LA PARTECIPAZIONE AL CRISTO
La Dominus Iesus, la Grazia e l’Eucarestia
La Dichiarazione Dominus Iesus ribadisce solennemente fin dal
titolo la signoria di Cristo su tutto l’essere dell’universo, di conseguenza
“l’unicità e l’universalità salvifica del mistero di Gesù
Cristo e della Chiesa” (§ 2). Essa vuole riaffermare l’universalità
della signoria del Verbum divino nel rispetto della millenaria tradizione
della Chiesa, ma vi riesce solo in parte, inficiata com’è da alcuni
elementi distonici rispetto alla dottrina classica, prelevati dal Concilio
Vaticano II e dal magistero di Giovanni Paolo II, di cui essa si avvale
e che anzi acquisisce come basi per nuove formulazioni.
Avendo proposto in altra sede delle disamine sistematiche della Dichiarazione,
in questa occasione ci si soffermerà sui passi che toccano direttamente
l’incoerenza del Documento sulla relazione che intercorre, in ordine alla
Grazia e all’Eucarestia, tra la Chiesa e le religioni non cristiane.
“La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in
queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire
e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti
differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente
riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”
(§ 2, cfr Dei Verbum n. 4).
“Si avanza l’ipotesi circa il valore ispirato dei testi sacri di altre
religioni. Certo, bisogna riconoscere come alcuni elementi presenti in
essi siano di fatto strumenti, attraverso i quali moltitudini di persone,
nel corso dei secoli, hanno potuto e ancora oggi possono alimentare e conservare
il loro rapporto religioso con Dio. Per questo, considerando i modi di
agire, i precetti e le dottrine delle altre religioni, il Concilio Vaticano
II afferma che, ‘quantunque in molti punti differiscano da quanto essa
(la Chiesa) crede e propone, tuttavia, non raramente riflettono un raggio
di quella Verità, che illumina tutti gli uomini’” (§ 8, nella
cui nota si precisa: ‘Conc. Vaticano II, Dich. Nostra aetate, n. 2. Cfr.
anche Decr. Ad gentes, n. 9, dove si parla di elementi di bene presenti
‘negli usi e civiltà particolari di popoli’; Cost. dogm. Lumen gentium,
n. 16, dove si accenna ad elementi di bene e di vero presenti tra i non
cristiani, che possono essere considerati una preparazione all’accoglienza
del Vangelo’).
“Certamente, le varie tradizioni religiose contengono e offrono elementi
di religiosità, che procedono da Dio (in nota: “Sono i semi del
Verbo divino "semina Verbi" che la Chiesa riconosce con gioia e rispetto”;
cfr Conc. Vaticano II, Decr. Ad gentes, n. 11; Dich. Nostra aetate, n.
2), e che fanno parte di ‘quanto opera lo Spirito nel cuore degli uomini
e nella storia dei popoli, nelle culture e nelle religioni’ (Giovanni Paolo
II, Lett. Enc. Redemtoris missio, n. 18). Di fatto alcune preghiere e alcuni
riti delle altre religioni possono assumere un ruolo di preparazione evangelica,
in quanto sono occasioni o pedagogie in cui i cuori degli uomini sono stimolati
ad aprirsi all’azione di Dio (ibidem, n. 29). Ad essi tuttavia non può
essere attribuita l’origine divina e l’efficacia salvifica ex opere operato,
che è propria dei sacramenti cristiani (Cfr Conc. di Trento, Decr.
De sacramentis, can. 8, de sacramentis in genere: Denz., n. 1608)” (§
21).
“Se è vero che i seguaci delle altre religioni possono ricevere
la grazia divina, è pure certo che oggettivamente si trovano in
una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro
che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici (Cfr Pio XII,
Lett. Enc. Mystici corporis: Denz., n. 3821)”.
Bisogna dividere bene tra quello che è il rapporto tra la Chiesa
e i singoli uomini che, pur non essendo formalmente e visibilmente membri
di essa, possono farvi parte in votum, e quello che è il rapporto
tra la Chiesa e le altre religioni. Questa differenza di rapporto non viene
mai riconosciuta né dalla Dichiarazione né dai testi conciliari
cui essa si riferisce, mentre nei testi del magistero preconciliari essa
è ben presente e decisiva. Ma qui passa il discrimine sostanziale
tra la teologia ortodossa e la teologia innovativa.
Come nota anche il professor Johannes Dörmann (cfr. sì
sì no no anno 2001, n. 5), nel primo caso la lettura della Dichiarazione
non solleverebbe dubbi, salvo “stimolare i teologi a proseguire oltre,
a penetrare con ulteriori ricerche nei fatti più intimi della salvezza,
tra Dio e l’anima individuale”, quando per altro “il rapporto più
intimo tra l’anima e Dio è rapporto sottratto per definizione ad
ogni ulteriore approfondimento teologico”.
Fatto salvo quindi questo rapporto, deve venire studiata e chiarita
l’altra relazione: quella intercorrente tra le varie religioni in quanto
tali e la religione fondata da Gesù Cristo, la Chiesa che ne è
l’espressione visibile. È in questo senso specifico che saranno
ora discusse le parole della Dichiarazione riportate supra.
La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo
in queste religioni.
A proposito dei grandi filosofi greci, san Giustino affermava che “tutto
ciò che essi hanno insegnato di buono appartiene a noi, a noi cristiani”,
e anzi, sempre a riguardo della sola filosofia e metafisica greca, precisava
con una legge generale: “Tutto quanto è stato affermato sempre in
modo eccellente e quanto scoprirono coloro che fanno filosofia o istituiscono
leggi, è stato compiuto da loro attraverso la ricerca o la contemplazione
di una parte del Verbo” (II Apol., 10,1-3). Il filosofo cristiano si riferiva
precipuamente al riconoscimento da parte dei greci dell’esistenza di un
Dio unico, dell’esistenza dell’anima e della sua immortalità. Fatti
precisi, non anonimi e inconsistenti come quelli cui accenna la Dichiarazione.
Fatti che servivano per combattere le false religioni, non per apprezzarle.
Fatti conoscibili con la ragione naturale (la contemplazione di una
parte del Verbo) e fatti che per la loro stessa ragione costringevano a
ripudiare l’idolatria.
Il vero delle false religioni è, per così dire, costitutivo
di esse, ma non sostanzialmente, bensì solo accidentalmente, in
quanto è quella loro parte che permette all’uomo di crederle vere,
non appalesandosi immediatamente la loro falsità. Se non ci fosse
del vero in una proposizione falsa, essa non avrebbe modo di nascondersi.
Ma il paralogismo, la falsità, proprio in questo consiste, nell’apparire
fortemente vera sotto ogni aspetto. E tanto più essa appare vera
e credibile, tanto cresce la sua falsità. Al contrario, diminuendo
in essa la quantità di vero, diminuisce la sua falsità. Quindi
la posizione della Chiesa, maestra di verità, non deve essere di
benevolenza, ma di severo giudizio, riguardo a ciò che di vero persiste
nella falsità delle religioni, per riprendersi ciò che è
suo, ciò che anzi, sotto le mentite spoglie, assume anche un aspetto
non veritiero, quand’anche fosse vero. E tanto più deve essere severo
il suo giudizio, dove gli elementi di vero le sono più prossimi
e l’elemento di falsità più difficile a trovarsi. Perché
poi il vero delle false religioni sia setacciato e riconosciuto come tale
dagli uomini retti, ci vuole la Grazia, senza la quale esso non può
assumere per loro l’aspetto che gli è proprio.
È per questo che, per la conversione al vero Dio di un pagano,
“il voto implicito non può avere effetto se l’uomo non ha una fede
soprannaturale [data dalla Grazia]” (Lettera del S. Uffizio all’Arcivescovo
di Boston, 8 agosto ’49).
Riguardo poi al santo di cui si dice, san Tommaso spiega che “il termine
implica due cose. Prima di tutto purezza: a cotesto significato accenna
il termine greco, difatti àgios significa senza terra. In secondo
luogo indica stabilità: infatti presso gli antichi si denominavano
sante le norme difese dalle leggi, così da non potersi violare;
e una cosa si dice sancita per il fatto che è stabilita dalla
legge. […] Entrambi i significati permettono di attribuire la santità
a quanto si applica al culto di Dio. Infatti perché la mente si
applichi a Dio è necessaria la purezza. […] Ora, è necessario
che la mente si astragga dalle cose inferiori, per potersi unire alla realtà
suprema. […] Perché un’anima si applichi a Dio si richiede inoltre
la stabilità. Infatti essa si deve applicare a Lui come al suo ultimo
fine e al suo primo principio: ebbene, queste due cose devono essere immobili
al massimo, secondo le parabole dell’Apostolo: ‘Io son persuaso che né
morte né vita potrà mai separarmi dalla carità di
Dio’” (Summa Theol., II-II, q. 81, a. 8). Ora, se le religioni false hanno
per proprio oggetto un dio, non sono religioni false, perché il
loro oggetto è vero. Quindi è appropriato che esse abbiano
elementi santi, come sostiene la Dichiarazione. E anzi li abbiano in abbondanza,
come si conviene a dei culti finalizzati a qualcosa di superiore. Ma le
religioni il cui dio non è quello rivelato da Gesù Cristo
sono false, in quanto il loro oggetto è nullo, come dice la Scrittura:
“Tutti gli dei delle nazioni sono vanità” (Psal., 95, 5), quand’anche
non sia un demone, come spiega ancora il medesimo versetto secondo la versione
greca dei Settanta. Ora, se l’oggetto di una religione non è santo,
in quanto è un diavolo, o non è niente, tanto meno si può
dire santo il suo culto, né pretendere che qualche elemento di esso
lo sia. Inoltre, essendo la virtù di religione una specie della
giustizia, è necessario che gli atti compiuti con essa siano eseguiti
soddisfacendo il bene cui è ordinata, e questo lo si può
fare solo con la Grazia, che non è presente nelle religioni pagane
in quanto tali, come vedremo.
Per cui, dire che la Chiesa cattolica “nulla rigetta di quanto è
vero e santo in queste religioni”, ancorché non sia per nulla determinato
alcun elemento preciso né di verità né di santità,
sottintende accreditare a delle idolatrie e superstizioni una specie, quella
di religione, che non gli è propria e che per di più gli
è anche direttamente contraria. E più tali credenze presentano
elementi simili all’unica religione vera, più ad esse si può
applicare il principio summen-zionato di falsità, stante il quale
san Tommaso deduceva: “L’uomo si allontana da Dio nella maniera più
grave con l’incredulità: poiché viene persino a mancare della
vera conoscenza di Dio; e con una conoscenza falsa a Lui non si avvicina,
ma si allontana maggiormente. E chi ha una falsa idea di Dio non può
averne una conoscenza neppure parziale: poiché ciò che egli
pensa non è Dio” (Summa Theol., II-II, q. 10, a. 3).
Quindi la Chiesa può e deve continuare a rigettare in toto le
false credenze di cui è circondata, perché in esse non si
trova nessun elemento vero, in quanto qualsiasi verità, in un contesto
falso, assume la forma di quel contesto, e non si trova nessun elemento
santo, in quanto qualsiasi santità non si può ritrovare se
non dove esista un principio santo, caso che è dato solo dalla nostra
religione, che adora l’unico vero Dio in quanto suo principio. Come dice
la Scrittura: “Pensarono male su Dio, seguendo gli idoli; e, a sfregio
della santità, spergiurano con inganno” (Sap., 14, 30). La proposizione
è quindi fuorviante sotto ogni profilo.
“Essa [Chiesa] considera con sincero rispetto quei modi di agire e di
vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti
differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente
riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini.”
Quanto qui proposto è superato da quanto detto sopra. Tuttavia
è necessario sottolineare che, malgrado l’occasione si offra più
volte, mai il Documento precisa quali siano nelle altre fedi i punti di
convergenza, i riflessi dei raggi di verità, e cose simili. Infatti
la teoria interreligiosa di una convergenza delle false credenze nella
religione rivelata da Nostro Signore è una teoria che sembra reggere
meglio quando i suoi fondamenti rimangono generici, indeterminati, astratti.
Si avanza l’ipotesi circa il valore ispirato dei testi sacri di altre
religioni.
Certo, se si ammette che vi siano delle credenze che in qualche modo
si riferiscano, anche se imperfettamente e con gradi di partecipazione
più o meno puri, all’unico vero Dio, bisogna di conseguenza opinare
che le dottrine che ne costituiscono il fondamento siano in qualche modo
ispirate. Questo pensiero è stato avanzato anche dal Papa, in una
delle sue catechesi, mercoledì 9 settembre 1997: “Non di rado, alla
loro origine [delle religioni] troviamo dei fondatori che hanno realizzato,
con l’aiuto dello Spirito di Dio, una più profonda esperienza religiosa.
Trasmessa agli altri, tale esperienza ha preso forma nelle dottrine, nei
riti e nei precetti delle varie religioni”. Secondo queste parole, quindi,
alcuni uomini, nel corso della storia, sono stati toccati profondamente
dallo Spirito Santo, e sono stati soggetti di esperienze mistiche che li
hanno portati a enunciare delle dottrine religiose e ad approntare dei
riti. Quindi i testi di queste esperienze sono sacri (santi) e necessariamente
ispirati. Anche qui, come altre volte abbiamo rilevato, ci troviamo in
ogni caso di fronte al più profondo anonimato, secondo la più
sofisticata procedura della teologia innovatrice, che sempre si spinge
oltre quello che può dire, sul piano delle specie, salvo rimanere
reticente nella determinazione circostanziata degli elementi individuanti.
I concetti espressi non tengono in nessun conto, prima di tutto, dell’unicità
della Rivelazione, se non sotto questo nuovo punto di vista, del tutto
eterodosso, che la Rivelazione sia in effetti unica, ma preceduta e (forse)
accompagnata da testimonianze comparse non solo all’interno dell’Antico
Patto, ma anche al suo esterno. Le ispirazioni profetiche quindi non sarebbero
circoscritte ai Libri canonici confluenti nelle Sacre Scritture riconosciute
dal Magistero della Chiesa, trovandosi anche, al di fuori di esse, altre
ispirazioni, forse meno sicure, forse anche più rozze e primitive,
ma tutte certamente confluenti ad indicare lo stesso oggetto, il Dio rivelato
da Gesù Cristo, in una visione universalistica e totalitaria della
storia delle religioni nel mondo. Ma la Grazia è scesa nel mondo
solo con Gesù Cristo, come dice la Scrittura: “Il cielo si aprì
e scese su di lui lo Spirito Santo” (Luc., 3, 21-22), e ancora: “La grazia
e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Ioan., 1,
17). Per cui anche questa proposizione è falsa.
Certo, bisogna riconoscere come alcuni elementi presenti in essi
[testi sacri] siano di fatto strumenti, attraverso i quali moltitudini
di persone, nel corso dei secoli, hanno potuto e ancora oggi possono alimentare
e conservare il loro rapporto religioso con Dio.
Queste parole confermano la nostra ipotesi: noi dovremmo ritrovare nei
testi fondatori di idolatrie e superstizioni degli elementi, al contrario,
capaci di alimentare e conservare la religione. Questa è una proprietà
che finora distingueva le Sacre Scritture da ogni altro testo, in quanto
finora si distingueva nettamente tra ordine naturale e ordine soprannaturale.
Anche il professor Dörmann, nel suo articolo tradotto su sì
sì no no n. 5 del 2001, rileva che per la nuova teologia “tutte
le religioni prendono parte all’unica e universale mediazione di Cristo”,
confermando autorevolmente l’espressione dei nostri timori, che per essa
“tutte le religioni sono ordinate alla salvezza che è una ed è
quella di Cristo: il loro ordine è stabilito dal grado di partecipazione
di ciascuna alla pienezza di verità e di salvezza che si trova in
massimo grado in Cristo e nella sua Chiesa” (cfr. sì sì no
no n. 19, anno 2000).
Per provare l’errore di queste tesi, nei precedenti articoli si è
ricorsi al più solido argomento offerto alla teologia da sempre,
quello dell’autorità, per cui Sacra Scrittura e Tradizione si trovano
concordemente unanimi nel respingere qualsiasi partecipazione alla Rivelazione
da parte di qualsivoglia credenza umana.
Vi è poi un argomento logico-deduttivo, attraverso il quale
si può giungere alle stesse conclusioni, per distinguere abissalmente
il naturale dal soprannaturale. Per far questo, è necessario ristabilire
la dottrina della Grazia a riguardo delle religioni, in quanto principio
formale di tutta la nostra vita soprannaturale e principio radicale delle
virtù teologali, fede, speranza, carità.
Se si dimostra che la Grazia inerisce in qualche modo alle religioni
non rivelate, in quanto tali, si potrà anche dire che esse effettivamente
partecipano alla mediazione compiuta da Cristo, come sostenuto dalla Dichiarazione.
Se invece si dimostra che la Grazia non ha nulla a che fare con quelle
dottrine, toccando tutt’al più, occasionalmente ed eccezionalmente
dei singoli uomini che cercano Dio e al Cristo certo si convertirebbero
se solo lo conoscessero, allora tutto il pantheon delle religioni torna
a prendere nei riguardi di Cristo il posto che sempre ha avuto, di accozzaglia
spuria di simulazioni e ruberie avversarie, mistificatrici, falsificatorie.
In Stat veritas, per esempio, il professor Amerio si trovò di
fronte allo stesso problema, dovendo chiosare certe parole dell’Enciclica
Tertio millennio adveniente:
“Cristo è il compimento dell’anelito di tutte le religioni del
mondo e, per ciò stesso, ne è l’unico e definitivo approdo”,
e lo risolse individuando proprio nella Grazia il discrimine vertiginoso
tra la religione rivelata e qualsiasi altra confessione:
“La Grazia: questo è l’elemento supernaturale contraddistintivo
che è assolutamente originale della nostra religione” (Stat veritas,
chiosa 4,V).
Nota il professore:
“L’anelito del genere umano verso la divinità non si deve prendere
per l’anelito speciale del genere umano nella Rivelazione cristiana. Non
si può passare dalla religione di tutti i popoli alla religione
cristiana: qui c’è un salto. La religione cristiana è soprannaturale,
è fondata sulla persuasione che Dio mette nell’intelletto, nella
mente dell’uomo, in maniera speciale, la Grazia; e i popoli Gentili non
hanno la Grazia: hanno una religione "la religione naturale" ma non hanno
la Grazia. Non hanno la religione soprannaturale, perché la religione
soprannaturale, cioè la Grazia, è ontologicamente un principio
divino: è la vita divina, che viene partecipata all’uomo, in modo
incipiente, ma reale. Talmente reale che, nel Battesimo, si parla di una
nascita, o rinascita: c’è la creazione di un nuovo essere. Quindi,
la Grazia non è soltanto qualcosa di morale; la Grazia è
qualcosa di ontologicamente divino, di realmente divino” (Ibidem, chiosa
4,I).
Posto questo, ci si chiede se Dio infondesse la sua Grazia, per esempio
con l’ispirazione e l’insegnamento di verità soprannaturali (che
san Tommaso chiama profezia), anche negli increduli, cioè nei professatori
di religioni false in quanto tali. San Tommaso propone un articolo decisivo:
Se i profeti dei demoni predichino qualche volta la verità (Summa
Theol., II-II, q. 172, a. 6).
“Sembra che i profeti dei demoni non predichino mai la verità.
“Infatti:
“1. S. Ambrogio afferma, che ‘qualsiasi verità, da chiunque
sia detta, viene dallo Spirito Santo’. Ma i profeti del demonio non parlano
mossi dallo Spirito Santo: perché, a detta di S. Paolo, ‘non c’è
accordo tra Cristo e Belial’. Dunque costoro non predicano mai la verità.
“2. Come i veri profeti sono ispirati dallo Spirito di verità,
così i profeti del diavolo sono ispirati dallo spirito di menzogna,
secondo le parole riferite dalla Scrittura: ‘Andrò e sarò
spirito di menzogna in bocca a tutti i suoi profeti’. Ora, i profeti ispirati
dallo Spirito Santo, l’abbiamo visto sopra (a. 5, ad 3; q. 171, a. 6),
non dicono mai il falso. Perciò i profeti del diavolo non dicono
mai la verità.
“3. A proposito del demonio il Vangelo afferma che ‘quando mentisce
parla di quel che gli è proprio: perché è bugiardo
e padre della menzogna’. Ma ispirando i suoi profeti il demonio parla solo
di ciò che gli è proprio: poiché egli non è
incaricato da Dio a enunziare la verità, ‘non essendoci nessun legame
tra la luce e le tenebre’, come si esprime S. Paolo. Quindi i profeti dei
demoni non predicano mai la verità.
“In contrario: In una Glossa (Num., 22, 14) si legge, che ‘Baalam era
un indovino: egli, cioè, con l’aiuto dei demoni e con l’arte magica
talora prevedeva le cose future’. Ora, Baalam predisse molte cose vere,
come si legge nel libro dei Numeri: ‘Una stella spunterà da Giacobbe,
uno scettro sorgerà da Israele’. Perciò anche i profeti dei
demoni predicono le cose vere.
“Rispondo: Il vero sta alla conoscenza come il bene alla realtà.
Ora, come tra le cose reali è impossibile trovarne una priva di
qualsiasi bontà; così è impossibile trovare una conoscenza
che sia del tutto falsa, senza nessuna mescolanza di verità. Dice
infatti S. Beda, che ‘non c’è una dottrina falsa, la quale non inserisca
nel falso qualche verità’. Perciò anche l’insegnamento che
i demoni impartiscono ai loro profeti contiene delle verità, che
lo rendono accettabile: poiché l’intelletto si lascia condurre alla
falsità dall’apparenza della verità, come la volontà
si lascia trascinare al male dall’apparenza del bene. Di qui le parole
del Crisostomo: ‘È stato concesso al demonio di dire talora delle
verità, per avallare, con quel poco di verità, la sua menzogna.’
“Soluzione delle difficoltà:
“1. I profeti dei demoni non sempre parlano per rivelazione diabolica,
ma qualche volta lo fanno per ispirazione divina; come è evidente
nel caso di Baalam, al quale la Scrittura afferma che parlò il Signore,
sebbene fosse un profeta dei demoni. Dio si serve anche dei cattivi per
il bene dei giusti. Perciò egli fa predire delle verità anche
dai profeti dei demoni: sia per rendere più credibile la verità,
che riceve la testimonianza persino dagli avversari; sia perché,
credendo in costoro, gli uomini si lasciano indurre più facilmente
alla verità dalle loro parole. Ecco perché anche le Sibille
predissero molte cose vere intorno a Cristo.
“Ma anche quando sono ispirati dal demonio, questi profeti dicono qualche
cosa di vero: sia in virtù della natura angelica del demonio, di
cui è autore lo Spirito Santo; sia per le rivelazioni che il diavolo
riceve dagli spiriti buoni, come insegna S. Agostino. Perciò anche
la verità che è enunciata dal demonio deriva dallo Spirito
Santo.
“2. Il vero profeta è sempre ispirato dallo Spirito di verità,
in cui non può esserci falsità alcuna: e quindi non dice
mai il falso. Invece il profeta falso non sempre è ispirato dallo
spirito di menzogna, ma può anche essere ispirato dallo Spirito
di verità. Del resto, come abbiamo spiegato, anche lo spirito di
menzogna predice sia cose vere che cose false.
“3. Si dice che è proprio del demonio ciò che egli ha
da se stesso, cioè la menzogna e il peccato. Invece le qualità
naturali egli non le deve a se stesso, ma a Dio. Ebbene, il demonio talora
predice cose vere in virtù della sua natura, come abbiamo già
detto. Inoltre Dio si serve anche dei demoni per far conoscere certe verità,
facendo loro rivelare dagli angeli i suoi segreti, secondo le spiegazioni
già date.
(q. 109, a. 4, ad. 1) ª.”
Da tutto ciò è evidente che non perché i demoni
talvolta predicono cose attinenti a Gesù Cristo, per questo partecipino
in qualche modo alla Rivelazione. Né siano in loro degli elementi
di bene e di vero. Né abbiano in qualche misura la Grazia. Né
arricchiscano con le loro parole la Chiesa. Né la Chiesa debba stabilire
con essi un dialogo. Né si debbano vedere come in qualche modo e
misura coinvolti nel mistero della Rivelazione, partecipatori della santità,
e altre cose simili.
La Grazia quindi, come non inerisce ai demoni, così non inerisce
alle religioni false in quanto tali, poiché le ispirazioni dello
Spirito Santo, anche quando risultino concesse a uomini professatori di
queste religioni, sono ispirazioni che non concernono quelle religioni
in quanto tali, ma verità (naturali o soprannaturali) riguardanti
il Cristo e la sua Rivelazione, come spiega san Tommaso. Sarebbe necessario
di prima necessità che l’attuale magistero della Chiesa recepisse
il concetto ineludibile che Dio, nel procurare la salvezza agli uomini
suoi figli con l’insegnamento della Verità, ha avuto e ha molte
schiere, a ondate, di rivali cattivi, ostinati, falsificatori e omicidi,
quali il diavolo e i suoi seguaci. Questi rivali perversi scimmiottano
Dio specialmente nelle sue prerogative salienti, quali la sua bontà
o la sua veridicità. Ma Dio ha dato alla Chiesa i mezzi per discernere
ciò che è suo, amministrato dalla sua signoria, da ciò
che non proviene da lui, anche se un giorno renderà conto alla sua
signoria.
Cade così il teorema posto dalla teologia innovativa, in particolare
nella Dichiarazione Dominus Iesus, di una partecipazione se pur scarsa
e deficitaria dei testi “sacri” alle idolatrie e alle superstizioni all’unica
Rivelazione, quella consegnata soprannaturalmente all’uomo da Nostro Signore.
Come zoppa, cade anche la proposizione che lo sostiene, e la sua veridicità.
Per questo, considerando i modi di agire, i precetti e le dottrine
delle altre religioni, il Concilio Vaticano II afferma che, “quantunque
in molti punti differiscano da quanto essa (la Chiesa) crede e propone,
tuttavia, non raramente riflettono un raggio di quella Verità, che
illumina tutti gli uomini.
Per questi raggi di Verità che così spesso sarebbero
riflessi nelle dottrine, nei precetti e nei modi di agire delle altre religioni
bisogna fare la considerazione esposta in sì sì no no n.
9, del 1997: “La Divina Rivelazione (v. Genesi) ci dice, infatti, che l’unica
vera religione fu rivelata da Dio fin dal principio ad Adamo e poi ai patriarchi,
che la tramandarono ai loro posteri insieme con la promessa del Redentore.
Successivamente, avendo l’umanità, nella corruzione generale, perduto
perfino la cognizione del vero Dio creandosi false divinità da adorare,
Dio si scelse un popolo che governò con speciale provvidenza affinché
conservasse sulla terra l’unica vera religione fino alla venuta del Salvatore,
il quale la perfezionò e l’affidò alla sua Chiesa fino alla
fine dei secoli.
“Quanto è attestato dalla Sacra Scrittura sulla Rivelazione
primitiva è ampiamente confermato dagli studi sulla religione dei
primitivi: il monoteismo, non il politeismo è il primo stadio della
religione; il politeismo compare poi, come degenerazione del monoteismo
primitivo.
“Se le false religioni pagane, politeistiche, idolatriche (buddismo,
induismo, ecc.) sono il frutto dell’allontanamento dalla Rivelazione divina
primitiva, le altre false religioni (giudaismo, islamismo, sette eretiche
e/o scismatiche) sono il frutto del rigetto, totale o parziale, della Rivelazione
divina definitiva, cioè della Rivelazione cristiana”.
Anche questa proposizione quindi si dimostra falsa e sviante come
le precedenti.
Cost. dogm. Lumen gentium, n. 16, dove si accenna ad elementi di bene
e di vero presenti tra i non cristiani, che possono essere considerati
una preparazione all’accoglienza del Vangelo.
Dipende: l’originale della Costituzione dice ‘presso di loro’ (apud
illos), e in questo caso il testo certo si riferisce alle religioni, dottrine
e credenze da essi seguite, per cui non vi può essere spazio per
la Grazia, come abbiamo visto. Infatti ‘la provvidenza divina non rifiuta
gli aiuti necessari alla salvezza’ non proponendo ‘presso di loro’ qualche
spurio elemento di bene e di vero di difficile individuazione, ma promuovendo
dentro di loro con la Grazia un moto nei cuori che li alzi sopra le miserie,
li contrari ai riti e alle usanze, li converta alla voce che si alza da
ogni retta coscienza. La proposizione è falsa come le altre.
Certamente, le varie tradizioni religiose contengono e offrono elementi
di religiosità, che procedono da Dio.
Uno dei punti più ambigui di questa frase ambigua in ogni suo
lemma è quello che tocca le caratteristiche di questi elementi di
religiosità. Se essi sono limitrofi alle religioni, o invece ad
esse centrali, è da chiarire previamente. Perché, al di là
di tutto, e per tutto ciò che è stato fin qui detto, se trattasi
di elementi centrali, è certo che questi elementi non possono procedere
da Dio, non potendo Dio proporre più religioni. Se limitrofi, periferici,
casuali, può anche darsi che procedano da Dio, ma indirettamente,
cioè non per suo volere positivo ma solo per sua permissione e tolleranza,
essendo il processo storico di devoluzione avvenuto come spiegato supra,
a proposito del modo con cui i popoli della Genesi si allontanarono dalla
vera dottrina. La proposizione è quindi fuorviante.
Sono i semi del Verbo divino "semina Verbi" che la Chiesa riconosce
con gioia e rispetto (cfr Conc. Vaticano II, Decr. Ad gentes, n. 11; Dich.
Nostra aetate, n. 2) e che fanno parte di ‘quanto opera lo Spirito nel
cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e nelle religioni’
(Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Redemptoris missio, n. 18).
Il Papa, come i Padri del Concilio, parlando di semina Verbi potrebbe
riferirsi alle filosofie dei greci. Ma è tutto sempre lasciato così
nel vago che ogni altra ipotesi è possibile.
Lasciamo da parte l’operato dello Spirito divino nel cuore dei singoli
uomini, che sappiamo essere da sempre trattato dalla Chiesa, come detto
supra, attraverso una relazione che effettivamente, se pur eccezionalmente,
può formalizzarsi anche fuori della Chiesa visibile. In quanto invece
all’operato dello Spirito divino nella storia dei popoli, nelle culture
(e non nelle religioni), esso si chiamerebbe sempre Grazia, e darebbe sempre
come suoi frutti immediati le virtù infuse (intendesi: da Dio con
la Grazia). Secondo san Tommaso le virtù morali ‘infuse’ sono essenzialmente
distinte, a motivo del loro oggetto formale, dalle più alte virtù
morali ‘acquisite’ (dall’esperienza e dalla ragione), descritte dai filosofi.
Queste ultime, per quanto perfette si vogliano supporre, potrebbero crescere
e svilupparsi indefinitivamente, senza raggiungere mai l’oggetto formale
delle prime, la gloria di Dio.
C’è una distanza incalcolabile tra la temperanza aristotelica,
regolata unicamente dalla retta ragione, e la temperanza cristiana, che
obbedisce ai dettami della fede e della prudenza soprannaturale. Si legga
il magnifico articolo dedicato a tale questione nella Summa Theologiae
(I-II, q. 63, a. 4) e si vedrà l’altissima idea che il Dottore angelico
si era formata delle virtù infuse e della loro trascendenza rispetto
alle corrispondenti virtù acquisite. Le virtù infuse dalla
Grazia si ispirano e si regolano sulle verità di fede “del tutto
sconosciute alla semplice ragione naturale” per quanto concerne le conseguenze
del peccato originale e dei peccati personali, la infinita dignità
del nostro fine soprannaturale, la necessità di amare Dio, autore
della Grazia, sopra ogni altra cosa, e le esigenze dell’imitazione di Gesù
Cristo che ci porta all’abnegazione e alla rinuncia totale di noi stessi.
Niente di tutto questo giunge a comprendere la semplice ragione naturale,
sia essa di Socrate, di Aristotele, di Platone o della Filosofia del Giardino
di Epicuro, che a parere di Amerio fu quella che più si avvicinò
all’ideale cristiano. A ragione scrive san Tommaso che “È manifesta
la differenza specifica tra le virtù infuse e le acquisite a motivo
del loro oggetto formale, Dio per le prime, l’uomo per le seconde.”
Per cui anche queste proposizioni risultano erronee.
Di fatto alcune preghiere e alcuni riti delle altre religioni possono
assumere un ruolo di preparazione evangelica, in quanto sono occasioni
o pedagogie in cui i cuori degli uomini sono stimolati ad aprirsi all’azione
di Dio (ibidem, n. 29).
Essendo unico il vero Dio, unico sarà anche il culto a lui dovuto.
Dio stesso l’ha rivelato, in modo che in ordine al vero l’uomo non potesse
avere dubbi, né opinioni, e in ordine al bene l’uomo trovasse il
migliore dei mezzi. Dio stesso si è fatto culto a se stesso, assumendo
in sé il sacerdozio, la vittima, il tempio, l’altare. Per preparare
l’uomo a questi altissimi misteri, Dio stesso ha approntato, come un pedagogo,
un tempo, un luogo e un rito di iniziazione attraverso i Patriarchi e Mosè.
Non vi è altra pedagogia se non quella dell’Antico Testamento, altra
occasione se non quella della storia (religioso tragitto) di Israele. Quindi
le altre religioni, in quanto tali, non hanno in sé alcun elemento
che possa significare un’occasione o una pedagogia come preparazione evangelica,
in quanto, come già detto, false in ordine alla realtà, e
mancanti in ordine al bene.
I misteri eucaristici, inoltre, sono talmente santi che qualsiasi loro
accostamento, anche considerato solo propedeutico, a preghiere e riti che
non siano stati preparati direttamente da Dio, come è stata preparata
da Dio la Prima Legge, va considerato un sacrilegio sotto ogni aspetto,
e va quindi esecrato e rifiutato sotto ogni veste e proposta. Certo, il
punto di vista del Documento è proprio questo, di vedere in tutte
le religioni alcuni elementi che permetterebbero anche ad esse, in quanto
tali, di configurarsi salvifiche, se pure in modi e gradi limitati, secondo
la teoria dei cerchi di Giovanni Battista Montini: “nel primo c’è
la Chiesa cattolica, nel secondo le confessioni cristiane, nel terzo le
religioni monoteiste, nel quarto le altre “ (così Padre Maurice
Borrmans, del Pontificio Istituto di studi arabi e di islamistica). In
questa visione la signoria di Cristo è assicurata dalla forzosa
convergenza a lui degli elementi di bene imprigionati in diverse misure
anche fuori della Chiesa.
Questo modo di intendere la signoria del Cristo come una supersignoria
cui convengono per venerarlo anche i suoi nemici in quanto nemici, in ultima
analisi anche i demoni, si dimostra erroneo anche dal punto di vista della
latria, o culto che si deve a Dio. I suoi nemici rimangono a lui obbligati
e sottomessi come a un giogo, secondo quanto dice il salmo: “Siedi alla
mia destra, finché non abbia posto i tuoi nemici a sgabello dei
tuoi piedi” (Psal., 109, 1). Ma non gli rendono nessun culto di amore e
di adorazione.
Infatti, qualsiasi atto di religione compiuto dal cristiano è
visto benevolmente da Dio Padre solo in quanto esso partecipa, almeno in
voto, dell’atto di culto compiuto una volta per sempre dal Figlio. Questo
atto di culto è la religione cristiana, ed è un atto che
realizza fisicamente, nel Sangue, e non solo moralmente, un’unione del
cristiano con il Cristo, per cui la partecipazione dell’uomo al culto reso
dal Cristo al Padre è una partecipazione che non si può dare
attraverso le altre religioni, di per sé, non potendo nessuna di
esse identificarsi col Cristo.
Ecco perché in un’altra disamina del Documento Dominus Iesus
si è tanto insistito sul carattere fuorviante e sviante della formula
del subsistit in (cfr sì sì no no n. 21, anno 2000). Solo
se si riconosce la perfetta identificazione della Chiesa cattolica col
corpo mistico del Cristo, che ne è il Capo ma anche in qualche modo
ne è la linfa, il respiro, le membra, cioè l’operante, l’operazione
e l’operato, si riconosce anche che tutte queste cose non fanno parte della
terra, ma sono già trasportate nel mondo soprannaturale, nella qualità
divina, quindi sono perfette, innocenti, pure e stabili come richiesto
dalla ineffabile realtà e maestà del Padre.
Cadendo, con l’adozione della formula del subsistit in, l’identificazione
perfetta tra i due enti Chiesa cattolica e Chiesa di Cristo, cade la necessità
della Chiesa di essere perfettamente definita. E anche di essere perfetta.
Di conseguenza essa può arricchirsi, come sostiene il Documento,
anche attraverso l’apporto di altre credenze religiose. Se invece l’identificazione
sussiste, stabile e pura come la prevede san Tommaso, si ribalta immediatamente
e completamente la signoria del Cristo sull’ordine del mondo, nella configurazione
ortodossa per cui, prima di ogni altra cosa, la latria, l’adorazione, è
fatta solo e unicamente dal Cristo, dai cristiani per partecipazione a
lui. Dalle religioni e sette di ogni ordine e grado non salendo a Dio assolutamente
niente, se non le grida dei demoni, salvo le preghiere di chi in voto è
unito al Cristo secondo un decreto imperscrutabile di Dio, come già
detto. Per cui anche la proposizione che riguarda i riti e le preghiere
delle altre religioni, di per sé, risulta falsa e, per i misteri
toccati, si potrebbe dire anche temeraria.
“Se è vero che i seguaci delle altre religioni possono ricevere
la grazia divina, è pure certo che oggettivamente si trovano in
una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro
che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici (Cfr Pio XII,
Lett. Enc. Mystici corporis: Denz., n. 3821)”.
Questa è l’unica proposizione del Documento riguardante il rapporto
tra Cristo e la Chiesa cattolica da una parte e le altre religioni dall’altra,
in cui è espressa come dev’essere espressa la verità. Ma
questa è l’unica proposizione non gravata dall’abito ecumenico,
non viziata dalla forma che fa della Chiesa una serva delle altre religioni,
del Cristo un mendicante di verità.
(marzo 2003)
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