Il  discorso per la chiusura della 
Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede 
e la riaffermazione liturgico-dottrinale del primato dell’ortodossia 
 
 

IL  "MAGISTERO  CORRETTIVO"  DI
S.S.  GIOVANNI  PAOLO  II

Una  riflessione






In un recente intervento, tenuto per la chiusura della Sessione Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede (1), il Santo Padre ha fatto accenno, con tono  preoccupato, ad un sempre più evidente “problema di trasmissione delle verità fondamentali” all’interno della compagine ecclesiale, problema che, secondo quanto sembrerebbe evincersi dalle parole dello stesso Pontefice, ben al di là delle difficoltà legate al tormentato ambito del “confronto” con il laicismo dominante e del cosiddetto “dialogo” con le istanze del mondo contemporaneo, tenderebbe ormai a investire tout court i fedeli, la cui formazione religiosa si presenterebbe a tal punto lacunosa da apparire di fatto sprovvista perfino del “lessico” fondamentale  di ciò che attiene al “retto credere” e al “retto agire” cattolico.

Chiosando il laconico eppur fortemente significativo pronunciamento papale, peraltro  pienamente consonante a una serie di interventi che stanno caratterizzando il magistero più recente del regnante Pontefice, si potrebbe dire che, a quarant’anni esatti dall’inizio del Vaticano II - e di fatto alle soglie della conclusione di un  pontificato intensamente “missionario” (che allo spirito autentico di quel Concilio ha inteso più volte in modo esplicito richiamarsi) - la Suprema Autorità Apostolica, con valutazione - potrebbe dirsi -  di carattere quasi “simmetrico”  rispetto all’ottimismo ingenuamente trionfalistico della “Gaudet Mater Ecclesia” (2), attesta di fatto in modo inequivoco non solo che quell’espansione nel mondo del Cattolicesimo nei fatti non vi è stata (espansione preconizzata dall’Assise Ecumenica quale effetto della “spinta missionaria” che appunto il Concilio volle imprimere), ma che addirittura, tertio millennio ineunte, è dato piuttosto registrare un sensibile arretramento - o comunque una significativa ibridazione - del “sensus fidei” proprio all’interno stesso del corpo ecclesiale.

L’amara constatazione del Santo Padre, a volerne cogliere le molteplici risonanze, appare a dir poco dirompente, soprattutto in quanto, ben al di là della mera registrazione di un pur drammatico stato di fatto di cui ormai nessuno può porre in dubbio la consistenza, mette a fuoco con grande lucidità un fenomeno patologico di dimensioni sempre più estese, la cui manifestazione non può evidentemente non rimandare a un “vulnus” assai grave che ferisce nel profondo l’intero tessuto ecclesiale.
La presa d’atto esplicita, sul piano “sintomatico”, di un  cedimento “dottrinale” da parte di quello “zoccolo duro” di cattolici - come  oggi potrebbe definirsi con inelegante locuzione giornalistica il laicato cattolico “militante” - chiamato ad essere il punto di forza di quella “nuova evangelizzazione” che è stata il vero e proprio leit motiv del pontificato di Giovanni Paolo II, costituisce infatti una sorta di formale “certificazione” dell’esistenza di una vasta crisi spirituale della e nella Chiesa contemporanea, crisi di cui tale cedimento, unitamente alla constatata diffusa non recezione del magistero romano in materia morale, rappresenta con ogni evidenza l’espressione più tangibile e appariscente, emergendo ormai visibilmente in tutta la sua gravità come vera e propria “instabilità” del “Depositum Fidei”, non considerabile più “al sicuro” nel suo nucleo essenziale neppure quale acquisito possesso del popolo cristiano.

Sebbene il tenore della nota pontificia si allinei perfettamente allo stile corrente del linguaggio curiale - programmaticamente imperniato, in ossequio alle direttive sancite dal Vaticano II, sull’interdizione sistematica all’uso da parte della Gerarchia di un esplicito linguaggio censorio quando si tratti di esprimere  valutazioni che pongano all’attenzione dei cattolici proble-matiche di fondo riguardanti la vita della Chiesa (circostanza che trova peraltro giustificazione ancora maggiore nel caso in esame, in cui sono addirittura oltre trent’anni della vita della Chiesa ad essere - per così dire -  sul banco degli imputati) -  la forma espressiva del pensiero del Santo Padre appare piuttosto perspicua e non lascia residuare soverchi margini  di dubbio quanto alla sua sostanza concettuale: non si vede infatti in quale altro modo sia leggibile l’intervento del Pontefice (che Egli ne abbia avuto piena consapevolezza o meno) se non come una vera e propria “dichiarazione di fallimento”, fornita del più autorevole dei sigilli, di un’intera fase ecclesiale rappresentata da un certo “modo” di essere e di fare Chiesa, il quale deve ritenersi esemplarmente rappresentato dalle riforme post-conciliari che hanno interessato la liturgia e la pastorale.

Vediamo di circostanziare meglio quanto affermato.

È a tutti noto come il “nuovo corso”, varato dal Vaticano II, sia stato precipuamente voluto dalla maggioranza dei Padri conciliari (almeno nelle intenzioni dichiarate) affinché la Chiesa potesse vivere una nuova “primavera missionaria” che le consentisse di riconquistare alla  Santa Fede Cattolica tanto i popoli ancora non cristiani, quanto soprattutto quelli decristianizzati (questi ultimi da coloro - giova precisare -  che per secoli hanno condotto e tuttora conducono una guerra senza esclusione di colpi contro la Chiesa di Dio e ai quali il Concilio chiedeva, messe da parte le ormai “superate” contese del passato, di collaborare in nome di un non ben identificato “servizio all’uomo” al quale  la Chiesa stessa intendeva d’allora in avanti tutta consacrarsi):  tale volontà, come è noto, per un verso si basava sul presupposto, evidentemente assunto per scontato, della “solidità” della fede del popolo cristiano, (ovvero in coloro che all’epoca si dichiaravano cattolici e che sicuramente, antecedentemente al Concilio, identificavano ancora una precisa realtà culturale denominata “Cattolicesimo”); mentre per altro mirava, “finalmente”, a porre la Chiesa in grado di “parlare” al mondo con rinnovata e accresciuta efficacia (resta poi a tutt’oggi un mistero come mai nessuno dei “nuovi evangelizzatori” si sia chiesto come avesse fatto il Cattolicesimo sino a quel momento a diffondersi sino ai più remoti angoli della terra!).
Sulla base di tali tanto nebulosi quanto dubbiamente ortodossi assunti, in un ben preciso momento storico caratterizzato da un diffuso clima di speranza per il futuro dell’umanità - che in ambito cattolico dovette essere scambiato da qualcuno quasi per una sorta di “nuovo tempo messianico” -, si pose mano ad una serie di profonde riforme le quali toccarono praticamente ogni aspetto della vita della Chiesa, e segnatamente l’organizzazione ecclesiastica e la prospettazione catechetico-pastorale dei principi fondanti del credo cattolico, trovando il loro punto culminate nel cosiddetto rinnovamento liturgico, la cui introduzione - peraltro maturata interamente “all’interno” della Curia e in nessun modo richiesta né tantomeno sollecitata dalla cosiddetta “base” cattolica - si ritenne di giustificare quale “misura necessaria” imposta da tanto pressanti quanto mai ben definite “ragioni di carattere pastorale”.

Ebbene, oggi - al principio del terzo millennio dell’Era Cristiana - è sotto gli occhi di tutti - e il discorso del Santo Padre non fa altro che prenderne tristemente atto  - come questa gigantesca quanto temeraria operazione si sia risolta in un fallimento di dimensioni epocali, le cui proporzioni non lasciano residuare neppure il benché minimo aspetto meritevole di una valutazione positiva.
Infatti mentre  l’obiettivo “pastorale”, che all’epoca del Concilio dovette ritenersi prioritario se si pensa che costituì, almeno dichiaratamente, la ratio principale della convocazione dell’assise ecumenica (3), non può evidentemente in alcun modo ritenersi conseguito (4); d’altro canto, come le parole del Pontefice paiono ugualmente attestare con chiarezza inequivocabile, il cosiddetto “rinnovamento”, lungi dall’aver determinato nei cattolici un approfondimento delle ragioni del proprio credere, sta oggi inequivocabilmente dimostrando di aver prodotto piuttosto, ad intra, un diverso e opposto effetto, tanto indesiderato quanto devastante: quello di un gravissimo indebolimento della fede nel popolo cristiano - indebolimento che in taluni è divenuto già perdita - (5).
Di questo effetto non può evidentemente non essere ritenuto responsabile in modo diretto il “nuovo corso”, che, da un punto di vista pratico, si è prevalentemente concretizzato per i fedeli nella riforma liturgica e nel rinnovamento della pastorale.

Non crediamo dunque di errare affermando che si debba  attribuire all’intervento di Giovanni Paolo II il valore di una dolente riflessione sui frutti di un’intera stagione della vita della Chiesa e, insieme, sulla “qualità” della crisi ecclesiale in atto, attraverso cui viene evidenziata la piena acquisizione e la positiva cognizione, da parte del Supremo Pastore, della specificità e dell’assoluta peculiarità dello stato presente in cui versa la Chiesa Cattolica, il quale “dice”, tanto sul piano degli effetti quanto soprattutto in ordine alle cause, una fra le crisi più gravi (o forse la più grave in assoluto) che la Chiesa abbia attraversato lungo il corso della sua ormai bimillenaria storia.

Le parole del Pontefice individuano infatti assai correttamente la connotazione di fondo del “male oscuro” che consuma la Cattolicità attuale: l’evaporazione di quella che potrebbe definirsi la “struttura fondamentale” della Fede, rilevata sintomaticamente da Giovanni Paolo II come “problema di trasmissione di verità fondamentali”. 
E non vi è dubbio che il Santo Padre abbia assolutamente colto nel segno, sottolineando nella difficoltà della presentazione dei fondamenti stessi del Credo Cattolico - sia quanto al momento della trasmissione che a quello della recezione - uno dei  punti nodali della crisi della Chiesa post-conciliare: la quale è crisi di Fede precipuamente e principalmente come crisi del Dogma, ovvero come dissoluzione di una sintesi dottrinale che rappresenta il presupposto indefettibile della trasmissione della Fede stessa, tanto nei suoi contenuti dogmatici che in quelli morali (6).

Ecco allora acutissimamente sintetizzato il senso profondo della grande sofferenza che affligge la Chiesa postconciliare, sofferenza storicamente inedita, per lo meno in ambito cattolico (7), che sta di fatto devitalizzando il Cattolicesimo contemporaneo: il quale, al di là ed oltre la pur connessa ed altrettanto spinosa questione del senso autentico della missionarietà e dell’apostolato nel mondo d’oggi, appare in realtà sfibrato dal devastante diffondersi “intra Ecclesia” di una vera e propria “paneresia latente”, che trova espressione tangibile nel progressivo disfacimento del Cattolicesimo stesso in quanto figura dottrinale e, conseguentemente, quale identità storica capace di esprimersi in una prassi coerente a un sistema di Verità dogmatiche codificate.

A quarant’anni dall’apertura del Vaticano II e a trentasette dalla sua conclusione giunge dunque alla “base” l’onda di piena della crisi della teologia cattolica che, penetrando nei lavori dell’Assise Ecumenica, ha insinuato nei documenti che da essi risultarono tutte quelle ambiguità e contraddizioni che le riforme postconciliari si sono solo preoccupate di far esplodere, concretizzandosi prima come crisi del clero e successivamente come crisi complessiva della Chiesa. 

Quale sia l’esito ultimo di tale processo degenerativo abbiamo imparato a capirlo sempre più in questi ultimi anni: in effetti, nella cognizione comune di molti, cattolici e non, ad un Cattolicesimo imperniato sul primato della Grazia sovrannaturale, si va lentamente sostituendo (o si è già sostituito quale tappa intermedia che prelude inevitabilmente alla scomparsa della Fede) un cristianesimo adogmatico, a dimensione puramente “esistenziale” e immanente, desovrannaturalizzato e moraleggiante, caricaturalmente pelagiano e protestantizzato al tempo stesso, interamente adattabile a qualsiasi modello culturale e pertanto “disponibile” a essere interpretato alla stregua di una prassi intrastorica del tutto slegata da ogni riferimento metafisico ed escatologico.
Va da sé poi come in tale contesto i cattolici non solo stiano di fatto cessando (o forse abbiano già cessato) di esistere quale soggettività storica in grado di svolgere un’efficace opera di trasmissione della Fede (con conseguente compromissione di ogni velleità di apostolato o nuova evangelizzazione che dir si voglia), ma ancor più gravemente, a monte, risultino deprivati della “possibilità” stessa di una vita spirituale, la cui sussistenza appare pregiudicata proprio dalla liquefazione sul piano dottrinale e liturgico di quei “requisiti minimi ed essenziali” che ne costituiscono il fondamento indefettibile (8).
È infatti questo l’approdo ultimo di quel processo di “espropriazione di identità”, che vede il mondo cattolico spossessato di un “proprio” autonomo pensiero su Dio, sull’uomo e sul mondo, e ciò per effetto di una ricercata omologazione al mondo resa possibile attraverso la distruzione dello “specifico” della Religione della Croce, ormai ridotta nella coscienza di molti pressocché a una morale o, al meglio, ad un deismo alla stregua di altri.

Che fare allora?

In quale modo agire prima che la disgregazione della Cristianità si compia definitivamente, condannando il Cattolicesimo a una dimensione di residualità? 
Qual è il rimedio che il Pontefice - e insieme a Lui i vertici della Curia romana - prospettano per intervenire su questa devastante patologia ecclesiale tanto dilagante quanto sfuggente? 
In che modo è dottrinalmente esatto e storicamente opportuno reagire a questa crisi che pare condannare l’intera Cristianità a un processo di lenta consunzione? 
Quale - ci si chiede in particolare - deve essere il “punto fisso” da cui muovere e su cui impostare la strategia dell’improcrastinabile opera di “ricostituzione” del Cattolicesimo e della Cattolicità? 

Il magistero di quest’ultimo scorcio di pontificato di Giovanni Paolo II  accusa, per un verso, piena contezza da parte del Successore di Pietro come di tutta la Gerarchia, dell’esistenza di un grave “stato di emergenza” dottrinale e manifesta soprattutto con palmare evidenza la grande preoccupazione dell’anziano Pontefice per le sorti future del Cattolicesimo
Può in effetti affermarsi che questo stesso magistero, a contenuto prevalentemente “dogmatico”,  rappresenta indubbiamente la risposta che il vertice della Chiesa pare in grado di fornire nella presente contingenza, la quale è caratterizzata da un vistoso affievolimento del principio di autorità e da una pesante disarticolazione interna della compagine ecclesiale.

Il susseguirsi, particolarmente intenso negli ultimi tempi, di documenti “centrati” sul tema dell’ortodossia costituisce, in questo senso, un contributo sicuramente assai importante mediante cui il Santo Padre - ponendosi contro una certa concezione puramente “prassistica” del Cristianesimo ancora molto in voga in quegli ambienti cattolici secolarizzati maggiormente compromessi nell’abbraccio mortale con il laicismo - sta cercando di tracciare le linee guida da seguirsi per reagire al delineato disfacimento del Cattolicesimo e di promuovere quella che potremmo definire una vera e propria “rievangelizzazione interna”.
La riaffermazione perentoria di alcuni principi cardine della dottrina cattolica, unitamente alla riprosizione piena e integrale della Verità Cattolica costituiscono, per il Santo Padre, l’unica possibile via da percorrere soprattutto nella formazione sacerdotale, ma anche  nella pastorale e nella catechesi (9).

Il “magistero correttivo” di Giovanni Paolo II - entro il quale a pieno diritto l’intervento in esame si colloca - sollecita tuttavia alcuni gravi interrogativi: riaffermare infatti sic et simpliciter il primato dell’ortodossia, seppur debba indubbiamente ritenersi un essenziale “momento” intorno a cui  fare perno in quello che dovrà essere lo sforzo catechetico della Chiesa del terzo millennio, corre seriamente il rischio di rimanere una pura petizione di principio, e ciò per due ragioni fondamentali: in primo luogo in quanto, inibendosi un’adeguata indagine sulla natura “profonda” della crisi ecclesiale, non consente un’autentica comprensione delle ragioni di fondo che hanno condotto la Chiesa al presente stato di dissesto dottrinale, impedendo di fatto l’elaborazione di una corretta ed efficace strategia complessiva nella quale si specifichi nel dettaglio quali debbano essere le modalità concrete attraverso cui tale primato vada riaffermato, circostanza quest’ultima che non può evidentemente prescindere da un adeguato approfondimento sul piano eziologico dell’attuale stato di crisi;  ma anche per il fatto di non tenere in alcun modo debitamente conto di quella che è la situazione attuale della Chiesa, segnata da una sensibile erosione del principio di autorità e da una conseguente diffusa “impermeabilità” alle direttive romane di vasti settori del mondo cattolico, e perfino di talune diocesi, ormai palesemente insofferenti ad ogni forma di esercizio del potere magisteriale.

Cerchiamo allora, pur con gli scarsi mezzi a nostra disposizione, di abbozzare un’analisi della situazione in atto, ragionando soprattutto su dati il più possibile incontroversi quali sono quelli offerti dalla ricognizione della storia recente della Chiesa, la quale, in conformità al principio di primazia dell’ortodossia affermato dal Pontefice, ci permetta in qualche modo di ipotizzare quali misure tra quelle possibili, in particolare operando in ciò che la Chiesa compie di essenziale, potrebbero rivelarsi in grado di avere un’effettiva incidenza nella vita ecclesiale.

Abbiamo poc’anzi fatto riferimento a come le riforme postconciliari abbiano operato modificativamente sull’intero spettro delle attività ecclesiali, ossia in modo complessivo su quelli che, con linguaggio ormai ritenuto obsoleto, si definivano i “munera Ecclesiae”: i quali si sostanziano, oltre che nel potere-dovere di ordinare il popolo cristiano sotto la guida della Gerarchia (munus regendi),  nell’opera di  trasmissione della santa dottrina (munus docendi) e, soprattutto, nella santificazione dello stesso attraverso l’amministrazione dei sacramenti (munus sanctificandi). 

I tre aspetti, i quali sono ovviamente tra loro fortemente interconnessi e reciprocamente interagenti, sono stati, come si è accennato, tutti pesantemente “incisi” dal rinnovamento postconciliare. Il primo con la riforma dell’organizzazione ecclesiastica, segnata da un sensibile ridimensionamento dell’autorità papale, dovuta, per un verso, ad una sempre maggiore preponderanza del principio collegialistico, e per l’altro soprattutto a quel fenomeno definibile come di “atomizzazione” ecclesiale, in cui le diocesi - come pure altre entità ecclesiali di formazione sia antica che più recente - tendono a comportarsi alla stregua di “monadi”, praticamente slegate da ogni vincolo di carattere gerarchico e quasi completamente autore-ferenziali. Il secondo come riforma complessiva della pastorale e della catechesi, dominate sempre più da una cristologia asacrificale che, slegata dalla visione complessiva del mistero cristiano restituitaci dalla Tradizione, ha finito coll’operare una sorta di “rilettura” delle categorie fondamentali dell’edificio dottrinale cattolico; “rilettura” ottenuta attraverso una criptica “reinterpretazione” della teologia e dell’antropologia cristiana. Il terzo come vasta riformulazione della liturgia, che costituisce la “preghiera” per eccellenza della Chiesa, come pure lo scrigno in cui sono custoditi quei “segni” della fede attraverso i quali, secondo la teologia cattolica, nella Chiesa è comunicata la grazia, cioè quella “forza” soprannaturale che, nell’interazione con la libertà, rende possibile la salvezza dell’uomo.

Seppur si tratti indubbiamente, come si è accennato, di tre momenti strettamente correlati tutti di capitale importanza, è possibile sostenere (ci esprimiamo naturalmente con approssimazione) che ve ne sia uno il quale si ponga in posizione di priorità, almeno nel senso di “contenere” gli altri, esprimendo  sinteticamente ed esemplarmente il “tutto” della Fede? 

Riteniamo di poter affermare senza tema di equivoco che questo momento sia rappresentato dalla liturgia, il cui vertice apicale è costituito dalla Santa Messa, la quale riveste, come si avrà modo di approfondire meglio, una posizione di assoluta centralità, rappresentando un “primum” non solo in quanto “culmine e fonte della vita della Chiesa” (10), ma anche per la non secondaria circostanza di costituire di fatto la “prima scuola della nostra vita spirituale” (11)

Sul punto lo stesso Pontefice, che già più volte aveva sottolineato il legame strettissimo e organico tra il rinnovamento liturgico e il rinnovamento dell’intera vita della Chiesa (12), affrontando il tema “Eucaristia e Chiesa” - che costituiva il secondo argomento di riflessione della Plenaria dell’ex  Sant’Uffizio - di fronte al consesso responsabile dell’altissimo compito della custodia e della preservazione dell’ortodossia cattolica ed immediatamente dopo essersi riferito alla sopra detta crisi “dottrinale”, evidenzia ancora una volta il profondo legame sussistente tra fede e liturgia, sintetizzato nel menzionato principio “lex credendi legem statuat supplicandi” (la fede regola l’orazione e viceversa) (13), in particolare ricordando - con  autorevolezza degna del Suo altissimo carisma  e quasi a voler porre ancora una volta una sorta di “baricentro” dogmatico - il fondamentale principio secondo cui “la drammaticità del Sacrificio Eucaristico del Cristo - sorgente della vita della Chiesa - non permette una sua riduzione a semplice incontro conviviale, ma rimane sempre come segno di contraddizione e quindi anche di verifica della nostra conformità alla radicalità del suo messaggio, sia nei confronti di Dio che degli altri fratelli” (14)

La considerazione del Ponte
 fice, unitamente alle riflessioni appena svolte, non può allora non porre alcuni interrogativi ineludibili, la cui consistenza va verificata tanto sul piano dottrinale che su quello pastorale, in realtà molto meno “contrapposti” di quanto si sia erroneamente creduto durante la fase postconciliare. 

È nella crisi liturgica che nasce e si risolve la crisi dogmatica, cioè in definitiva l’intera crisi del Cattolicesimo contemporaneo? 
Vi è un nesso consequenziale, come lo stesso Pontefice sembrerebbe adombrare, tra l’obliterazione di Verità Fondamentali della Fede e lo smarrimento dell’autentico senso della Messa Cattolica quale atto Sacrificale?
Ovvero, in altri termini, vi è un nesso consequenziale tra la crisi della Chiesa e la distorta o comunque inesatta percezione dell’essenza autentica di quell’atto di culto che, come lo stesso Vaticano II afferma, costituisce il “culmen et fons” di tutta la vita della Chiesa?

Obiettivo di questa riflessione vuol essere quello di dimostrare come il primato dell’ortodossia nella dottrina, in ragione dell’indissolubile vincolo stabilito dalla teologia cattolica tra lex orandi e lex credendi, da una parte, e tra ortodossia e ortoprassi ed economia sacramentale, dall’altra, passi necessariamente attraverso una piena riaffermazione-restaurazione dell’ortodossia della liturgia,  il cui “centro” unificante risiede nel concetto di Sacrificio - di fatto obliterato nella liturgia riformata - attraverso cui è mirabilmente espressa la globalità del Mistero Cristiano e insieme definito il  modello archetipico esemplare della pratica religiosa.

Successivamente ci si sforzerà di approfondire, tenendo anche conto della assoluta peculiarità della fase attualmente attraversata dalla Chiesa, quali riflessi  le conclusioni cui si perverrà, sostanziantesi nell’assoluta necessità di riaffermazione della centralità dell’aspetto “sacrificale” del Cristianesimo sul piano teologico-liturgico, comportino nella presente situazione di instabilità dottrinale, in particolare quanto ai necessari e indifferibili interventi da adottare sul fronte liturgico.

* * *

Una corretta posizione della questione richiede evidentemente una necessaria - seppur sommaria - enucleazione di alcuni fondamentali elementi teologici sottesi alla problematica in oggetto, che converrà riportare succintamente alla memoria, seppur si tratti di concetti fondamentali di dottrina un tempo assolutamente scontati e pacifici, ma su cui oggi non è mai sufficiente insistere, in ragione di una certa confusione diffusasi intorno ad essi in taluni ambienti cattolici più attenti a equilibri politico-ecumenici che - per dirla col Pontefice - alla esigente testimonianza alla Verità imposta dalla radicalità del messaggio evangelico.
 Un ottimo punto di partenza ai fini della presente riflessione è offerto proprio dal magistero pastorale del Concilio Vaticano II, cui hanno fatto seguito alcune successive importanti puntualizzazioni del magistero ordinario.
Il Concilio ha ricordato come “dalla Liturgia e particolarmente dall’Eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la Grazia e si ottiene, con la massima efficacia, quella santificazione degli uomini e glorificazione di Dio in Cristo, verso la quale convergono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa” (15); mentre il nuovo Catechismo afferma che “tutti i sacramenti come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere di apostolato sono strettamente uniti e ordinati”  al  Sacrificio Eucaristico, nel quale l’“insieme della vita cristiana trova la propria fonte e il proprio culmine” (16).

Cerchiamo di commentare le densissime espressioni riportate, in particolare sforzandoci di coglierne tutti i precipitati tanto sul piano dottrinale che su quello pastorale.

La Tradizione immutabile della Santa Chiesa ci fornisce in proposito tutti gli elementi utili a un loro adeguato approfondimento. Essa, nel restituire attraverso l’inscindibile unità sussistente tra teologia (discorso sull’essenza di Dio), ecclesiologia (riflessione sulla natura della Chiesa) e spiritualità (pratica della perfezione cristiana) il senso integrale di una visione complessiva del Mistero della Salvezza,  insegna, in piena conformità con la Santa Scrittura, che perché vi sia santità della Chiesa - Corpo Mistico di Cristo - e santificazione dei fedeli - che del Corpo Mistico sono le membra vive - non può essere sufficiente una mera acquisizione intellettuale, ancorché approfondita, delle Verità della Fede: il loro possesso intellettuale puramente “naturale” non può infatti tradursi in vera “conoscenza” (17) e, conseguentemente, in autentica vita spirituale (18) -  come partecipazione alla vita divina - se non sotto l’azione della Grazia santificante, che lo Spirito effonde nella Chiesa (19) - instituta per fidem et fidei sacramenta (20) - per la santificazione delle anime attraverso l’economia sacramentale, mediante la quale la Grazia stessa “tocca” intimamente ogni battezzato il quale, lasciandosi liberamente fecondare da questa, è trasformato interiormente e reso giusto dinanzi a Dio.

I sacramenti sono dunque, secondo la Tradizione della Chiesa, gli “strumenti” mediante i quali, entro lo sfondo della preghiera, è resa possibile, in quel luogo di santificazione voluto e divinamente assistito da Cristo e dal suo Spirito, che è l’unica Santa Chiesa Cattolica Apostolica, la vita di grazia del credente, il primo tra i cui effetti è appunto quello di rendere quest’ultimo permeabile alla luce dello Spirito e docile alla Verità rivelata per successivamente aprirlo alla pienezza della vita spirituale.

Se dunque la centralità della dinamica della grazia fa sì che la Fede Cattolica possa dirsi davvero la  “Religione della Grazia”, è però altrettanto vero che il Cattolicesimo è eminentemente tale in virtù dell’assoluta centralità di un altro mistero, che ne fa  primariamente la “Religione del Sacrificio”, emble-maticamente rappresentata appunto da quel “segno” che sin dai suoi primi albori ne ha rappresentato l’emblema per eccellenza: la teologia da sempre ha individuato questo “centro vitale” della Fede Cattolica nel Mistero della Croce, identificando il Sacrificio Espiatorio dell’Uomo-Dio come l’evento centrale del piano salvifico di Dio, sia nella sua storicità, in quanto autentico “fatto fondativo” del Cristianesimo come religione positiva, sia nella  sua “ripresentazione” sacramentale nel culto quale perenne fonte di edificazione e santificazione della Chiesa. 

I sacramenti infatti, quali veicoli mediante cui è comunicata la Grazia al Corpo Mistico e attraverso cui la Chiesa è costituita nella fede, rinvengono in quanto fonte di santificazione il loro “centro unificante” e sono in qualche modo ricondotti all’unità proprio in questo Mistero, che è il “cuore” teologico della Religione Cattolica, lo stesso dal quale la Chiesa è sgorgata, che continuamente la vivifica e per propagare i cui effetti salvifici sussiste e sussisterà intangibile e indefessa sino alla seconda venuta del Signore. 

Per chiarire meglio questo fondamentale passaggio, nel quale è evidenziato l’inscindibile nesso sussistente tra orazione, grazia e liturgia, è utile riportare succintamente alla memoria  l’insegnamento dogmatico dal Sacrosanto Concilio Tridentino sul Santo Sacrificio della Messa. Definendo la natura della Santa Messa come Sacrificio Incruento di Cristo, cioè come Offerta che Nostro Signore fa di Se Stesso per le mani del ministro ordinato (ontologicamente e gerarchicamente “altro” dal semplice fedele) agente “in Persona Christi”, e come Mistero in cui appunto è “ripresentato” misticamente sull’altare il Sacrificio dell’Uomo-Dio che si consumò una volta per sempre in modo cruento sul Calvario, il Concilio Tridentino insegna come proprio attraverso il Sacrificio Eucaristico - che è lo stesso Sacrificio della Croce, dal quale differisce solo per il “modo” dell’offerta - si renda nell’unico vero sacerdozio l’unico vero culto all’unico vero Dio e si effonda quindi la Grazia sulla Sposa di Cristo e su tutto il popolo cristiano, al quale viene offerta la pienezza dei mezzi soprannaturali necessari alla sua vita spirituale. 

Il Sacrificio della Nuova Alleanza, quale unico atto di culto gradito al vero Dio, costituisce allora il principale mezzo di santificazione e nel contempo la fonte del sacramento più grande (e di tutti gli altri sacramenti) (21), mentre il sacramento altro non è se non  l’applicazione all’anima dei meriti che scaturiscono dal Sacrificio del Divino Redentore: in questo senso dunque, come autorevolmente insegnato da Pio XII (22), il sacramento costituisce in certo senso il “contatto” con il Sacrificio di Cristo,  il Quale, affidando alla Sua Chiesa l’“Oblatio Munda” del suo Corpo e del suo Sangue, stabilì quale dovesse essere il modo in cui elevare a Dio il sacrificio gradito, disponendo insieme come la sua oblazione sacrificale, travalicando soprannaturalmente le barriere dello spazio e del tempo, dovesse con la sua forza salvifica “toccare” ogni redento nella storia. 

Ma se nel Sacrificio risiede il cuore della Fede Cattolica, allora è evidente come nell’espressione liturgica attraverso cui è resa possibile, per azione dello Spirito Santo, la perpetuazione sacramentale di quello che per la Religione Cattolica è il “fatto salvifico” per eccellenza, debba essere parimenti contenuta la codificazione linguistica più perfetta della Verità rivelata, altresì chiarendosi in quale modo all’inscindibile nesso intercorrente tra “lex credendi” e “lex agendi” - tra ortodossia e ortoprassi - si affianchi l’altrettanto inscindibile vincolo che entrambe le avvince alla “lex orandi”.

Nell’azione liturgica sacrificale, insieme massimo luogo di culto e sorgente della vita di grazia,  l’ortodossia della “lex credendi” è dunque compiutamente significata e inequivocabilmente  proclamata con la totalità del Mistero Cristiano: in essa infatti la Chiesa prega e si santifica, nel contempo “ordinando” il popolo cristiano e insegnandogli ciò che deve credere, ciò che deve operare e ciò che deve sperare. 

Ma è pur vero che, se quanto sinora esaminato ci consente di comprendere sul piano teologico in che senso il Santo Sacrificio della Messa si ponga, nel tempo tra la prima e la seconda parousìa, come il fulcro della Fede e il  centro di tutta l’economia sacramentale (la quale per sua stessa natura, “dice” il Sacrificio, al quale è astretta da indissolubile legame), l’analisi da ultimo svolta del profilo dottrinale  espresso nella nota massima teologica “legem credendi lex statuat supplicandi” stimola qualche ulteriore considerazione relativa all’altissimo valore “pedagogico” della liturgia cattolica ortodossa, evidenziando un profilo catechetico-pastorale di enorme rilievo. 

Se infatti, il Santo Sacrificio della Messa, oltre che principale fonte di santificazione e “forma” perfetta della lode da tributare a Dio, si pone quale espressione esemplare della “recta fides”, è evidente come costituisca, nel suo valore di “summa” dogmatica che le spetta anche in quanto “legge del credere”, una sintesi mirabile della Verità Cattolica. 
In essa è infatti tracciata, nei termini più alti cui il linguaggio umano possa ambire, la globalità della teologia, dell’antropologia e dell’escatologia cristiana, attraverso la “ripresentazione” tangibile di quel mistero che del Cattolicesimo sostanzia il “centro” teologico-liturgico e del quale descrive contestual-mente l’essenza quanto al “retto credere”, al “retto pregare”  e al “retto agire”: se ciò è vero, si comprende allora la sua indefettibile essenzialità nello stesso processo di trasmissione della Verità Cattolica. 
 

Cerchiamo di esplicitare meglio questo concetto.

Se sul piano teologico il Sacrificio di Nostro Signore, nella sua dinamicità intertrinitaria, è  il “modo” attraverso cui il Dio Triunico rende conoscibile, secondo quanto è consentito dal Suo volere all’umana capacità, la Sua Natura di Mistero ineffabile di Amore come Comunione di Persone sussistenti ciascuna “per” l’altra (il Figlio offre Se Stesso al Padre nello Spirito), rivelando nel contempo l’incommensurabile amore del Dio Trinitario per l’uomo, per il quale la Divinità  giunge sino alla “follia” della Croce, sul piano antropologico il Sacrificio manifesta l’essenza autentica dell’uomo in cui è inscritta la “misura senza misura” mediante cui la Trinità, chiamando l’uomo stesso sin da questa vita alla comunione con Sé affinché possa di Lui godere nella beatitudine eterna, chiede di essere incondizionatamente amata attraverso l’imitazione dell’Unigenito fatto uomo.

La Croce dunque non solo rivela l’essenza di Dio e la natura dell’uomo, chiamato in Cristo a “essere per Dio”, ma rivela anche, in quanto forma perfetta della carità e sintesi esemplare delle virtù cristiane,  la via prescelta dal Dio Trinitario affinché ogni redento possa pervenire a Lui. In questo senso il Sacrificio è dunque l’emblema dell’antropologia teocentrica cristiana, mediante cui si afferma l’orientamento totale a Dio come autentica verità dell’uomo e nel contempo si definisce - nel sacrificio di se stessi innestato a quello del Cristo - la “forma” dell’apertura incondizionata dell’umano al divino, resa possibile dalla grazia di cui la natura umana, per i meriti del Divino Redentore, viene rivestita mediante i sacramenti.

Vi è presente, dunque, teologia e antropologia, ma anche ecclesiologia, se è vero che la Santa Messa, oltre che “compendio” teo-antropologico del Cristianesimo, reca pure - in un momento di grave confusione quale quello in cui ci troviamo a vivere - un essenziale profilo ecclesiologico: il Sacrificio della Croce infatti, oltre a “dire” l’essenza di Dio e la vocazione dell’uomo, “dice” la Chiesa di Cristo, scaturita dal  Sacrificio e per il Sacrificio sussistente, Chiesa della quale rende comprensibile nella fede la natura di realtà divino-umana e di luogo di santificazione in cui massimamente si esprime il mistero dell’azione di Dio nella storia, restituendone altresì la strutturalità gerarchica espressa nella “verticalità” della distinzione dei ministeri.

Anche la Chiesa, infatti, prosecuzione storica dell’opera della redenzione scaturita dalla Croce, sussiste “per” il Sacrificio, del quale è chiamata a propagare gli effetti salvifici sino al ritorno del Signore alla fine dei tempi: in essa, nella quale è stabilito il vero sacerdozio cattolico il cui “centro” consiste appunto nell’offerta di quel Sacrificio Eucaristico che è sorgente di tutta la vita ecclesiale, è elevato nella storia il vero culto all’unico vero Dio; e il popolo dei redenti, retto dai ministri ordinati, associandosi alla lode eterna di Maria Santissima, degli Angeli e dei Santi che nella liturgia terrestre è chiamato a pregustare, riceve, nella confessione della vera fede, la pienezza della Grazia e della Verità rivelata, in tal modo compaginandosi quale Corpo Mistico di Cristo, unico gregge sotto un unico pastore.

La ricostruzione sin qui fatta si è dunque sforzata di dimostrare come la centralità del Sacrificio Eucaristico nella vita della Chiesa comporti inevitabilmente che, ferita la Messa Cattolica, tutto il Cattolicesimo, tanto sul piano dogmatico che su quello catechetico-pastorale, ne risulti necessariamente ferito, risultandone compromessa, insieme all’economia della grazia santificante, la stessa trasmissione e la pratica della fede.

Tanto puntualizzato sotto il profilo dottrinale, una seppur sommaria ricognizione delle principali liturgie orientali e occidentali ci conferma in modo inequivoco come in queste si ritrovi di fatto mirabilmente codificata la pienezza del Mistero Cristiano, la cui “sacrificalità” è espressa con cristallina purezza massimamente nella liturgia antica della “Madre di tutte le Chiese”, ossia in quella liturgia romana che San Pio V riordinò e donò alla Chiesa Latina, fissando nel Messale Romano, che da Lui impropriamente prese nome, le espressioni più belle che lo Spirito Santo - e non già una fredda commissione di “esperti” - ha suggerito consegnandole alla Cristianità sin dai tempi dei Padri. 

In particolare la Liturgia Romana tradizionale (la quale riposa sull’assunto teologico fondamentale secondo cui: ‘l’Eucaristia è un Sacrificio e anche un memoriale’) mediante la menzionata “accentuazione” della valenza sacrificale dell’atto di culto, chiarisce come nessun’altra, in una forma insuperabile e superiore alle stesse liturgie dell’oriente cristiano, il rapporto di dipendenza “ontologica” tra Sacrificio e Sacramento, evidenziando attraverso il concetto di “participatio” (23), l’autenticità della dottrina cattolica della grazia e quindi, di riflesso, il senso complessivo dell’antropologia soprannaturale cristiana. 

Ma se è vero - e la formidabile capacità di santificazione nei secoli della liturgia romana ancor di più dell’analisi teologica sta a dimostrarlo senza alcuna possibilità di equivoco - che in ogni parola del Messale Tridentino si sente davvero risuonare la pienezza del Cattolicesimo e nel contempo pulsare la vita autentica della Chiesa, possiamo dire altrettanto della liturgia riformata attualmente celebrata? 
Esprime la nuova liturgia la delineata pienezza della Verità Cattolica - sul piano teologico, antropologico, escatologico ed ecclesiologico -  oppure in qualche modo, pur scevra da errori teologici veri e propri e anche attraverso la differente collocazione che in essa si riscontra di taluni elementi, ne altera la genuinità e la purezza dottrinale, compromettendo a livello liturgico una corretta assimilazione del dogma da parte dei fedeli? 

Riprendendo il concetto poc’anzi espresso a proposito della Messa Tridentina,  si può probabilmente a ragione affermare che, se l’assunto teologico essenziale posto a fondamento della liturgia tradizionale della Chiesa Cattolica, in assoluta consonanza con l’insegnamento dogmatico del Concilio Tridentino, era sintetizzabile nell’espressione secondo cui: ‘l’Eucaristia è un Sacrificio e anche un memoriale’, le teologie moderne, sulla cui base è stata elaborata la liturgia riformata, affermando di fatto che: ‘l’Eucaristia è un pasto e un memoriale, e anche un Sacrificio’, operano uno strano “rovesciamento” delle due proposizioni, delle quali la principale (o forse, come sarebbe meglio dire, la fondamentale) risulta posposta alla secondaria, la quale è tale non dal punto di vista sintattico, ma sul piano teologico, stante la “priorità”, per dir così, ontologica del Sacrificio rispetto al Sacramento, che sopra ci siamo sforzati di enucleare.

La diversità, che parrebbe poggiare su una irrilevante sottigliezza (qualcuno potrebbe dire che le due proposizioni affermano esattamente il medesimo concetto), risulta in realtà foriera di conseguenze assai rilevanti, valendo di fatto una tale apparentemente innocua inversione sintattica - che sottende una differente “posizione di accenti” di valenza tutta teologica - una percezione completamente differente (quasi una riformulazione) non solo della teologia della Messa cattolica, ma dell’intero Mistero Cristiano, il cui “centro ricapitolativo” risiede, come sopra si è cercato di dimostrare, nel Santo Sacrificio Eucaristico,  sacramentalmente ripresentato e pertanto espresso nel modo più perfetto nella Messa Cattolica.

Ciò che in realtà deriva da questa apparentemente innocua “inversione di accenti” è, attraverso una restrizione dell’idea di Sacrificio, la sua relativizzazione di fatto sul piano teologico ovvero la ridefinizione del suo “status” nel quadro delle verità fondamentali, con ricadute devastanti sull’intero edificio della fede, i cui effetti - oggi incontrovertibilmente riscontrabili -  prendono forma in quella grande criptoeresia alla quale abbiamo fatto riferimento nella prima parte di questa riflessione. 

A livello liturgico, il “prevalere” della verità “comprensibile” del memoriale, “ricollocando” le fondamentali categorie teologiche dell’Eucaristia e soprattutto introducendo delle ambiguità quanto alla natura “cultica” e quindi “verticale” della Messa, attraverso un processo involutivo probabilmente non previsto neppure da chi introdusse la riforma e nel quale tanta parte hanno avuto le successive distorsioni di una prassi tuttavia “legittimata” dalla “lettera” non sufficientemente definita della nuova lex orandi,  conduce a una del tutto incomprensibile sacramentalità “acefala” che, disancorata da quel Sacrificio che ne costituisce la ragione “fontale”, paradossalmente fa pian piano perdere all’Eucaristia proprio la sua consistenza specifica di “evento sacramentale” (come azione visibile entro cui opera e agisce invisibilmente il Divino), finendo coll’annichilirla in quanto “fatto sacro” e innescando quella “deriva antropocentrica”, propiziata dalla lacuna “soprannaturale” creatasi in seguito al nascondimento della verità teologica “difficile” che nella Messa è contenuta ed espressa, nella quale il fattore puramente “umano”, rappresentato dal “fatto naturale” dell’incontro conviviale in cui l’assemblea è riunita per la gioiosa condivisione del “pasto”, diviene preponderante (24)

Il ridimensionamento in ambito liturgico della centralità del sacrificio non limita tuttavia le sue conseguenze alla pur gravissima alterazione della nozione dell’atto di culto e all’altrettanto grave oscuramento della sua pregnanza soprannaturale, ma comporta anche dei gravissimi precipitati sul piano teologico e antropologico. 
Infatti, come già accennato, l’affermarsi di una cristologia almeno tendenzialmente “asacrificale”, tende ad accreditare l’idea erronea che nella persona di Cristo si sia rivelato - in qualche modo al di là della croce - il disegno dell’amore salvifico del Padre: ciò in quanto tale cristologia risulta imperniata sulla menzionata “restrizione” dell’idea di Sacrificio Espiatorio, il quale cessa così di essere  il mistero centrale della salvezza per degradare a semplice “momento” del piano salvifico divino, che si esprimerebbe nell’insieme dei misteri della vita di Cristo e non eminentemente nella croce.
Eccoci giunti, allora, all’epicentro della grande criptoeresia, attraverso cui viene intaccato il “nucleo” più profondo del cristianesimo. 

È evidente che l’assolutizzazione non debitamente circostanziata del concetto secondo cui il Padre Celeste ha creato l’uomo per la felicità (quale?) e ha manifestato in Cristo il suo amore (come?), - assolutizzazione di fatto possibile a tenore di talune espressioni contenute nelle costituzioni conciliari -, possa logicamente condurre a una vera e propria “ricomprensione” del Mistero Cristiano, cioè ad una sua rilettura al di fuori delle categorie consegnateci dalla Tradizione. 
Su un piano strettamente teologico, l’esito logico è fatalmente quello della configurazione di un’immagine “sentimentale” (oggi si direbbe “buonista”) di Dio, che sostituisce quella del Dio Nomoteta resaci dall’Antico Testamento, il cui amore -  rivelatoci “nella croce” dal Figlio e in cui si dà il compimento e la pienezza della rivelazione in piena continuità con la rivelazione veterotesta-mentaria (la legge e i profeti) - consente all’uomo di riconoscere la “pienezza” dell’identità divina attraverso la penetrazione della profondità del concetto di “redenzione”.
Sul piano antropologico, le ricadute devastanti si misurano sulla rivisitazione - specularmente all’estenuazione dell’idea di peccato - di quel lessico con cui da sempre si è descritta - coerentemente all’antropologia biblica rinvenibile sia nel nuovo che nell’antico Testamento - l’idea tradizionale della pratica della vita cristiana. Se Cristo infatti non si è fatto uomo “per la croce”, ma eminentemente per manifestare all’uomo l’amore del Padre, è evidente come - cessando la croce di essere la “via” per eccellenza per la quale all’uomo è dato pervenire a Dio, (via prefigurata peraltro da alcune grandi “figure” veterotestamentarie) - debbano abbandonarsi idee quali conversione, preghiera, penitenza, castità, ascesi, mistica e quant’altro, ovvero, in una sola espressione, la globalità della concezione dell’orto-prassi cristiana quale ci è stata tramandata dalla  Tradizione della Chiesa (25). È infatti perfettamente evidente come tali idee divengano perfettamente inutili nell’economia dell’orizzonte concettuale di quello che potremmo forse non a torto definire “neocristianesimo”.

La cristologia asacrificale secolarizzata reagisce dunque sulla teologia e sull’antropologia cristiana, ma produce ovviamente effetti eversivi anche sull’ecclesiologia: infatti l’orizzontalità che, per effetto dell’affermata priorità del carattere “memoriale” della liturgia,  pone in primo piano l’assemblea liturgica nella quale il ministro ordinato in qualche modo si “annulla”, determina  logicamente un appiattimento della Chiesa  sulla sua dimensione puramente “sociale”, nonché l’esaltazione dell’aspetto umano a detrimento di quello soprannaturale. 
Dal momento che la Chiesa, naturalmente, manifesta se stessa privilegiatamente nell’azione liturgica, è evidente come l’orizzon-talismo della riforma induca una percezione distorta della Chiesa stessa, nella quale è mortificata la sua natura divino-umana e sono altresì annullate le differenze gerarchico-ontologiche che trovano nella verticalità dell’atto di culto “sacrificale”, cristallizzazione rituale di una precisa realtà teologica, una  loro “plastica” rappresentazione.

La sollevata questione dell’orizzontalità (o, meglio, dell’“orizzontalismo”) della nuova liturgia suggerisce infine una considerazione - per così dire - meno tecnica e di carattere generale che attiene al profilo più strettamente catechetico-pastorale della riforma liturgica e sulla quale si misura tangibilmente proprio il suo fallimento “pastorale”. 

A parte l’equivoco di fondo accreditato da taluni, secondo cui la celebrazione liturgica sia chiamata a  sostituire tout court la catechesi (26) (la cui condizione di efficacia viene peraltro identificata, dai molti addetti ai lavori, nella banalizzazione), la caratterizzazione volutamente “semplificatoria” che ha contraddistinto sin dal momento “progettuale” la liturgia riformata, emblematicamente espressa proprio nell’esaltazione del concetto “semplice” (oltre che, ovviamente, “ecumenico”) di memoriale,  la rende di per se stessa quasi strutturalmente inidonea - o comunque in ogni caso inadatta - a trasmettere proprio quelle “verità difficili”: la trascendenza di Dio, il Mistero Trinitario, la teantropicità del Cristo e il valore redentivo della Sua morte, la divino-umanità della Chiesa e la sua unicità, la transustanziazione, la dottrina della Grazia e conseguentemente, in ambito morale, l’idea della necessità della sofferenza, dell’obbedienza, della castità, della povertà etc. etc.; le quali costituiscono l’essenziale della Religione  Cattolica e rendono pertanto comprensibili nel loro significato autentico tutte quelle “verità semplici”: l’amore tra gli uomini, la fraternità tra cristiani, la tensione all’affermazione della giustizia, etc. etc., che solo in apparenza il cattolico condivide con il mondo.

Anche qui troviamo traccia di quell’inversione - cui abbiamo fatto sopra riferimento a proposito della definizione della Santa Messa - la quale, prodottasi nella lex orandi, trova un suo naturale riscontro in una apparentemente nulla eppur sensibile modificazione della lex credendi: come infatti nella liturgia moderna la centralità del memoriale conduce inevitabilmente alla preponderanza dell’elemento liturgico più facilmente attingibile a discapito della sua essenziale sostanza soprannaturale, così anche per quelle “verità fondamentali” che primariamente proprio la liturgia (seppur con l’indispensabile supporto della catechesi) è chiamata a veicolare, l’assenso del cattolico “medio” tende a formarsi sempre più sulle “verità semplici”, le quali ovviamente sono destinate a rimanere del tutto svuotate del loro senso “cristiano” e quindi pronte ad essere “reinterpretate” conformemente allo “spirito del secolo”. 
Queste “verità semplici”, infatti, finiscono col non essere più rapportate a quelle “verità difficili” (cioè alle “verità fondamentali” cui fa riferimento il Pontefice nel messaggio alla Congregazione per la Dottrina della Fede), le quali sole sono in grado di conferire loro una consistenza e uno spessore “specificamente” cattolico.

Eccoci allora ritornati al punto dal quale eravamo partiti commentando il preoccupato messaggio del Pontefice, nelle cui parole risuona il presagio sinistro del rischio grande che si profila in questa non radiosa alba del terzo millennio dell’era cristiana: quello di un cattolicesimo completamente secolariz-zato  nel quale l’essenziale è ormai irrimediabilmente perso.

* * *

Le considerazioni sin qui svolte, se per un verso hanno consentito di evidenziare l’intima unione sussistente tra fede e liturgia,  hanno permesso pure di identificare quale sia stato il “centro vitale” del Credo Cattolico, colpito a morte il quale si è potuto avviare, col concorso anche di tanti uomini di Chiesa, lo scardinamento dell’intero edificio della Fede, scardinamento che consiste nel voluto “nascondimento”, sia sul piano teologico che sul piano liturgico (che del primo costituisce espressione diretta), del concetto fondamentale di “Sacrificio”, nascondimento attuato per compiacere lo “spirito del mondo” e nel quale si rinviene la radice della grande “criptoeresia” che oggi pervade la Chiesa.
La battaglia quindi contro l’“eresia totale e sfuggente” deve dunque necessariamente partire da decisivi e coraggiosi interventi in materia liturgica, cioè in quella “lex orandi” nella quale è custodito il “mistero più grande” di cui è depositaria la Chiesa, il cui equilibrio, perduto nel postconcilio, non si può pensare ormai di ristabilire esclusivamente attraverso le pur indispensabili puntualizzazioni dottrinali - destinate per lo più ad essere apprezzate (ma non si sa se accolte) dai soli “addetti ai lavori” -  ma va riguadagnato nella sua globalità sul terreno della “quotidianità” della vita ecclesiale, ossia in quell’“ordinario” in cui è tuttavia presente tutta la “straordinarietà” e l’“essenzialità” dell’azione della Chiesa.

Se infatti il magistero - pur nelle tante contraddizioni che dilaniano la Chiesa contemporanea - sta evidenziando (anche attraverso interventi puntuali come quello esaminato) la forse ancora troppo tenue volontà della Gerarchia di combattere contro l’errore dilagante di un neocristianesimo asacrificale, in particolare attraverso la riaffermazione, in ambito dottrinale, della centralità della Croce e del Sacrificio quale Mistero “cardine” della Religione Cattolica contro tutte le relativizzazioni che tentino di ridefinirne ereticamente la collocazione nel quadro delle Verità di Fede, è pur vero che tale volontà non può limitarsi alla importante fissazione di “paletti” dottrinali che assicurino almeno “sulla carta” la permanenza della fede cattolica,  ma deve necessariamente trovare il suo naturale e coerente riflesso applicativo, riportando “ordine” in ciò che è “pura ecclesialità”, cioè nella restaurazione della piena ortodossia di quel culto “pubblico” nel quale la Chiesa esprime se stessa nel modo più perfetto e compiuto.

È bene però chiarire, soprattutto a vantaggio di coloro che ancora coltivano una qualche speranza che un obiettivo di tal genere sia conseguibile agendo “correttivamente” sul “Novus Ordo Missae”, che una riconduzione alla perfetta ortodossia cattolica della liturgia riformata deve ormai considerarsi un’illusione sulla quale non è bene nutrire soverchie speranze. Anche volendo infatti tacere del pur gravissimo aspetto dell’intrinseca ambiguità che ne segna la “lettera” -  garantendo quei “margini di flessibilità interpretativa” i quali già di per se stessi depongono inequivocabil-mente nel senso della “pericolosità dottrinale” dell’“impianto” sotteso alla nuova lex orandi e quindi dell’assoluta necessità di un suo superamento in tempi ragionevolmente non lunghissimi - vi sarebbe in ogni caso da rimarcare che allo stato attuale la prassi, avendo in qualche modo consolidato quella percezione distorta del rito solo potenzialmente presente nella sua formulazione letterale, ha sortito l’effetto di un  radicamento di fatto di un senso liturgico “errato” sia nel clero che nei fedeli, e in questi anni ha condotto le cose decisamente “troppo in là” perché sia possibile ipotizzare una significativa inversione di tendenza da ottenersi mediante interventi di carattere puntuale.

Se la Fede è in pericolo, se è cioè in discussione, con la sua permanenza e la sua continuità, la sua stessa identità, allora nulla meglio del ripristino della Liturgia Tradizionale appare oggi in grado di rappresentare un’“arma” formidabile nella battaglia per la “custodia” di quel “Deposito” la cui integrità appare in pericolo: ciò proprio perché la “sicurezza” e la solidità teologica di detta Liturgia rappresentano un’assoluta garanzia di “cattolicità”.
In questa battaglia la  piena riabilitazione della Messa Romana Tradizionale offre infatti, non solo un “punto fermo” essenziale per la riappropriazione da parte del popolo cristiano di quelle “verità fondamentali” del cattolicesimo ormai non più assimilate (oltre che per la ricostituzione di un autentico senso liturgico), ma offre alla “Barca di Pietro”, attraverso un insuperabile “ancoraggio” dogmatico, una “definizione autentica” del Cattolicesimo - di ieri, di oggi, di sempre - capace di fare giustizia di ogni idea eterodossa attualmente in circolazione all’interno della Chiesa.
Questo è vero in modo particolare oggi, cioè in un periodo di bufera quale quello che la Chiesa sta attraversando e nel quale non paiono ipotizzabili quei pronunciamenti a livello di magistero straordinario che soli potrebbero ormai porre fine al grave stato di “instabilità” dottrinale determinatosi successivamente al XXI Concilio.

La piena ed esplicita restaurazione della Liturgia Tradizionale varrebbe a sottolineare incontrovertibilmente la permanenza e la continuità del Cattolicesimo e permetterebbe di fornire, tra l’altro, una sorta di “criterio di autenticità” alla cui luce leggere in modo pienamente ortodosso sia tutto il magistero conciliare e postconciliare, sia la stessa liturgia attualmente celebrata dalla Chiesa, in attesa naturalmente di un suo improcastinabile superamento.
Di più: anche sul piano strettamente pastorale, in virtù della posizione di particolare “strategicità” della liturgia in una fase storica in cui il contatto di molti cattolici con la realtà ecclesiale si riduce alla sola osservanza del precetto festivo, la reintroduzione con pieni diritti della liturgia cattolica ortodossa rappresenterebbe quell’importante segnale di “inversione di tendenza” da tanti auspicato e che la Gerarchia, come anche recenti vicende sembrerebbero dimostrare, si mostra almeno in una sua parte ormai intenzionata a voler concedere. 

È poi evidente come tale reintroduzione debba essere accompagnata da un programma che assicuri alla liturgia cattolica ortodossa una sempre maggiore visibilità, ad esempio garantendo in ogni diocesi, come primo passo, nelle domeniche e nelle festività di precetto almeno una celebrazione secondo il rito antico nelle chiese cattedrali,  in prospettiva di una sua estensione alle parrocchiali.

La restaurazione dottrinale, perché possa davvero dirsi tale, postula dunque necessariamente la restaurazione liturgica:  se infatti la restaurazione della Messa Tridentina rappresenta, di fatto, la restaurazione dell’autentica dottrina  cattolica, allora può senza tema di equivoco affermarsi che sino a quando non si perverrà a un pieno ristabilimento della Verità Cattolica anche a livello liturgico, ogni giusto richiamo della Gerarchia alla sana dottrina non potrà purtroppo che essere vano flatus vocis destinato inevitabilmente a cadere nel vuoto. E tale ristabilimento a livello liturgico può essere realizzato attraverso quella piena liberalizzazione della Liturgia Romana  che costituisce, assieme all’ormai improcrastinabile “riforma della riforma”, quell’atto dovuto che solo è in grado di attribuire la giusta “caratura” al movimento dottrinale “correttivo” mediante cui il Magistero sta cercando con fatica di dissipare i molti errori dottrinali diffusisi negli ultimi trent’anni.

Niketas


NOTE

(1) GIOVANNI PAOLO II: Discorso per la chiusura della Sessione Plenaria della Congregazione per la Dottrina della  Fede. Roma, 18 gennaio 2002. (su)
(2) BEATO GIOVANNI XXIII: Allocuzione per l’apertura solenne del Concilio Ecumenico Vaticano II.  Basilica Vaticana, 11 ottobre 1962. (su)
(3) Il Concilio infatti - circostanza assolutamente anomala se considerata in relazione ai precedenti storici relativi alle convocazioni di analoghe assise ecumeniche - intese parlare privilegiatamente al “mondo” più che ai cattolici: in tal senso esso non pose minimamente sul tappeto, neppure sul piano dell’eventualità, la tematica della crisi della fede nel popolo cristiano, la quale era per converso a tal punto ritenuta non in pericolo da incoraggiare, come sopra cennato, ambiziosi programmi di “avanzamento” della Fede Cattolica nel mondo non cristiano, ma soprattutto decristianizzato. (su)
(4) Il cosiddetto “dialogo interreligioso” infatti, mortificando la tensione missionaria, è andato di fatto ad assecondare la tendenza, particolarmente forte nell’ultimo decennio del secolo trascorso e tuttora in atto, a collocare il cristianesimo in un contesto  religioso pluralistico, nel quale esso rinunciava a porsi quale “Verità” in funzione di un non ben definito “confronto” con le differenti culture. (su)
(5) Addebitare tale nefasto esito al cosiddetto “rinnovamento” conciliare  non è che il risultato di una mera ricognizione delle vicende degli ultimi cinquant’anni di vita della Chiesa: se da una parte infatti costituisce circostanza accertata che la Chiesa “preconciliare” non potesse ritenersi realmente in crisi, altrettanto indubitabile è che la crisi comparve subito all’indomani del Concilio, e si manifestò come crisi complessiva, la quale toccò a un tempo l’esegesi, la teologia dogmatica e morale, la filosofia cristiana, la liturgia, la formazione sacerdotale, l’organizzazione ecclesiastica, per giungere da ultimo alla catechesi dei laici e perfino dei fanciulli. Peraltro, c’è chi nega la riconducibilità di questa vera e propria “disfatta” al “nuovo corso ecclesiale”, ritenendola piuttosto un effetto ineluttabile del tumultuoso e apparentemente inarrestabile processo di “laicizzazione” che coinvolge le società occidentali (e indirettamente il mondo intero, stante l’egemonia esercitata dall’Occidente industrializzato sull’intero pianeta), e adducendo la giustificazione che tale processo non avrebbe non potuto in qualche modo coinvolgere anche la Chiesa Cattolica che all’interno di quelle società vive e opera. Tale assunto, seppur indubbiamente suggestivo, non riesce a risultare pienamente convincente. Infatti, una simile tesi, sostenuta in modo interessato da taluni ambienti di curia con evidenti intenti autoassolutori, potrebbe al limite in qualche modo dar ragione degli assai deludenti esiti pastorali ottenuti dalla tanto decantata “spinta missionaria” promossa dal Concilio, che sarebbe stata in vario modo frustrata dall’oramai completa secolarizzazione cui quelle società erano avviate e che avrebbe creato una insormontabile “barriera culturale” ai danni della nuova pastorale. Ma, in nessun modo pare in grado di fornire una  motivazione adeguata alla drammatica “caduta” spirituale  che oggi osserviamo non solo e non tanto nella società civile (la cui scristianizzazione ha peraltro conosciuto nei Paesi di più forte tradizione cattolica proprio all’indomani del Concilio un’accelerazione impressionante), quanto soprattutto “all’interno” della compagine ecclesiale, cioè proprio in quell’“ovile” nel quale sino a quel momento il “pusillus grex” era stato custodito con ogni cura e che Pastori davvero vigilanti ed avveduti avrebbero dovuto seguitare a proteggere senza compromessi dall’aggressività di quel lupo - travestito da agnello - che è il mondo, e segnatamente il mondo moderno. Piuttosto, ancorché  non apertamente confessabile in ambienti curiali molti dei quali direttamente coinvolti o quantomeno compromessi nella “rivoluzione teologica”, è noto come la progressiva erosione del “sensus fidei” rinvenga in realtà le proprie radici in quell’“abbattimento dei bastioni” in funzione dell’“apertura al mondo” - predicato da certa “nouvelle theologie” che “egemonizzò” l’assise conciliare - mediante cui si è di fatto consentita l’infiltrazione all’interno della Chiesa di una serie di errori in materia teologica, filosofica e morale la cui diffusione era stata al sino al Concilio oculatamente ostacolata dal magistero ordinario. (su)
(6) Scrive San Paolo ai Romani (Rm. 10, 13-15): “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati?”. La Tradizione ha sempre insegnato, sulla base di questo passo scritturale, che la fede è trasmessa attraverso un “annuncio” e un “ascolto”, il cui oggetto è rappresentato da quella fede dogmatica, le cui verità il Signore ha consegnato alla sua Chiesa e che la stessa ha autenticamente custodite in virtù della permanente assistenza dello Spirito Santo promessale dal suo Fondatore. (su)
(7) Vale la pena sottolineare come in ciò non ci si trovi affatto di fronte a un fenomeno storicamente inedito, ma semplicemente estraneo al Cattolicesimo: modalità di disfacimento della Cristianità assolutamente analoghe a quella or ora descritta, per non dire identiche, si sono riscontrate nei paesi che furono e sono interessati dalla pseudo-riforma protestante, nei quali l’abbandono della “regula fidei” ha condotto ad una lenta ma inesorabile decomposizione della fede, determinando in quelle terre  l’estinzione di fatto del Cristianesimo, al cui posto si è reintronizzato di bel nuovo un neopaganesimo ormai peraltro raziona-listicamente depurato di tutti gli estetizzanti orpelli mitologici di quello antico. (su)
(8) Se dunque, per dirla in altre parole, sul piano sociale assistiamo al venir meno de facto del Cattolicesimo quale “attore” storico, ancor più radicalmente e gravemente, con riferimento ai fedeli considerati uti singuli, è ormai dato constatare la messa in discussione - come le stesse parole del Papa paiono attestare - della “possibilità” stessa di quella “vita di grazia” che, oltre a costituire l’essenziale della pratica cristiana per ogni credente, si pone evidentemente come l’unica autentica “pietra angolare” di ogni possibile progetto di evangelizzazione (o rievangelizzazione che dir si voglia) del mondo contemporaneo. Si capisce che la sequenza nella quale vengono ordinati i due momenti è di carattere ontologico e non già meramente cronologico, essendo di fatto essi nella prassi così intimamente legati - stante la natura “intrinsecamente” missionaria del Cattolicesimo - da non potersi forse neppure distinguere nella loro reciproca  individualità. (su)
(9) In questo senso non vi è alcun dubbio che, almeno da “Dominus Jesus” in poi, il Pontefice abbia posto, alle soglie della conclusione del suo cammino pastorale, quale prioritario e inderogabile compito della Chiesa del futuro quello della riaffermazione del primato dell’ortodossia - da intendersi come regola del retto credere -, in particolare attraverso la decisa collocazione al centro della riflessione teologica, e di riflesso dell’attività catechetico-pastorale, del principio sommo della Religione Cattolica secondo cui l’ortodossia stessa precede sempre, almeno sul piano ontologico, l’ortoprassi, il che è quanto dire che, in materia di fede, in nessun caso può darsi un “buon agire” senza un “buon credere”.  Risiede qui, a nostro avviso, l’enorme valore del magistero più recente di Giovanni Paolo II: il Pontefice che verrà con ogni probabilità ricordato dai più per il grande magistero sull’etica della vita, a coronamento del suo ormai ultraventennale “discorso” al mondo si rivolge ai cattolici avvertendoli - con un insegnamento di grande autorevolezza che è forse destinato ad essere l’ultimo che Egli consegna alla Chiesa - come il fondamento irrinunciabile su cui erigere, unitamente al proprio individuale edificio spirituale, quello della “nuova evangelizzazione” debba eminentemente essere quella “sana dottrina”, alla cui restaurazione è chiamato a prestare alacremente la propria opera ogni seguace di Cristo, sia esso religioso o laico. Considerando poi globalmente il magistero di Giovanni Paolo II, pare di cogliere, nell’affermazione perentoria della necessità di preservazione della “purezza” della Fede quale preminente obiettivo della Chiesa di domani che sta caratterizzando l’ultima fase del pontificato, una sorta di “riequilibramento” sul fronte dogmatico dell’insieme del contributo magisteriale del Regnante Pontefice, parso sovente sbilanciato sui temi della morale cattolica, la cui praticabilità non è tuttavia teologicamente sostenibile in mancanza di una ripresentazione integrale dell’essenziale funzione nella vita cristiana della Grazia, la cui sola azione -  nell’interazione con la libertà individuale - può schiudere al cristiano la via delle perfezioni evangeliche. (su)
(10) Concilio Ecumenico Vaticano II. Costituzione dogmatica “Sacrosanctum Concilium”, par. 10; Codex Juris Canonici, can. 897. (su)
(11) PAOLO VI: Discorso per la chiusura della Seconda Sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II. In effetti,  se ciò può senz’altro affermarsi da un punto di vista strettamente dottrinale, una serena analisi delle recenti vicende della vita ecclesiale dimostra, consentendo quasi una verifica “storica” della veridicità della massima “legem credendi lex statuat supplicandi”, come siano state massimamente le modificazioni liturgiche ad avere avuto nei fatti l’incidenza più diretta sul “cattolico medio”. Tali modificazioni, in effetti, si sono concretizzate in un vero e proprio sovvertimento della forma cultuale, attraverso cui si è traumaticamente imposto un vero e proprio “ribaltamento” della millenaria atmosfera spirituale cui il popolo cristiano era stato educato; così che di fatto si individua il momento liturgico come quello privilegiato su cui agire in un’ottica di “riordino” globale della vita ecclesiale, come oltre si avrà modo di verificare. (su)
(12) GIOVANNI PAOLO II: Epistola “Dominicae Cenae”, n. 13. (su)
(13) Sul profondo legame tra fede e liturgia si veda l’Enciclica Mediator Dei, (Parte I, III, § 10), di S. S. Pio XII, in cui il Sommo Pontefice si richiama all’antico adagio, risalente al 431 d. C.: "legem credendi lex statuat supplicandi" (Denz. 246); spiegandone il senso di reciprocità con l’adagio da noi citato nel testo. (su)
(14) Giovanni Paolo II: Discorso per la chiusura della Sessione Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, 18 gennaio 2002. (su)
(15) Conc. Ecum. Vat. II. Costituzione dogmatica “Sacrosanctum Concilium”, par. 10. (su)
(16) Cat. Eccl. Cath., parr. 1324 e 2031. (su)
(17) In questo senso dunque la trasmissione della verità, seppur avvalendosi indubbiamente della mediazione dell’elemento umano, ha una sua sostanza tutta soprannaturale e costituisce un mistero di azione della grazia. Ciò è vero naturalmente sia dal lato del “consegnare”, che si realizza entro una struttura sociale, la Chiesa, che è animata dalla presenza indefettibile dello Spirito di Dio; sia dal lato del “ricevere”, essendo l’azione dello Spirito a determinare le condizioni perché sussista la disponibilità dell’uomo all’accoglienza della verità. (su)
(18) All’autentico “possesso” della verità cristiana è infatti ontologicamente connessa la “pratica” delle virtù cristiane - come “sperimentazione” della pienezza della Verità nella vita - la cui causalità efficiente risiede appunto nell’azione nell’anima giustificata della grazia santificante, la quale ordina nella Chiesa la pluralità dei carismi, consentendo ad alcuni il raggiungimento del culmine della perfezione cristiana, nel quale il credente, incondizionatamente aperto all’azione dello Spirito, muore interamente a se stesso per vivere in sé la vita di Cristo. (su)
(19)  San Paolo enuclea esemplar-mente questo concetto scrivendo nel secondo capitolo della prima lettera ai Corinzi  (1 Cor. 2, 12-14): “Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali.  L’uomo naturale non comprende le cose dello spirito di Dio; esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale, invece, giudica ogni cosa...” (su)
(20) SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, IIIa, q. 64, a. 2, ad 3. (su)
(21) Cat. Trid., n. 228. (su)
(22) PIO XII: Lettera Enciclica “Mediator Dei”. (su)
(23) Il Concilio di Trento, ribadendo il plesso della lex credendi consegnata dalla Tradizione mediante la riafferma-zione della completezza della cristologia dei grandi concili ecumenici del primo millennio, sostiene il concorrere da parte dell’uomo, in modo reale mediante la sua volontà, alla giustificazione, la quale si pone quale vero mutamento ontologico avente come causa agente la grazia di Dio. La partecipazione alla vita divina dunque, secondo i Padri Tridentini, lungi dal configurarsi quale “opus Dei et passio nostra” - come pretendeva il luteranesimo - esige una “participatio” che può definirsi “actuosa” proprio in relazione ad una riaffermata struttura ontologica esprimentesi attraverso un preciso modello antropologico. In questo senso il Concilio Tridentino, in assoluta coerenza a queste premesse teologiche, intese perseguire in ambito liturgico non già una passiva assistenza alla celebrazione liturgica da parte dei fedeli, ma esattamente l’opposto, mentre il mantenimento della lingua latina obbedì all’esigenza tradizionale dell’uso di una lingua liturgica, la quale, per la sua atemporalità, è garanzia di continuità e  rispetto delle formulazioni dogmatiche che essa stessa esprime. (su)
(24) Il non-senso di un’Eucaristia  tendenzialmente “asacrificale” e puramente “sacramentale” finisce infatti col render completamente incomprensibile, come cennato, la natura “soprannaturale” dell’evento liturgico, col risultato di fare della liturgia  una sorta di “involucro vuoto” da riempire con ciò che la creatività dei celebranti e le esigenze delle assemblee ritengono più opportuno: si è poi riscontrato come la prassi, coll’accentuare ulteriormente l’obliterazione della natura sacrificale della Messa, abbia di fatto colmato questa lacuna per lo più mediante una vuota autocelebrazione della comunità in quanto tale, icasticamente sottolineata dalla scomparsa del crocifisso da tanti presbiteri. (su)
(25) Se in effetti il fulcro di queste teologie secolarizzate può dirsi imperniato sul concetto base secondo cui la natura umana è già irreversibilmente unita a quella divina nell’Incarnazione del Verbo, che con la sua Resurrezione ha associato l’umanità alla sua gloria perenne, va da sé come l’idea di fondo della grazia e della sua dinamica, unitamente al significato da attribuirsi alla perfezione cristiana, possa formularsi in termini radicalmente differenti rispetto a quelli propri della prospettazione tradizionale. Peraltro, è evidente come questo concetto possa affermarsi in modo apparentemente ortodosso non negando, ma solo sottacendo il particolare fondamentale che sia l’Incarnazione che la Resurrezione private del loro riferimento al Sacrificio della Croce risultano assolutamente vuote di significato. (su)
(26) La liturgia infatti ha “anche” valore pedagogico, ma non è eminentemente “luogo” pedagogico, mentre d’altra parte la penetrazione della verità avviene in ambito liturgico secondo modalità e a un livello completamente  differenti rispetto alla catechesi propriamente detta, la quale rimane ovviamente indispensabile in ragione di quella possibilità più schiettamente “analitica” - affidata nella celebrazione al momento omiletico - che le è inerente e che è invece assolutamente preclusa al linguaggio assertorio-veritativo che è proprio dell’espressione liturgica. (su)

(marzo 2003)


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