro identificata, dai molti addetti ai lavori, nella banalizzazione), la caratterizzazione volutamente “semplificatoria” che ha contraddistinto sin dal momento “progettuale” la liturgia riformata, emblematicamente espressa proprio nell’esaltazione del concetto “semplice” (oltre che, ovviamente, “ecumenico”) di memoriale, la rende di per se stessa quasi strutturalmente inidonea - o comunque in ogni caso inadatta - a trasmettere proprio quelle “verità difficili”: la trascendenza di Dio, il Mistero Trinitario, la teantropicità del Cristo e il valore redentivo della Sua morte, la divino-umanità della Chiesa e la sua unicità, la transustanziazione, la dottrina della Grazia e conseguentemente, in ambito morale, l’idea della necessità della sofferenza, dell’obbedienza, della castità, della povertà etc. etc.; le quali costituiscono l’essenziale della Religione Cattolica e rendono pertanto comprensibili nel loro significato autentico tutte quelle “verità semplici”: l’amore tra gli uomini, la fraternità tra cristiani, la tensione all’affermazione della giustizia, etc. etc., che solo in apparenza il cattolico condivide con il mondo. Anche qui troviamo traccia di quell’inversione - cui abbiamo fatto sopra
riferimento a proposito della definizione della Santa Messa - la quale,
prodottasi nella lex orandi, trova un suo naturale riscontro in una apparentemente
nulla eppur sensibile modificazione della lex credendi: come infatti nella
liturgia moderna la centralità del memoriale conduce inevitabilmente
alla preponderanza dell’elemento liturgico più facilmente attingibile
a discapito della sua essenziale sostanza soprannaturale, così anche
per quelle “verità fondamentali” che primariamente proprio la liturgia
(seppur con l’indispensabile supporto della catechesi) è chiamata
a veicolare, l’assenso del cattolico “medio” tende a formarsi sempre più
sulle “verità semplici”, le quali ovviamente sono destinate a rimanere
del tutto svuotate del loro senso “cristiano” e quindi pronte ad essere
“reinterpretate” conformemente allo “spirito del secolo”.
Eccoci allora ritornati al punto dal quale eravamo partiti commentando il preoccupato messaggio del Pontefice, nelle cui parole risuona il presagio sinistro del rischio grande che si profila in questa non radiosa alba del terzo millennio dell’era cristiana: quello di un cattolicesimo completamente secolariz-zato nel quale l’essenziale è ormai irrimediabilmente perso. * * * Le considerazioni sin qui svolte, se per un verso hanno consentito di
evidenziare l’intima unione sussistente tra fede e liturgia, hanno
permesso pure di identificare quale sia stato il “centro vitale” del Credo
Cattolico, colpito a morte il quale si è potuto avviare, col concorso
anche di tanti uomini di Chiesa, lo scardinamento dell’intero edificio
della Fede, scardinamento che consiste nel voluto “nascondimento”, sia
sul piano teologico che sul piano liturgico (che del primo costituisce
espressione diretta), del concetto fondamentale di “Sacrificio”, nascondimento
attuato per compiacere lo “spirito del mondo” e nel quale si rinviene la
radice della grande “criptoeresia” che oggi pervade la Chiesa.
Se infatti il magistero - pur nelle tante contraddizioni che dilaniano la Chiesa contemporanea - sta evidenziando (anche attraverso interventi puntuali come quello esaminato) la forse ancora troppo tenue volontà della Gerarchia di combattere contro l’errore dilagante di un neocristianesimo asacrificale, in particolare attraverso la riaffermazione, in ambito dottrinale, della centralità della Croce e del Sacrificio quale Mistero “cardine” della Religione Cattolica contro tutte le relativizzazioni che tentino di ridefinirne ereticamente la collocazione nel quadro delle Verità di Fede, è pur vero che tale volontà non può limitarsi alla importante fissazione di “paletti” dottrinali che assicurino almeno “sulla carta” la permanenza della fede cattolica, ma deve necessariamente trovare il suo naturale e coerente riflesso applicativo, riportando “ordine” in ciò che è “pura ecclesialità”, cioè nella restaurazione della piena ortodossia di quel culto “pubblico” nel quale la Chiesa esprime se stessa nel modo più perfetto e compiuto. È bene però chiarire, soprattutto a vantaggio di coloro che ancora coltivano una qualche speranza che un obiettivo di tal genere sia conseguibile agendo “correttivamente” sul “Novus Ordo Missae”, che una riconduzione alla perfetta ortodossia cattolica della liturgia riformata deve ormai considerarsi un’illusione sulla quale non è bene nutrire soverchie speranze. Anche volendo infatti tacere del pur gravissimo aspetto dell’intrinseca ambiguità che ne segna la “lettera” - garantendo quei “margini di flessibilità interpretativa” i quali già di per se stessi depongono inequivocabil-mente nel senso della “pericolosità dottrinale” dell’“impianto” sotteso alla nuova lex orandi e quindi dell’assoluta necessità di un suo superamento in tempi ragionevolmente non lunghissimi - vi sarebbe in ogni caso da rimarcare che allo stato attuale la prassi, avendo in qualche modo consolidato quella percezione distorta del rito solo potenzialmente presente nella sua formulazione letterale, ha sortito l’effetto di un radicamento di fatto di un senso liturgico “errato” sia nel clero che nei fedeli, e in questi anni ha condotto le cose decisamente “troppo in là” perché sia possibile ipotizzare una significativa inversione di tendenza da ottenersi mediante interventi di carattere puntuale. Se la Fede è in pericolo, se è cioè in discussione,
con la sua permanenza e la sua continuità, la sua stessa identità,
allora nulla meglio del ripristino della Liturgia Tradizionale appare oggi
in grado di rappresentare un’“arma” formidabile nella battaglia per la
“custodia” di quel “Deposito” la cui integrità appare in pericolo:
ciò proprio perché la “sicurezza” e la solidità teologica
di detta Liturgia rappresentano un’assoluta garanzia di “cattolicità”.
La piena ed esplicita restaurazione della Liturgia Tradizionale varrebbe
a sottolineare incontrovertibilmente la permanenza e la continuità
del Cattolicesimo e permetterebbe di fornire, tra l’altro, una sorta di
“criterio di autenticità” alla cui luce leggere in modo pienamente
ortodosso sia tutto il magistero conciliare e postconciliare, sia la stessa
liturgia attualmente celebrata dalla Chiesa, in attesa naturalmente di
un suo improcastinabile superamento.
È poi evidente come tale reintroduzione debba essere accompagnata da un programma che assicuri alla liturgia cattolica ortodossa una sempre maggiore visibilità, ad esempio garantendo in ogni diocesi, come primo passo, nelle domeniche e nelle festività di precetto almeno una celebrazione secondo il rito antico nelle chiese cattedrali, in prospettiva di una sua estensione alle parrocchiali. La restaurazione dottrinale, perché possa davvero dirsi tale, postula dunque necessariamente la restaurazione liturgica: se infatti la restaurazione della Messa Tridentina rappresenta, di fatto, la restaurazione dell’autentica dottrina cattolica, allora può senza tema di equivoco affermarsi che sino a quando non si perverrà a un pieno ristabilimento della Verità Cattolica anche a livello liturgico, ogni giusto richiamo della Gerarchia alla sana dottrina non potrà purtroppo che essere vano flatus vocis destinato inevitabilmente a cadere nel vuoto. E tale ristabilimento a livello liturgico può essere realizzato attraverso quella piena liberalizzazione della Liturgia Romana che costituisce, assieme all’ormai improcrastinabile “riforma della riforma”, quell’atto dovuto che solo è in grado di attribuire la giusta “caratura” al movimento dottrinale “correttivo” mediante cui il Magistero sta cercando con fatica di dissipare i molti errori dottrinali diffusisi negli ultimi trent’anni. Niketas
NOTE (1) GIOVANNI PAOLO II: Discorso per la chiusura
della Sessione Plenaria della Congregazione per la Dottrina della
Fede. Roma, 18 gennaio 2002. (su)
(marzo 2003)
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