L’ermeneutica dell’ermeneutica
Riflessioni sulle implicazioni e sulle conseguenze ultime dell’ermeneutica della continuità


Di Don Davide Pagliarani

Articolo del Superiore del Distretto italiano della Fraternità San Pio X

L'articolo è stato pubblicato nel n° 3/2010 della rivista La Tradizione Cattolica
Organo ufficiale del Distretto italiano della Fraternità San Pio X



Accanto alle valutazioni mediatiche e alle presentazioni
superficiali e scontate, un’attenta analisi dell’ermeneutica
della continuità evidenzia perfettamente il fallimento del Concilio.


Il pontificato di Benedetto XVI è stato contraddistinto da alcuni momenti fondamentali che hanno provocato reazioni non sempre pienamente prevedibili e certamente non facilmente controllabili: basti pensare alle polemiche che hanno fatto seguito al motu proprio Summorum Pontificum. Tale atto, occasione di una
reazione generalizzata apertamente ostile, è stato pure l’occasione per alcuni di scoprire quale sia il vero patrimonio liturgico della Chiesa e, attraverso di esso, lo stimolo a scoprire una ecclesiologia ed un impianto teologico non solo diverso ma incompatibile con quello forgiato in questi ultimi cinquant’anni e imposto prepotentemente al “Popolo di Dio”.

Tra queste scelte caratterizzanti il pontificato di Benedetto XVI ci sembra di poter annoverare innanzitutto il principio dell’ermeneutica della continuità (1), che trova la sua formulazione programmatica nel celebre discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005. A tale discorso non hanno fatto seguito reazioni eclatanti e clamorose come in altri casi, nondimeno da esso è nato un movimento di pensiero e di posizioni contrapposte tuttora in corso che merita la nostra attenzione.

Nelle riflessioni che seguono cercheremo di analizzare in estrema sintesi che cosa affermi il principio dell’ermeneutica della continuità e soprattutto cercheremo di collocarlo nel frangente storico che la Chiesa sta vivendo onde cercare di evincerne tutte le implicazioni.

Un principio vero accanto ad un presupposto indimostrato

Benedetto XVI, a quarant’anni dalla chiusura del Concilio, riconosce che situazioni di profondo malessere hanno fatto seguito a quell’evento storico. Egli ravvisa subito tale difficoltà in un problema di ricezione del Concilio, legato a sua volta ad un problema di interpretazione (ermeneutica) dei testi del Concilio stesso: troppo spesso il Concilio sarebbe stato interpretato e quindi applicato in rottura con la Tradizione costante della Chiesa, contro il significato oggettivo dei suoi testi e contro l’intenzione degli stessi Padri conciliari. L’ermeneutica della continuità si presenta quindi come la via da percorrere per interpretare il Concilio in modo autentico, secondo il suo vero intendimento e soprattutto in perfetta armonia con la Tradizione.

L’intervento di Benedetto XVI ha innanzitutto il pregio di evidenziare un principio sacrosanto, ovvero che nell’insegnamento magisteriale della Chiesa non ci può essere rottura ma continuità: ciò che la Chiesa ha sempre insegnato non può essere superato né messo da parte, ma costituisce il suo patrimonio irrinunciabile il quale, nei suoi contenuti fondamentali, non può cambiare.

Notiamo subito che la verità ricordata da Benedetto XVI è, in un certo senso, estremamente semplice e appartiene ai rudimenti della fede ed ai princìpi basilari che definiscono la natura stessa della Chiesa. Di conseguenza il fatto che egli si sia sentito in dovere di programmare il suo pontificato alla luce di essa rappresenta una prima significativa ammissione della crisi dottrinale in cui versa la Chiesa: nel dover ricordare solennemente una verità semplicissima ed elementare, evidentemente accantonata nell’ortoprassi, nell’insegnamento e nel sentire comuni, il Papa fornisce inevitabilmente un indice oggettivo della gravità della situazione attuale.

Ci troviamo infatti davanti ad un tono insolito, in cui i discorsi abituali sul Concilio, celebrativi e altisonanti, sono sostituiti dal ricordo di principi elementari: questo rappresenta una prima grave ammissione che qualcosa non ha funzionato.

Bisogna riconoscere inoltre che l’aver ricordato il principio che negli insegnamenti della Chiesa non ci può essere rottura, ha provocato in alcuni soggetti, soprattutto sacerdoti, il desiderio di valorizzare ciò che appartiene al passato e alla Tradizione della Chiesa, il che si è tradotto in tanti casi nella scoperta progressiva di un patrimonio assolutamente nuovo di cui essi sentono di essere stati defraudati: questo è indubbiamente l’effetto più positivo dell’ermeneutica della continuità.

Tuttavia l’ermeneutica della continuità si profila, non tanto nel suo valore intrinseco e astratto quanto piuttosto nell’applicazione concreta che ne viene fatta, come un’arma a doppio taglio: essa di fatto dà per scontato che i testi del Concilio siano in perfetta continuità con la Tradizione costante della Chiesa e quantunque evidenzi un problema grave e oggettivo di rottura lo restringe sistematicamente ad una
questione di interpretazione del Concilio stesso, ad una deviazione prodottasi nel Postconcilio. L’assoluta fedeltà del Concilio al Magistero precedente sembra rimanere un postulato indiscutibile. In questo modo la “colpa” ricadrebbe su di una corrente di pensiero eterodossa incompatibile con la dottrina cattolica ed estranea al Concilio stesso, ma che paradossalmente è riuscita a pilotarne in buona parte l’applicazione e gli esiti concreti (2).

Entrando ora nel vivo delle nostre considerazioni intendiamo situare storicamente l’ermeneutica della continuità cercando di coglierne tutti gli addentellati: senza entrare in merito ai contenuti specifici del Concilio, già tante volte discussi, ci renderemo conto che essa postula una serie di elementi che anziché salvare il Concilio ne dimostrano, indirettamente, il fallimento.

PRIMA PARTE:
L’eclissi del Magistero


Finalità del Magistero

Vale la pena innanzitutto di focalizzare l’attenzione sulla finalità specifica del Magistero e più in particolare di un Concilio che si autocertifica come “pastorale”. La questione è capitale in quanto la finalità rappresenta la ragion d’essere di una realtà e ciò che più di ogni altro elemento la specifica e la caratterizza.
Non dobbiamo dimenticare che il Magistero è per definizione la regola prossima della Fede, cioè quella fonte che immediatamente mi deve dire e fare capire cosa devo credere e fare per essere un buon cristiano e salvarmi l’anima. In questo senso il Magistero si distingue dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione le quali, pur essendo fonti della Rivelazione, sono regole remote della Fede, cioè necessitano delle delucidazioni intermedie del Magistero per una retta comprensione dei loro contenuti. Ora se il Magistero solenne di un Concilio non riesce a farsi capire a tal punto che dopo ben quarant’anni - lo spazio di una generazione biblica - un papa ne invoca la retta interpretazione cercando di indicare criteri ermeneutici di fondo, questo può significare una cosa sola: tale Concilio ha fallito nella sua finalità specifica.

Se poi aggiungiamo a questa considerazione generica il fatto che il Vaticano II si sia presentato d’emblée come “pastorale”, esso ha inteso evidenziare ulteriormente e al massimo la sua finalità di farsi capire da tutti attraverso formulazioni consone alla sensibilità dell’uomo moderno; questo significa che il Concilio ha voluto essere lui stesso esplicitamente ed eminentemente “ermeneutico” rispetto ai punti che intendeva toccare, cioè capace di fornire risposte chiare, sicure e accessibili. Ma se dopo quarant’anni un papa ne invoca la retta interpretazione, vuol dire che il Concilio ha fallito pure nella “pastoralità” che avrebbe dovuto caratterizzarlo.

Il Magistero è l’unico interprete del Magistero

Ammesso e non concesso che il problema del Concilio si riduca ad un problema di retta interpretazione, viene spontanea una domanda: a chi il Papa chiede aiuto per garantire l’ermeneutica della continuità? Ma soprattutto: perché chiede aiuto ad altri?

Stando al tenore del discorso, il Papa sembra denunciare certe scuole teologiche unitamente ad un atteggiamento diffuso nella Chiesa. Nello stesso tempo però egli sembra chiedere aiuto ai teologi stessi più che agli episcopati o ad altri organismi da lui direttamente dipendenti.

Ora se il Magistero deve essere interpretato, l’unico organo competente è il Magistero stesso. Nessuno può spiegare ciò che l’autorità intende con maggior chiarezza dell’autorità stessa e soprattutto nessuno ha l’autorità per farlo all’infuori di essa.

Ci chiediamo: perché nel Postconcilio il Magistero non è intervenuto nel senso indicato dal Papa? (3) Se lo ha fatto, perché non è riuscito nell’intento di far capire esattamente che cosa il Concilio volesse dire? Prescindendo da qualunque altra considerazione, possono essere attendibili un Concilio la cui interpretazione non è chiara e un Magistero che non è riuscito a fornire questa sospirata chiarezza nella stagione inaugurata da tale Concilio?

Il dilemma si presenta piuttosto semplice: se non avesse fallito il Concilio sembra aver fallito l’unico organo veramente competente a fare chiarezza su di esso: il Magistero del Postconcilio.

Oppure, molto più semplicemente, hanno fallito entrambi.

Indirettamente l’ermeneutica della continuità, nell’intento di salvare a priori il Magistero del Concilio, condanna, con una intensità coestensiva a tale intento, il Magistero che avrebbe dovuto garantirne la retta interpretazione e, in un certo senso, ne dichiara l’incapacità ad intervenire efficacemente.
Qui si annida una contraddizione abbastanza evidente, frutto della “intangibilità” del Concilio. Di conseguenza, una risposta soddisfacente potrà essere fornita solo quando si avrà il coraggio di prendere in considerazione serenamente il Concilio stesso, valutando la sua finalità, la sua natura atipica, le sue anomalie, ridefinendo la sua portata dogmatica e il tenore dei suoi contenuti: un’autentica interpretazione dovrebbe incominciare innanzitutto prendendo in considerazione ciò che deve interpretare. Quel giorno non sembra essere vicino e l’impasse del momento presente è probabilmente destinata a trascinarsi per un po’ di tempo.

Fino ad ora il Concilio è sistematicamente spiegato e applicato attraverso l’unica, autosufficiente, autoreferenziale, indiscutibile autorità del Concilio stesso. È giocoforza che con tali premesse il problema della continuità con la Tradizione costante non possa essere seriamente affrontato e in ultima analisi non possa veramente interessare.

A questo proposito merita di essere menzionata come emblematica ed estremamente significativa la reazione degli episcopati agli “auspici” di Benedetto XVI. La generale levata di scudi contro il cauto invito a recuperare qualcosa della Tradizione - naturalmente senza mettere in discussione il Concilio – unitamente all’indifferenza di parecchi vescovi, mostra purtroppo che è lo stesso collegio episcopale ad avere assimilato un’avversione per il passato della Chiesa umanamente inguaribile e ad incarnare in se stesso e nel proprio atteggiamento quella “rottura” di cui Benedetto XVI vorrebbe limitare i danni. Purtroppo è questo il frutto più rappresentativo del Concilio e del Postconcilio, maturato lentamente negli ultimi cinquant’anni.

Quanto ai teologi, altro frutto maturo, ci sembra di poter constatare che l’ambiguità di fondo del Concilio unitamente all’assenza complementare di definizioni dogmatiche precise, abbia prodotto e continui a produrre un numero considerevole di scuole teologiche ognuna caratterizzata dalla propria originalità specifica. Di conseguenza i teologi più conosciuti del Postconcilio appaiono come un variegato gruppo di “santoni”, ognuno alla ricerca della propria originalità, piuttosto che come rappresentanti di una teologia sistematica, coerente ed unitaria. Questo dato è importante: non avendo il Concilio una sua teologia ufficiale ma essendo supportato da scuole disomogenee, qualunque tipo di ermeneutica teologica che lo volesse relazionare alla Tradizione o ad altro dovrebbe innanzitutto giustificare la propria “scuola” per poi confrontarsi con una selva di tesi diverse e svariate che condannerebbero in partenza ogni sforzo all’inconcludenza.

Stando così le cose, non sembra che l’ermeneutica della continuità possa contare molto sull’aiuto dei vescovi né dei teologi.

In fondo il Papa sembra demandare ad altri, in particolare ai teologi, una risposta e una chiarezza che solo lui può fornire.

Due icone significative del Postconcilio: la riforma liturgica e la riunione interreligiosa di Assisi

Illustriamo ora quanto abbiamo evidenziato circa il rapporto tra Concilio e Postconcilio con un esempio: la riforma liturgica. Si tratta di un campo su cui si è creato ultimamente un certo dibattito e, in seguito al motu proprio Summorum Pontificum, si è pure aperta una certa analisi critica, quantunque moderatissima, della riforma del 1969.

Ora è un dato acquisito universalmente che il messale di Paolo VI sia il primo e il più appariscente frutto del Concilio. Questo “dono” è stato imposto al “Popolo di Dio” applicando i dettami del Concilio in materia di liturgia ed è stato confezionato appena quattro anni dopo la chiusura del Concilio stesso.

Certamente è legittimo chiedersi se la riforma liturgica non sia andata oltre i dettami del Concilio, come un’attenta ermeneutica della continuità suggerirebbe; ma in caso di risposta affermativa bisognerebbe avere il coraggio di chiedersi pure di chi è la responsabilità: si tratta di scuole teologiche eterodosse e facinorose o di chi aveva l’autorità per vigilare sull’applicazione del Concilio?

Ci limitiamo a notare che la promulgazione dei testi del Concilio e del nuovo messale purtroppo portano la firma della stessa autorità, operante sia durante il Concilio che nel Postconcilio. Di conseguenza restringere sistematicamente i problemi in questione alle interpretazioni che del Concilio sono state date successivamente, creando una cesura tra Concilio e Postconcilio, non sembra essere uno schema perfettamente aderente al reale (4).

Una osservazione analoga potrebbe essere fatta circa la portata della riunione interreligiosa di Assisi del 1986. Essa rappresenta l’apogeo di un lungo percorso ecumenico ed interreligioso come pure il modello storico per ogni iniziativa di tal genere.

Essa rappresenta pure la giornata più nera della Storia della Chiesa.

Ora qualcuno potrebbe osservare che ad Assisi si è esagerato, oltrepassando i dettami del Concilio stesso: si può discutere, certo, ma resta il fatto che tale iniziativa purtroppo porta anch’essa, al pari della promulgazione del Concilio, la firma di un Papa.

In sintesi l’ermeneutica della continuità conduce necessariamente ad ammettere che qualcosa non ha funzionato nell’esercizio dell’autorità.

Una recente osservazione di mons. Guido Pozzo

Circa le riflessioni che ci occupano, ci sembra interessante riprendere il recente intervento di mons. Pozzo a cui abbiamo già fatto riferimento. Il prelato ravvisa la prima causa dell’ermeneutica della rottura nella rinuncia all’anatema.
«Il primo fattore è la rinuncia all’anatema, cioè alla netta contrapposizione tra ortodossia ed eresia.
In nome della cosiddetta “pastoralità” del Concilio, si fa passare l’idea che la Chiesa rinuncia alla condanna dell’errore, alla definizione dell’ortodossia in contrapposizione all’eresia. Si contrappone la condanna degli errori e l’anatema pronunciato dalla Chiesa in passato su tutto ciò che è incompatibile con la verità cristiana al carattere pastorale dell’insegnamento del Concilio, che ormai non intenderebbe più condannare o censurare, ma soltanto esortare, illustrare o testimoniare.

In realtà non c’è nessuna contraddizione tra la ferma condanna e confutazione degli errori in campo dottrinale e morale e l’atteggiamento di amore verso chi cade nell’errore e di rispetto della sua dignità personale. Anzi, proprio perché il cristiano ha un grande rispetto per la persona umana, si impegna oltre ogni limite per liberarla dall’errore e dalle false interpretazioni della realtà religiosa e morale.

L’adesione alla persona di Gesù Figlio di Dio, alla sua Parola e al suo mistero di salvezza, esige una risposta di fede semplice e chiara, quale è quella che si trova nei simboli della fede e nella regula fidei. La proclamazione della verità della fede implica sempre anche la confutazione dell’errore e la censura delle posizioni ambigue e pericolose che diffondono incertezza e confusione nei fedeli.

Sarebbe quindi sbagliato e infondato ritenere che dopo il Concilio Vaticano II il pronunciamento dogmatico e censorio del Magistero debba essere abbandonato o escluso, così come sarebbe altrettanto sbagliato ritenere che l’indole espositiva e pastorale dei Documenti del Concilio Vaticano II non implichi anche una dottrina che esige il livello di assenso da parte dei fedeli secondo il diverso grado di autorità delle dottrine proposte».

Mons. Pozzo fa propria un’osservazione che da sempre viene esternata dagli stessi “tradizionalisti” sul Concilio (5), ma, da buon interprete dell’ermeneutica della continuità, la restringe rigorosamente al Postconcilio, o, per usare la sua stessa espressione, all’“ideologia paraconciliare”. Naturalmente non mettiamo in discussione le buone intenzioni del Monsignore, ma questo modo di procedere evidenzia subito la contraddizione di fondo: in tutta onestà appare una forzatura accusare il Postconcilio di aver rinunciato agli anatemi quando il testo del Concilio non ne contiene nemmeno uno.

Su questo punto è evidente che l’atteggiamento del Postconcilio è in perfetta continuità con ciò che il Concilio esprime (o piuttosto non esprime): entrambi invece, Concilio e Postconcilio, rappresentano un atteggiamento del tutto nuovo rispetto al passato; insomma, non ci sembra onesto continuare a cercare dei capri espiatori solo in coloro che sono nati dopo il 1965.

Soprattutto non possiamo esimerci dal sottolineare che l’anatema può essere formulato esclusivamente da chi ha l’autorità per farlo: in pratica da chi ha al contempo la responsabilità del Magistero. Se quindi si è rinunciato agli anatemi significa che l’autorità deputata a stabilirli è stata in qualche modo inadempiente.

Tenendo conto di queste sfaccettature, l’ermeneutica della continuità appare - nell’utilizzo specifico che ne viene fatto - pericolosa contro lo stesso Magistero: più si cerca di salvare il Concilio, più si rischia di distruggere definitivamente l’autorità che avrebbe dovuto garantirne la retta interpretazione e, soprattutto, l’unica autorità che attualmente è chiamata a porre rimedio ai mali che affliggono la Chiesa.

Un principio in se stesso buono rischia, proprio a causa della sua bontà intrinseca, di essere tanto più pernicioso nel momento in cui viene applicato senza il necessario discernimento; l’idea aprioristica che il Concilio debba essere necessariamente in continuità con la Tradizione è un pregiudizio che falsa tutto lo status quaestionis ed evidenzia - ci scusiamo con mons. Pozzo - un approccio di tipo ideologico. La paura di discutere tranquillamente sul Concilio, con la dovuta serenità e onestà intellettuale, non è altro che l’ennesimo indice della sua debolezza intrinseca (6).

SECONDA PARTE: Conseguenze ultime dell’ermeneutica della
continuità


L’ermeneutica della continuità trova la non infallibilità del Concilio

Un testo infallibile per definizione non può essere interpretato. Se infatti un testo infallibile necessita di una interpretazione, automaticamente è il contenuto dell’interpretazione che diventa infallibile e non più il testo originario, in quanto è l’interpretazione che esprime la formulazione inequivocabile e definitiva e quindi capace di essere vincolante. Una definizione infatti necessariamente riguarda qualcosa di definitivo: definire ciò che non è definitivo vorrebbe dire definire l’indefinibile, pretendere di staticizzare il fluire del divenire.
Di conseguenza nessuna autorità può obbligare qualcuno a credere qualcosa prima ancora che si sappia che cosa sia o cosa esprima (da questo deriva l’assoluta precisione delle formule dogmatiche classiche): equivarrebbe a chiedere a qualcuno di nuotare senza permettergli di entrare in piscina.

L’applicazione del principio diventa ancora più stringente se la stessa autorità responsabile riconosce una grave necessità di interpretazione.

Ora se dopo quarant’anni i testi del Concilio necessitano di una corretta interpretazione, è la prova provata che il Concilio non può essere vincolante per la coscienza cattolica.

Lo potrebbe essere invece, in linea puramente teorica, la sua retta interpretazione: noi sappiamo però che una retta interpretazione per essere autentica (nel senso moderno del termine) deve continuamente essere riformulata per poter esprimere qualcosa di sempre vivo e quindi sempre vero. In questo meccanismo ermeneutico non può esistere più nulla di dogmaticamente vincolante perché non possono più esistere
formulazioni dogmatiche semanticamente stabili. Questo aspetto del problema merita qualche riflessione supplementare.

1965 - 2005 – 2010

Abbiamo già accennato ad alcune implicazioni della “pastoralità” del Concilio, evidenziando come esso intendesse utilizzare espressioni e linguaggi adatti alla sensibilità dell’uomo contemporaneo. Di conseguenza il linguaggio dei testi conciliari si esprime utilizzando sfumature proprie al clima culturale, alle apprensioni
e agli entusiasmi tipici degli anni sessanta. Ora il contesto sociale, culturale e religioso del terzo millennio ha subìto una trasformazione tale per cui, in una prospettiva lealmente e realmente ermeneutica, i testi pastorali del Concilio, piuttosto che essere reinterpretati, andrebbero sostituiti con altri testi consoni e adatti all’uomo di oggi. Se proprio si volesse continuare ad utilizzarli come base per una interpretazione autentica, bisognerebbe avere il coraggio di riconoscere che ogni reinterpretazione avrebbe un valore contingente, consono al momento storico in cui è formulata, e che al contempo dovrebbe continuare a confrontarsi con la realtà, onde continuare a fornire risposte sempre adeguate e quindi sempre vere.

L’ermeneutica autentica, nel senso moderno del termine, presuppone uno sforzo continuo capace di produrre nuove domande, nuove risposte e nuove espressioni, parallelo e coestensivo all’evoluzione dell’umanità, dei suoi problemi, delle sue aspettative, della sua vita.

Sposando l’uomo nel suo essere concreto, nel suo essere nel mondo – ciò che il Concilio ha inteso fare – necessariamente bisogna sposarne pure il continuo divenire (7).

Lo stesso discorso alla Curia del 2005 - solo per fare un esempio recente - è espressione di un’intenzione precisa del Papa formulata ed espressa in un momento preciso del suo pontificato. Probabilmente oggi egli riformulerebbe diversamente ciò che ha espresso cinque anni fa, tenendo conto di cosa è accaduto nella Chiesa in questi anni, di come è evoluta la sua sensibilità e quella del suo gregge… e anche di come sono stati accolti i suoi “segnali” dagli episcopati.

Tornando ai testi del Concilio, se spingiamo alle estreme conseguenze la dinamica ermeneutica descritta, essi finiscono per significare qualcosa di indefinibile ovvero asserti mutevoli e al limite pure contraddittori. In questo senso tali testi, presi alla lettera, si rivelano incapaci di significare in un senso unico e definitivo.

La conclusione può sembrare esagerata, ma la babele teologica, dottrinale e morale che imperversa nella Chiesa di oggi è realmente paragonabile ad una mescolanza di vero e di falso, di bene e di male, di bello e di brutto, di assoluto e di relativo, di essere e di non essere, risultato di un atteggiamento di fondo comprensibile solo in una prospettiva in cui, rinunciando a definire, si è rinunciato ad insegnare. Se le cose stanno veramente così, la Chiesa non è più – umanamente parlando - né docibile, né governabile.

Nulla può più essere insegnato perché nulla può essere definito nel senso classico del termine. Nessun testo e nessuna formula dogmatica possono più pretendere di avere un senso definitivo, intrinseco, universale e perenne.

In definitiva è questa la trappola in cui la Chiesa è caduta con il Concilio. È questa la trappola in cui si ritrova ingabbiato il Magistero stesso nel momento in cui si ostina a salvare i testi del Concilio. In questo quadro l’ermeneutica della continuità fornisce un canale di comunicazione con la Tradizione, senza tuttavia permettere di uscire dalla gabbia in cui il Concilio ha intrappolato le intelligenze sia del discente che del docente.

Una analogia inapplicabile: il problema storico della ricezione dei concili

Probabilmente nell’intento di ammortizzare un po’ il dramma attuale, vengono spesso evocate le difficoltà che la Chiesa ha incontrato nell’applicare le decisioni dei concili precedenti. Basti pensare al Concilio di Nicea o al Concilio di Trento. Insomma, osservando la Storia, ci vuole pazienza e bisogna continuare a sperare.
 
Pur condividendo pienamente la fiducia nella Provvidenza, ci sembra di ravvisare in questo ragionamento una qualche confusione di fondo che merita attenzione. È ben vero che il Concilio Tridentino – ad esempio - incontrò numerose sacche di resistenza e certamente non fu applicato in un giorno; tuttavia la causa fondamentale di tali difficoltà sembra essere opposta ai problemi dell’ermeneutica del Vaticano II. Il Tridentino infatti incontrò ostacoli proprio a causa della sua chiarezza dogmatica e disciplinare: i suoi testi si spiegavano e si spiegano tuttora da soli, con una tale chiarezza che certamente spaventava quelle parti della Chiesa e del clero reticenti alla tanto necessaria riforma cattolica ed ai sacrifici che essa implicava.

Il Vaticano II invece è stato accolto e applicato in un clima di entusiasmo generale, soprattutto dall’ala più modernista del clero, ora accusata di non aver ben capito cosa il Concilio volesse dire.

Paradossalmente il paragone con i concili precedenti evidenzia una volta di più che i problemi che hanno fatto seguito al Vaticano II sono riconducibili innanzitutto ad una sua deficienza intrinseca, assolutamente assente in qualsivoglia concilio della Storia.

Ermeneutica della continuità e “superdogma” del Concilio

Ci sembra particolarmente illuminante, nella riflessione che ci sta occupando, un’espressione utilizzata dall’allora Card. Ratzinger (8), divenuta poi canonica e spesso riutilizzata, per illustrare la disfunzione prodottasi nell’interpretazione del Concilio la quale postulerebbe l’ermeneutica della continuità come soluzione. Il Concilio sarebbe stato trasformato in un “superdogma”, come se tutto fosse nato con esso, senza quindi più alcun riferimento alla Tradizione perenne della Chiesa. L’espressione è molto chiara e incisiva e in fondo ha il pregio di riassumere in una sola parola il complesso problema dell’assolutizzazione del  Concilio. Tuttavia questa stessa espressione, al pari dell’ermeneutica della continuità, alla quale è complementare, rischia di oscurare la radice del problema. Essa infatti – ancora una volta - vorrebbe ridimensionare il Concilio, troppo “superdogmatizzato” nella sua applicazione e interpretazione, salvandolo però in tutti i suoi contenuti. Insomma il tutto si ridurrebbe ad una questione di misura ma non di sostanza.

Tale interpretazione non ci sembra esaustiva della questione, soprattutto se - per assurdo - applicassimo uno schema analogo agli altri Concili della Chiesa. Se per esempio nella Chiesa si assolutizzassero le decisioni dogmatiche del Concilio di Trento, la Chiesa non diventerebbe conciliar-tridentina a detrimento di altre
verità non trattate direttamente dal Concilio di Trento, ma resterebbe perfettamente Cattolica. Se si  superdogmatizzassero” le decisioni di Nicea, la Chiesa resterebbe quello che è, quantunque estremamente irrobustita e confermata nella Fede di sempre. Questo perché la Fede è una virtù teologale che avendo per oggetto Dio non è mai troppo dogmatica nel senso che non esiste, come errore, un “eccesso di dogma”, né “l’eccesso di un dogma”. Se per esempio si “superdogmatizzasse” il dogma dell’Incarnazione, cioè se si incominciasse a insistere tantissimo su questo dogma, tale “superdogmatizzazione” non condurrebbe mai, in quanto tale, ad un errore. Semplicemente aumenterebbe ulteriormente la conoscenza esplicita di questo dogma e attraverso di essa tutto il plesso dogmatico cattolico ne uscirebbe rinvigorito. La Fede infatti è un unicum semplice e integrale, e non il risultato di equilibri interagenti o di componenti eterogenei.

Di conseguenza il fatto che la “superdogmatizzazione” del Concilio Vaticano II abbia condotto alla situazione gravissima che conosciamo e che finalmente un papa riconosce, è indice che il Concilio stesso contiene intrinsecamente elementi non in sintonia con la Tradizione: la sua assolutizzazione appare come conseguenza inevitabile della sua mancanza di legame con il passato. Essa non ha fatto altro che amplificare gli elementi neoterici già presenti nel Concilio, senza crearli ex novo ed autonomamente da esso.

Valga come esempio la già menzionata assenza di anatemi, la quale caratterizza, in perfetta continuità, sia il Concilio che il Postconcilio.

Conclusione

A noi sembra che tutta la vicenda nata dall’ermeneutica della continuità abbia il merito di aver evidenziato il problema fondamentale del Concilio: si tratta di un problema strutturale prima ancora di essere un problema di contenuti.

- Il Concilio non insegna nel senso  classico, ma accosta espressioni e contenuti antichi a espressioni e contenuti nuovi, elementi di natura dogmatica e considerazioni di natura pastorale e contingente.

- Questo prodotto non ha valore definitivo, ma rappresenta piuttosto una piattaforma di base da cui partire per una costante e incessante reinterpretazione, sempre viva e attuale, non ancorabile ad un momento storico particolare e non esprimibile attraverso sentenze irreformabili.

Si tratta di un movimento ermeneutico inarrestabile che potrà essere fermato solo quando sarà fermato il Concilio, nel senso che avrà fine il movimento da esso incominciato.

Probabilmente per giungere a questo risultato bisognerebbe innanzitutto riconvertire le intelligenze al fatto che esiste una Verità Assoluta la Quale può essere espressa e descritta attraverso asserti dogmatici definitivi, che non postulano e non necessitano alcuna ermeneutica ulteriore.

Si tratta delle formule dogmatiche classiche della Tradizione perenne e costante della Chiesa: esse, lungi dal rappresentare un concetto della Tradizione “incompleto e contraddittorio”, lungi dal rappresentare una tradizione “pietrificata”, sono l’unico veicolo possibile per trasmettere la Fede Apostolica fino alla fine dei tempi.



Note
1 - Utilizziamo solo per comodità l’espressione “ermeneutica della continuità” in quanto essa è certamente la più diffusa nella vulgata per indicare il tipo di ermeneutica indicato dal Papa in contrapposizione all’ermeneutica “della discontinuità o della rottura”. Per esattezza il Papa parla di “ermeneutica della riforma”.

2 - Mons. Guido Pozzo, attuale segretario della Commissione Ecclesia Dei, in un recente intervento del 2 luglio scorso a Wigratzbad (Germania), parla di una “ideologia para-conciliare” che si sarebbe addirittura “impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso. Con questa espressione, non si intende qualcosa che riguarda i testi del Concilio, né tanto meno l’intenzione dei soggetti, ma il quadro di interpretazione globale in cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti. Il Concilio non è affatto l’ideologia paraconciliare, ma nella storia della vicenda ecclesiale e dei mezzi di comunicazione di massa ha operato in larga parte la mistificazione del Concilio, cioè appunto l’ideologia paraconciliare”. L’ammissione è in sé grave: ovviamente accompagnata dalla contestuale assoluzione del Concilio.

3 - Purtroppo l’unico intervento significativo di Giovanni Paolo II in relazione alla Tradizione non sembra andare esattamente nel senso di una valorizzazione della medesima. Si tratta della condanna della Fraternità San Pio X, nel 1988, accusata di avere una nozione “incompleta e contraddittoria” del concetto di Tradizione. Tale condanna, prima ancora di colpire delle persone, ha colpito indubbiamente un tipo di atteggiamento tradizionale. È interessante notare come Benedetto XVI riconduca sostanzialmente tutti i problemi del Postconcilio ad una interpretazione di rottura con la Tradizione, mentre il predecessore riconduceva sistematicamente tali problemi ad una non piena e completa applicazione del Concilio stesso. Da una parte emergerebbe l’errore per eccesso, dall’altra l’errore per difetto.

4 - Il motu proprio Summorum Pontificum, che vorrebbe essere un’applicazione concreta ed esemplare dell’ermeneutica della continuità in materia di liturgia, si è limitato ad accostare l’antico e il nuovo onde valorizzarne la presunta continuità e favorirne l’arricchimento vicendevole, escludendo qualunque tipo di giudizio ulteriore sulla qualità della riforma liturgica. In questo senso esso non mette direttamente in discussione l’applicazione del Concilio realizzata dalla riforma di Paolo VI. Se però il nuovo fosse già in perfetta continuità con l’antico, l’accostamento non avrebbe veramente senso e sarebbe semplicemente superfluo, essendo il nuovo rito in se stesso espressione di continuità. Soprattutto non sarebbe comprensibile come mai il vecchio rito non sia stato riaccolto con naturalezza e semplicità dalla Chiesa universale. Insomma, ancora una volta si intende valorizzare una continuità che non si vuole ammettere di aver perso.

5 - Gli anatemi, cioè le condanne degli errori contrapposti alle verità che venivano definite, hanno sempre caratterizzato il Magistero tradizionale, sia nei concili che al di fuori di essi. Essi esprimono la volontà della Chiesa docente di “definire” e conseguentemente di “obbligare”. La loro assenza nei testi del Vaticano II è sempre stata evidenziata come segno di assenza di tale volontà di “imporre” e quindi come prova della non infallibilità di quei testi. L’argomento riposa sul fatto che la Chiesa non può definire una verità di Fede senza al contempo imporla alle intelligenze come verità che deve essere creduta.

6 - L’intervento di mons. Pozzo merita, a causa dell’autorevolezza istituzionale dell’Autore, qualche riflessione supplementare. Egli ravvisa sinteticamente le cause dell’ermeneutica della rottura in tre fattori. Il primo è la rinuncia all’anatema, su cui abbiamo già speso qualche parola; il secondo è la traduzione del pensiero cattolico nelle categorie della modernità: «L’apertura della Chiesa alle istanze e alle esigenze poste dalla modernità (vedi Gaudium et Spes) viene interpretata dall’ideologia para-conciliare come necessità di una conciliazione tra Cristianesimo e pensiero filosofico e ideologico culturale moderno. Si tratta di un’operazione teologica e intellettuale che ripropone nella sostanza l’idea del modernismo, condannato all’inizio del Novecento da S. Pio».
Bisogna riconoscere che mons. Pozzo dice una cosa giustissima quando intravede nella crisi attuale una riproposta dello schema modernista condannato da san Pio X. Il problema però è a monte ed è molto più radicale: purtroppo egli potrebbe dire liberamente il contrario e troverebbe ugualmente diritto di cittadinanza nell’emiciclo di posizioni più disparate che si appellano al Concilio. Come è possibile questo? Anche su questo punto non si può ridurre il tutto ad una disfunzione interpretativa. Innanzitutto il Concilio ha inteso confrontarsi con l’età moderna, con l’antropologia moderna, con il pensiero moderno, ecc… come lo stesso Benedetto XVI spiega abbondantemente nel discorso del 22 dicembre 2005: «Il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna». Il Concilio però ha scelto di farlo senza più denunciare e condannare l’anima apostata e immanentista del pensiero moderno, ma cercando un approccio nuovo: sono mancati proprio - nel Concilio - quegli anatemi, quei “paletti” a cui mons. Pozzo fa riferimento. Ci sembra abbastanza naturale che, senza definire e senza anatematizzare nel modo classico, il Concilio abbia aperto le strade ad interpretazioni diverse e divergenti. Voler imporre una interpretazione piuttosto che un’altra, dopo 45 anni, pur mantenendo l’ambiguità di fondo del testo conciliare, è semplicemente impossibile. Mons. Pozzo ha la libertà di esprimersi come sopra, ma come lui possono esprimersi liberamente altre figure istituzionali, soprattutto vescovi…, che possono avere sfumature decisamente diverse: l’unica libertà che non è concessa a nessuno è di rimuovere la causa prima dell’ambiguità, dell’anfibologia, del circiterismo (per usare un termine caro ad Amerio), che permette la coesistenza delle posizioni più disparate.
Il terzo fattore a cui mons. Pozzo fa riferimento è una cattiva interpretazione dell’idea di “aggiornamento”. Questo tema appare connesso al precedente, quantunque sia caratterizzato da una nota propria che evidenzieremo in seguito: «Con il termine “aggiornamento”, Papa Giovanni XXIII volle indicare il compito prioritario del Concilio Vaticano II. Questo termine nel pensiero del Papa e del Concilio non esprimeva però ciò che invece è accaduto in suo nome nella recezione ideologica del dopo-Concilio. “Aggiornamento” nel significato papale e conciliare voleva esprimere la intenzione pastorale della Chiesa di trovare i modi più adeguati e opportuni per condurre la coscienza civile del mondo attuale a riconoscere la verità perenne del messaggio salvifico di Cristo e della dottrina della Chiesa. Amore per la verità e zelo missionario per la salvezza degli uomini sono alla base i principi dell’azione di “aggiornamento” voluto e pensato dal Concilio Vaticano II e dal Magistero pontificio successivo.
Invece dall’ideologia para-conciliare, diffusa soprattutto dai gruppi intellettualistici cattolici neomodernisti e dai centri massmediatici del potere mondano secolaristico, il termine “aggiornamento” venne inteso e proposto come il rovesciamento della Chiesa di fronte al mondo moderno: dall’antagonismo alla recettività. La Modernità ideologica – che certamente non deve essere confusa con la legittima e positiva autonomia della scienza, della politica, delle arti, del progresso tecnico – si è posta come principio il rifiuto del Dio della Rivelazione cristiana e della Grazia. Essa non è quindi neutrale di fronte alla fede. Ciò che fece pensare ad una  conciliazione della Chiesa con il mondo moderno portò così paradossalmente a dimenticare che lo spirito anticristiano del mondo continua ad operare nella storia e nella cultura [questo però il Concilio non sembra averlo sottolineato abbastanza - N.d.R.].
La situazione postconciliare venne così descritta già da Paolo VI nel 1972:
Da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio: c’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine. È entrato il dubbio nelle nostre coscienze ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. Anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempeste, di buio, di ricerca, di incertezza. Come è avvenuto questo? Vi confidiamo un nostro pensiero: c’è stato l’intervento di un potere avverso: il suo nome è il diavolo, questo misterioso essere a cui si fa allusione anche nella lettera di san Pietro” (Paolo VI, Insegnamenti, Ed. Vaticana, vol. X, 1972, p. 707).
Purtroppo gli effetti di quanto individuato da Paolo VI non sono scomparsi. Un pensiero estraneo è entrato nel mondo cattolico,  gettando scompiglio, seducendo molti animi e disorientando i fedeli. Vi è uno “spirito di autodemolizione” che pervade il modernismo, che si è impadronito, tra l’altro, di gran parte della pubblicistica cattolica».
Il discorso di mons. Pozzo è estremamente significativo e riprende la celebre descrizione di Paolo VI. Questi parla di una “fessura” che però non sembra ancora individuata nell’analisi fornita dal prelato. Non ripetiamo quanto già osservato e che ci sembra evidente circa l’origine di questa “fessura”.
Notiamo semplicemente che “aggiornamento” significa relazione con un oggi contingente che domani sarà già superato: pertanto esso implica la complessa relazione tra elementi trascendenti ed elementi mutevoli; anche su questo punto il Concilio non ha inteso stabilire dei punti fermi e definitivi (e in un certo senso non poteva fornirli a causa della contingenza dell’“oggi” a cui ha inteso relazionarsi), ma si è di fatto cimentato in un movimento di adattamento che non ha ancora avuto termine e che, a causa del fluire della Storia, non avrà mai termine. Si tratta di un aspetto essenziale del problema ermeneutico che analizzeremo nel corso delle nostre riflessioni e al quale rimandiamo il Lettore.
Per il momento ci basti sottolineare che tutto ciò che è contingente non può, per natura, essere definitivo né oggetto di definizioni irreformabili, ma riguarda strettamente la sfera del divenire storico. Ora la Chiesa si è sempre occupata di adattamenti a situazioni nuove e questo non rappresenta una eccezionalità del Concilio; il Concilio tuttavia sembra giustapporre - senza i dovuti distinguo -
ciò che appartiene alla sfera dottrinale con ciò che riguarda la contingenza storica. Questa carenza di chiarezza e di distinzione rappresenta un permanente fattore di confusione e di dogmatizzazione di ciò che non è dogmatizzabile. Gli stessi richiami all’autorità del Concilio generalmente non affrontano questo evidentissimo problema.

7 - In sintesi l’ermeneutica della continuità si trova a dover armonizzare tre elementi che appaiono decisamente inconciliabili: la Tradizione, i testi del Concilio, l’evoluzione presente dell’umanità.

8 - L’espressione fu utilizzata per la prima volta dal Card. Ratzinger, il 13 luglio 1988, in una conferenza ai vescovi cileni in cui il Porporato, commentando il “caso Lefebvre”, prendeva spunto per alcune analisi e riflessioni nelle quali troviamo in nuce i principi basilari dell’ermeneutica della continuità. Ne citiamo un breve passaggio: «È un’operazione necessaria difendere il Concilio Vaticano II nei confronti di mons. Lefebvre, come valido e come vincolante per la Chiesa. Certamente c’è una mentalità dalla visuale ristretta che tiene conto solo del Vaticano II e che ha provocato questa opposizione. Ci sono molte presentazioni di esso che danno l’impressione che, dal Vaticano II in avanti, tutto sia stato cambiato e che ciò che lo ha preceduto non abbia valore o, nel migliore dei casi, abbia valore soltanto alla luce del Vaticano II. Il Concilio Vaticano II non è stato trattato come una parte dell’intera tradizione vivente della Chiesa, ma come una fine della Tradizione, un nuovo inizio da zero. La verità è che questo particolare concilio non ha affatto definito alcun dogma e deliberatamente ha scelto di rimanere su un livello modesto, come concilio soltanto pastorale; ma molti lo trattano come se si sia trasformato in una specie di superdogma che toglie importanza a tutto il resto. Questa idea è resa più forte dalle cose che ora stanno accadendo. Ciò che precedentemente è stato considerato la cosa più santa - la forma in cui la liturgia è stata trasmessa - appare improvvisamente come la più proibita di tutte le cose, l’unica cosa che può essere impunemente proibita. Non si sopporta che si critichino le decisioni che sono state prese dal Concilio; d’altra parte, se certuni mettono in dubbio le regole antiche, o persino le verità principali della fede - per esempio, la verginità corporale di Maria, la Resurrezione corporea di Gesù, l’immortalità dell’anima, ecc. - nessuno protesta, o soltanto lo fa con la più grande moderazione. Io stesso, quando ero professore, ho visto come lo stesso Vescovo che, prima del Concilio, aveva licenziato un insegnante che era realmente irreprensibile, per una certa crudezza nel discorso, non è stato in grado, dopo il Concilio, di allontanare un professore che ha negato apertamente verità della fede certe e fondamentali. Tutto questo conduce tantissima gente a chiedersi se la Chiesa di oggi è realmente la stessa di ieri, o se l’hanno cambiata con qualcos’altro senza dirlo alla gente. La sola via nella quale il Vaticano II può essere reso plausibile è di presentarlo così come è: una parte dell’ininterrotta, dell’unica tradizione della Chiesa e della sua fede».





novembre 2010

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