CRONACA DI
UNA MESSA DOMENICALE


secondo il Novus Ordo
  
di L. P.




Cronaca di una domenica estiva in questa cittadina di mare [Santa Marinella - Roma] ove le Sante Messe della mia parrocchia sono scandite nel seguente orario: 8,00 – 10,00 – 11,30 – 19,00. 
Quella mattutina è frequentata, per lo più, da fedeli adulti e la quota maggiore è, come per le altre Messe, rappresentata dai villeggianti; quella delle ore 10,00, molto più affollata, vede giovanissimi, giovani e nuclei famigliari mentre a quella delle 11,30 assiste – pardon! – “partecipa”, numerosa, una parte di fedeli che si possono identificare di media età.
La Messa vespertina, in luglio ed agosto, non si celebra nella chiesa parrocchiale bensì nella spianata del porticicciolo turistico dove, secondo le intenzioni buone dei pastori, si dovrebbe avere una Chiesa in uscita, mentre ne vien fuori un rito che, tra un fastidioso spetazzar di motorini, tra sirene di natanti, rombo di auto e di motociclette, andirivieni di uomini e donne  - bimbi, bimbe, giovani, vecchi e vecchie - in costumini balneari, telefonini, gelati, richiami e urli, somiglia più a una così detta “movida” che ad una sacra cerimonia. In pratica: una Chiesa in uscita sì… ma libera.
Uno spettacolo che ricorda l’avvilente e scenografica GMG di Rio (22-29 luglio 2013) ove, sulla spiaggia, Papa, cardinali, vescovi, preti, diaconi, fedeli si produssero in ritmici saggi di sambe e di ole.

La Messa delle 10,00 e quella delle 11,30 si somigliano: la prima per l’irriverente, incessante strepito del chiacchierìo che sovrasta addirittura il suono dell’organo perennemente a mantici pieni, per il belante coro che abborraccia arie e motivi di banale linea melodica e per testi ancor più banali, e per il nevrastenico incrociarsi in cerca di mani da stringere per il “segno” della pace, mentre la seconda, di eguale caos, scorre sulle percussioni del pianoforte (!) che un sonatore pesta quasi stesse bastonando chissà chi, con un coretto che se la fa con motivetti festivalieri sincopati e che, unitamente a un parlottìo fitto, a un non infrequente, rumoroso scroscio dello sciacquone del bagno attiguo alla navata, e a scrocchî di buste plastificate, trasformano il Sacrificio di Cristo in un incontro di tipo mercatale senza che i sacerdoti sentano minimamente la necessità, non dico “pastorale” ma almeno in nome del galateo, di intervenire per mettere un po’ di ordine.
Non è esagerato quanto riporto perché i resti di patatine, i tanti fazzolettini cartacei, le bottigliette di acqua abbandonate sui banchi o i residui di caramelle stanno lì a dimostrare l’indegno comportamento di chi trasforma la chiesa in un tinello.

La Messa delle ore 8,00 – quella a cui io assisto – è meno babelica e rumorosa delle altre tre ma non diversa per l’irriverenza che i così detti fedeli dimostrano nei confronti della casa del Signore.
Sono le 7,30 quando io e mia sorella, abbigliati con decoro, varchiamo il portone della chiesa. Non v’è ancora alcuno, tutto tace nella penombra, e noi due, come primo atto, ci inginocchiamo per rendere il dovuto tributo di adorazione a Lui che ha avuto un nome “che è sopra ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, in terra e negli inferi” (Fil. 2, 9/10). Mentre siamo ancora immersi nella preghiera, ecco, si avverte un ciangottìo brulicante: qualcuno sta arrivando. Sono donne e uomini che, sul limitare del portone, stanno sviluppando i discorsi avviati poco prima per istrada e, non dandosi pensiero dell’area sacra – il biblico “locus terribilis” (Gen. XXVIII, 17) o la “terra sancta” (Es. III, 6) - area in cui sono entrati e, soprattutto trascurando il Padrone di casa, si mettono di subito comodamente seduti, gambe accavallate, le braccia allargate e distese sulla spalliera del banco, smanettando sul cellulare o mantenendo vivi i dialoghi che, nell’ampiezza della volta, vera cassa di risonanza, si diffondono come un continuo bronzo o sciame ronzante. Manca un quarto d’ora. La Chiesa comincia ad affollarsi ma solo nella parte dell’ingresso, ed ecco apparire donne – giovani, adulte, anziane - petti, spalle e gambe largamente scoperti, in abitini succinti, stretti, slargati, trasparenti, pantaloncini alla bermuda, e uomini – giovani, adulti, anziani - in canotta, calzoncini alla pescatora, ciabatte infradito, camiciole svolazzanti, gambe/braccia sporche di tatuaggi di vario disegno tra cui non mancano scorpioni, serpenti e forme geometriche alla faccia del divieto divino: “Non vi fate incisioni sulla carne e non vi fate tatuaggi sulla pelle: Io sono il Signore” (Lev. 19, 28). Si notano, tuttavía, degni signori e degne signore in decoroso abbigliamento che, in percentuale, dicono solo un 5 – 6%, non di più.
Intanto, solo qualche minuto prima dell’inizio, arriva il celebrante. Scarpe ginniche, pantaloni e camicia leggeri e, appena visibile una collottola. Tu pensi che, in questo pur brevissimo lasso di tempo egli si prepari col meditar il mistero della Transustanziazione. Ma no, perché dalla sagrestìa aperta, dove staziona sempre qualche sfaccendato, giungono voci tonanti e generose risate da far saltare il cuore. Poi con la campana, accordata all’orologio, che avvisa lo scocco  delle ore 8,00,  scende un silenzio rotto dai condizionatori che spirano flussi di aria gelida sull’altare e sui fedeli. (Sono i vantaggi della criotecnologìa). Si comincia.

Mi sono, da anni, preso l’incarico, e molto volentieri, di svolgere le letture e di intonare i canti che accompagnano il rito nelle varie fasi: Introito, Alleluja, Offertorio, Santo, Agnello di Dio, Comunione, Benedizione per cui, al tinnir della campanella, principio l’inno alla S.S. Trinità a cui i fedeli rispondono quasi coralmente. Ma alla melodia, che aleggia nella chiesa, si mescolano i rumori delle pale dei ventilatori, che il solerte parroco ha posizionato nei punti strategici della navata, e degli innumeri ventagli – vedeste le suore che energìa! -  e siffatto accompagnamento, che mima un monotono “falso bordone”, si protrae per tutta la celebrazione. Del che, lo scorso anno, a fine Messa ebbi a dire la mia quando una signora si lamentò del caldo opprimente che non le dava tregua nonostante il ventaglio. Osservai che Gesù, legato alla colonna, non aveva ventagli o flabelli che Gli lenissero l’aspro dolore delle frustate onde mi pareva che, per una mezz’ora o poco più, non ci fosse motivo di lamentarsi ma, anzi, di offrire questo picciolo sacrificio proprio a Chi aveva sopportato per noi ben altre sofferenze. Non rispose alla mia osservazione, anzi mi parve palesemente infastidita tanto che, nelle successive domeniche, continuò ad agitare il suo ventaglio.

In questa Messa, come nelle altre, ognuno si fa e segue una sua personale liturgìa per cui c’è chi si alza, chi resta seduto e chi rimane in piedi senza attenersi alle indicazioni che, non sempre chiare, sono comunque stampate sul foglietto de “La Domenica”. E così accade che la maggior parte dei fedeli rimane in piedi o seduta anche durante il momento della Consacrazione dimostrando così come, per molti cristiani, assistere alla Messa e accedere alla Comunione è un’abitudine da cui non si deve certo derogare, un’abitudine forse ereditata da una buona famiglia, ma non sostenuta poi dalla fede ché, diversamente, non solo ci si inginocchierebbe ma ci si prostrerebbe così come Gesù si prostrò faccia a terra nell’orto del Getsemani (Mt. 26, 39).  La Beata Vergine Maria, rivelò alla stigmatizzata Caterina Rivas – 1994 – che nel momento in cui Gesù scende nel Pane e nel Vino, Ella e milioni di Angeli adorano genuflessi intorno all’altare. Ma non il cristiano adulto. E, intanto, squilla qualche cellulare e qualcuno parla come fosse ai giardinetti.

Spesso, poi, al momento dell’Offertorio, sale all’altare uno dei tanti “ministri straordinarî” nel ruolo di assistente e si avvicina al celebrante per porgergli le ampolle. Anche per costui l’altare pare non essere il luogo sacro di Giacobbe, tanto che non sente il minimo imbarazzo – stavo per dire vergogna – per l’abbigliamento balneare con cui si presenta: calzoncini alla pinocchietto, camiciola trasandata, ciabatte. In pratica, la sua funzione s’è dimostrata non dissimile da un oste che versa il vino al cliente. Lo stesso, poi, si ripresenterà al momento dell’Eucaristìa, questa volta in cotta bianca (Ma mia sorella ed io lo evitiamo e riceviamo l’Eucaristìa dal sacerdote).

La moderna pedagogia permissivista, sostenuta da una psicologìa dell’età evolutiva del tipo “come ti erudisco il pupo” reperibile sulle rivistine salottiere, permette che, durante tutto il rito, i pochi fanciulli che son presenti con i proprî genitori, scorrazzino per la navata indisturbati. Il fedele, che vorrebbe intervenire, sa che rischierebbe, oggi in quest’epoca di liberalismo e di spontaneismo educativo, di cadere nel tritacarne di qualche “telefono azzurro” per cui è bene starsene quieto.

Al segno della pace, la “stretta di mano” – cerimoniale massonico che abbiamo molto tempo fa’ messo in piena luce critica – io e mia sorella, cortesemente, rifiutiamo la reciprocità rispondendo col segno della Croce, “Il Segno” e non “un segno”. Qualcuno rimane visibilmente sorpreso e alterato salvo chetarsi quando, a fine celebrazione e di fuori sul sagrato, gli spiego la motivazione. Tuttavia, in questo frangente, puoi vedere donne, uomini che attraversano a falcate atletiche la navata per dispensare quante più strette possibili condite da ampi sorrisi quasi si debba conseguire un primato. Ė un intreccio giulivo che di tutto sa, diciamo un ricevimento, meno che di un rituale sacro.

Alla Comunione, poi, ecco sfilare un campionario estivo la cui cifra distintiva e principale è la nudità, peggio:  lo sbraco, e sì, perché non c’è persona, donna/uomo/giovane/adulto che non si presenti a Lui in abbigliamento da spiaggia, con il celebrante che non batte ciglio davanti alle forme debordanti di una matrona che se ne sta inguainata in calzoncini elasticizzati e in piena, sudaticcia e prorompente valanga di cascanti rotondità anteriori e posteriori. Mi viene da pensare alle file che sostano davanti alle gelaterìe in questo periodo di umidissima afa canicolare.

E non vi dico dell’atteggiamento, o postura che dir si voglia, con cui  accedono al Sacramento: braccia, conserte, braccia stanche e penzoloni lungo i fianchi, braccia alla schiena con mani annodate o, come qualche tipo scanzonato, in tasca. Il sottoscritto e mia sorella, gli unici tre o quattro fedeli, a mani giunte, genuflessione e, uno studente in teologìa, statunitense, che si pone in ginocchio sul pavimento. I soli il cui esempio non viene per niente imitato. Ma si sa: siamo i tradizionalisti – meglio: i “tradizionisti” – sorpassati dai tempi e dalla moderna lettura liturgica perché, mi insegna un amico “carismatico”, lo star in piedi davanti all’Eucaristìa indica e sancisce la posizione del fedele che è vigile, pronto a rispondere alla chiamata del Signore.
Facilmente gli rispondo facendogli osservare che tutta la vita è un attendere il Signore il quale, proprio nel momento dell’Eucaristìa, viene e scende tra noi e, in quel momento si esige un atto di adorazione a Lui che è presente sotto le specie del pane e del vino. Perché c’è un tempo per tutto: un tempo per camminare, un tempo per restare, un tempo per agire e un tempo per adorare. Parola del Signore.

Sicché, altro che Sacrificio di Gesù! Ma San Pio da Pietrelcina avrebbe rimandato indietro quella signora che, qualche domenica fa, si presentò all’Eucaristìa in calzoncini mini-mini e una fascia pettorale, un top come si dice, alla quale io e mia sorella non esitammo a ricordare, con severità, il decoro nella casa del Signore. La cosa che lasciò indignati  fu il commento che un sacerdote ci rivolse col dire “fatevi, una volta, i fatti vostri!” dopo di che i lettori ben possono immaginare quale sia stata la mia reazione.
Fattogli presente il Salmo 68, 10 “Lo zelo della tua casa mi divora” che a lui soprattutto, in quanto ministro del tempio del Signore, è diretto, abborracciò qualche parola, come per dire “roba antica”, e se ne andò.

Scorro lo sguardo all’intorno sperando di vedere una comunità in adorazione per il postcommunio. Macché. Sono tutti seduti, a chiacchierare o a rovistare nelle borse. Il ringraziamento? Ciao còre!

Data la benedizione trinitaria – a cui, per vezzo salottiero il celebrante aggiunge, quale rinforzino non si sa mai, un augurale “buona domenica” – la maggior parte sciama verso l’uscita con i pochissimi rimasti a  cantare l’inno alla Vergine che ho intonato mentre esplode nella chiesa e sul sagrato il tumulto delle energie represse col  formarsi di grappoli e capannelli di “fedeli (?)” che, ancora “freschi” di Comunione, parlano, ridono, si chiamano.

Il celebrante? io supponevo stesse ancora in sagrestìa a rendere grazie al Signore per essere sceso tra noi. No, il giovane attraversa la navata con una certa fretta: l’aspetta il bar dove può sorbirsi un buon caffè.

Conclusione. Le “periferie”, tema tanto caro a Papa Bergoglio, non stanno all’estremità del mondo ma sono proprio tra noi, negli evoluti centri urbani dove maggiore è il senso della dissacrazione e dell’indifferenza.
Si cominci a far catechismo, eminenza Fisichella, dalle e nelle parrocchie, ché il cancro del relativismo e dell’indifferenza dissacrante ha la sua radice proprio nella cristianità “normale” quella che da cinquant’anni respira l’aria conciliare che non sa né di primavera né di novella Pentecoste.




agosto 2015

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