Amoris Laetitia:
tra fallibilità e pratica della Fede


di Giovanni Servodio





Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno:
annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina.
Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina,
ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie,
rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole.

(II Timoteo, 4, 1-4)



Datato 19 marzo e reso pubblico l’8 aprile 2016, questo documento di papa Bergoglio ha provocato, com’era prevedibile, un’eco rumorosissima nel mondo intero, sia da parte laica sia da parte cattolica. Dopo due anni di complesse discussioni, talvolta violente tra gli stessi prelati cattolici, e dopo i timori suscitati tra i credenti e le rosee aspettative suscitate tra i non credenti, ecco che la lettura del testo del tanto atteso pronunciamento pontificio ha spiazzato tutti: i credenti che ancora non credono come papa Bergoglio abbia potuto frantumare la dottrina e la disciplina cattoliche, e i non credenti che ancora non credono come papa Bergoglio non abbia potuto azzerarle.

Il dato peculiare di questo documento è la sua complessiva ambiguità fondata sull’uso continuo e quasi compiaciuto di vecchie affermazioni poi smentite e di nuovi proponimenti poi ridimensionati. Una consumata tecnica che da cinquant’anni fa strame dell’insegnamento millenario della Chiesa ed esalta implicitamente la moderna concezione relativista della realtà, dove non si ammette alcuna oggettività e si impone ogni fluttuante soggettività. Novità e cambiamento sono le cifre di un mondo che usa l’evidente per condurlo al suo contrario ed imporre l’imperio dell’opinabile al posto del regno del vero. E questa rivoluzionaria procedura devastante è stata fatta propria da quella che un tempo era la ponderata riflessione della gerarchia ecclesiastica, in forza della deflagrazione prodottasi nella Chiesa con l’implodere al suo interno del Vaticano II, con i suoi documenti e il suo “spirito”.

Su questo sito, i lettori potranno leggere tanti interventi relativi al contenuto di Amoris Laetitia, così che ci asterremo, per adesso, dall’entrare anche noi nel merito di essa: c’è già sufficiente materiale per potersi formare un giudizio. Riteniamo invece che sia opportuno valutare un elemento che si trova solo qua e là tra i tanti interventi: il valore magisteriale di questa “esortazione”.
La natura del documento: “esortazione”, il suo titolo: “gioia dell’amore”, il suo firmatario: “il Papa”, e la sua veste canonica: pronunciamento del “magistero ordinario”, fanno di esso qualcosa che dà adito a variegate e dotte considerazioni in sede accademica e a diversificati e definitivi giudizi in sede popolare. Tanto più che, come forse non è mai accaduto, questo documento pontificio è stato ampiamente pubblicizzato e illustrato a vantaggio dell’informazione dei fedeli… e degli infedeli.

Quando pubblica un documento ufficiale, è impossibile che la gerarchia non tenga conto dell’impatto che avrà presso l’opinione pubblica e in particolare presso l’insieme dei fedeli cattolici, e questo vale tanto più per “questa” gerarchia, che continua a dar prova dell’abilità acquisita in questi cinquant’anni nell’uso, persino spregiudicato, dei mezzi di comunicazione; abilità che ormai tutti riconoscono in modo particolare a questo nuovo Papa venuto dalla fine del mondo. Così che nel considerare il valore magisteriale di questa “esortazione” sarebbe davvero colpevole non tenere conto del retropensiero del suo autore: sarebbe come volerne artatamente sottovalutare l’intenzione e lo scopo che egli si è prefisso.
Eppure, qua e là, da parte di dotti e preparati commentatori, si è voluta focalizzare l’attenzione sul valore non vincolante del documento, per il suo mancare di carattere definitorio e per la sua valenza dichiaratamente “pastorale”; come se si trattasse di una mera esercitazione verbale a profitto di una libera riflessione da parte dei fedeli, sempre liberi di ascoltare tutte le campane e alla fine seguire il proprio personale consiglio. E questo con l’intento, da parte di costoro, di sminuirne l’impatto negativo e di minimizzarne la portata devastatrice.

Lo stesso documento, fin dal suo inizio (paragrafo 3), tiene a precisare che “non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero”, perché l’unità di dottrina e di prassi della Chiesa “non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano.
Da cui si evince che
- il documento non vuole essere un “intervento del magistero”, seppure è un “intervento del Papa” e cioè della massima autorità del magistero;
- né vuole mettere un punto fermo alle “discussioni”, seppure si presenti come un documento esortativo perché si tenga una certa definita linea di condotta teorica e pratica;
- né vuole essere una guida che compendi e informi i “diversi modi di interpretare alcuni aspetti e le relative conseguenze della dottrina”, seppure il documento interpreti a tutto spiano la dottrina traendone le relative conseguenze in termini di disciplina e di pratica della Fede.

A questo si aggiunga che la stessa precisazione, per la sua lettera, per la sua formulazione e per la sua chiara intenzione, costituisce una sorta di precisa direttiva da tenere in conto sia per la comprensione del documento che segue, sia per la comprensione del concetto stesso di magistero, almeno come deve intendersi secondo la mentis di papa Bergoglio.

Con tale direttiva si “stabilisce” che ogni modo di interpretare la dottrina e di praticarla, non solo è legittimo, ma non contrasta, a priori, con l’unità di dottrina e di prassi della Chiesa; e si stabilisce altresì che tale diversità di interpretazione va coniugata con un’altrettanta diversità di applicazione, derivata dal fatto che “in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali.

Quindi, è verissimo che non si tratta di un documento vincolante, perché esso lascia a tutti la possibilità di credere, di pensare, di agire e di praticare la Fede in maniera, non solo soggettiva, ma persino latitudinarista; e questa direttiva, che forse è più corretto chiamare “esortazione”, è impossibile che non costituisca un insegnamento papale “virtualmente” vincolante, tanto che possiamo dire, senza esagerazione, che questo documento del magistero ordinario informa i fedeli che il magistero della Chiesa non c’è più perché non serve più… e questa è dottrina!

Detto questo, veniamo al valore magisteriale di Amoris Laetitia, documento che rientra nel magistero ordinario non infallibile della Chiesa. I fedeli devono accoglierlo con tutto il rispetto dovuto, ma non devono ritenere che si tratti di un vero e proprio insegnamento della Chiesa, trattandosi semplicemente della espressione del pensiero del Papa come dottore privato, pertanto esso non insegna nulla di nuovo e tutto ciò che propone dev’essere letto alla luce dell’insegnamento della Chiesa.
Ebbene, se questa è la tiritera che si sente sempre in occasioni come queste, corre l’obbligo di dire che essa non ha consistenza logica, né efficacia pratica, dal momento che si tratta di una mera “petizione di principio” che non trova riscontro nella vita reale dei fedeli e nella pratica della Fede. Vero è invece che il fedele che legge questa espressione del pensiero del Papa, ne deduce che debba trattarsi di un vero e proprio insegnamento della Chiesa, perché il Papa non potrebbe sbagliarsi né potrebbe trarre in inganno i fedeli.

In parole povere:
che ci sta a fare il Papa se quello che lui dice dev’essere poi interpretato alla luce di quello che è stato insegnato prima di lui?
Non può e non dev’essere lo stesso Papa a parlare alla luce dell’insegnamento precedente?
E se si giunge alla necessità di dover “interpretare” ciò che dice il Papa, non è perché ciò che egli ha detto non è chiaro e anzi lascia perplessi o addirittura sconvolti?
E se questo accade, non è perché il Papa ha detto delle cose in contrasto con l’insegnamento della Chiesa e che quindi hanno allarmato i fedeli?
E se il Papa ha detto quelle cose, si deve pensare che lo abbia fatto senza accorgersene o si può pensare che lo ha fatto perché vuole che i fedeli capiscano e assimilino esattamente quello che lui ha detto?

E potremmo continuare con gli interrogativi del genere: non lo facciamo perché siamo certi che il lettore li conosca meglio di noi. Quello che non si comprende è come si possa pensare che un documento come questo, connotato dagli elementi che abbiamo qui abbozzato, possa essere considerato persino trascurabile, poiché ciò che conterebbe sarebbe l’insegnamento già definito della Chiesa, che lo stesso papa Bergoglio afferma di non voler cambiare.

Questa impostazione, comune a tanti studiosi, teologi chierici e laici, in pratica contrasta con la realtà oggettiva della vita ordinaria dei semplici fedeli, rivelando una dicotomia insanabile nella pratica della Fede: da un lato gli studiosi che pretendono di conciliare un assunto con il suo contrario e dall’altro i semplici fedeli che considerano normale seguire le parole del Papa, senza bisogno di dover ricorrere volta per volta ai sottili distinguo dei dotti, ritenuti giustamente validi per aprire tavole rotonde, ma del tutto inutili per praticare la Fede.

I nostri lettori ricorderanno certamente il famoso discorso di papa Ratzinger, del 22 dicembre 2005, in cui si raccomandava di rileggere i documenti del Vaticano II utilizzando l’interpretazione nella continuità, “ermeneutica della continuità”, piuttosto che l’interpretazione nella rottura, “ermeneutica della rottura”; questo discorso, che introduceva la pretesa di dover e poter interpretare in continuità con l’insegnamento di sempre tutto ciò che veniva chiaramente proposto in rottura con esso, ha finito col fare scuola ed oggi si ripete lo stesso copione: mentre papa Bergoglio, usando la tecnica della manipolazione dei testi e del linguaggio, esorta i fedeli ad accogliere una nuova dottrina, i dotti si industriano per convincere gli stessi fedeli che si tratta della stessa dottrina di sempre.

Perché non ci siamo equivoci su quanto qui affermiamo, facciamo un esempio che ci viene dallo stesso papa Bergoglio.
Il 16 aprile 2016, sul volo di ritorno dalla sua visita all'isola greca di Lesbo, papa Bergoglio, come di consueto, ha risposto alle domande dei giornalisti. A Francis Rocca del Wall Street Journal, che gli ha chiesto: “ci sono nuove possibilità concrete, che non esistevano prima della pubblicazione dell’Esortazione o no?”, Bergoglio ha risposto: “Io potrei dire 'si', e punto. Ma sarebbe una risposta troppo piccola. Raccomando a tutti voi di leggere la presentazione che ha fatto il cardinale Schönborn, che è un grande teologo. Lui è membro della Congregazione per la Dottrina della Fede e conosce bene la dottrina della Chiesa. In quella presentazione la sua domanda avrà la risposta. Grazie!

Qui, papa Bergoglio conferma che la sua “Esortazione” contiene delle novità rispetto a quanto “esisteva prima della pubblicazione dell’Esortazione”, novità che non si arrischierebbe a definire in contrasto con la dottrina e la disciplina esistenti fino ad oggi, ma che tanti fedeli, non certo sprovveduti e certo in grado di leggere e di comprendere ciò che leggono, hanno subito considerata “in rottura” con l’esistente.
Affermare quindi che l’Esortazione, non essendo un documento vincolante, non obbliga i fedeli a farlo proprio, è un mero esercizio retorico, poiché i fedeli guarderanno ad esso come all’insegnamento del Papa, al magistero pontificio, e si comporteranno di conseguenza.

In effetti, nonostante l’opinione formalista e guiridicista di tanti “dotti”, è il caso di precisare che per fare magistero, per trasmettere un insegnamento, per indurre i fedeli a credere ciò che è conforme alla dottrina, non è affatto necessario un qualche documento che rispetti questi o quei canoni, vincolanti o meno che siano, ma basta che i vescovi e il Papa compiano un gesto, attuino un comportamento, diano una risposta, pronuncino un’omelia, scrivano un’esortazione.
Per esempio: non è forse magistero la giornata di Assisi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI? Non è forse magistero il bacio al Corano di Giovanni Paolo II e l’abbraccio in sinagoga di Benedetto XVI? Non è forse magistero il “buona sera” di Francesco I a Roma e al mondo la sera della sua elevazione al Soglio Pontificio?
E non è forse da queste “gesta” che i fedeli apprendono cos’è il cattolicesimo, piuttosto che dalla lettura dei documenti della Chiesa?
Non è forse dalle omelie domenicali dei propri parroci che i fedeli apprendono come ci si comporta da buoni cristiani?
Non è forse in forza di tutto questo che le chiese si sono svuotate e il numero dei cattolici praticanti è ridotto a percentuali da 0,?
Non è in forza di tutto questo che si sono beatificati e santificati tutti i papi del Vaticano II, eccetto i viventi, per adesso, perché ogni loro gesto e ogni loro discorso acquisisse l’aura di santità e diventasse “vangelo” per i fedeli?

Noi saremo irrispettosi verso i discorsi dei dotti e verso il ragionare compito dei teologi, ma di certo viviamo con i piedi sulla terra e ci guardiamo intorno e ascoltiamo i discorsi che fanno i fedeli all’uscita della Messa domenicale, e ci sembra che basti il minimo buon senso per rendersi conto che la realtà della pratica della Fede è direttamente connessa con quanto abbiamo qui malamente esposto e non con le teorie accademiche e salottiere dei dotti chierici e laici che vorrebbero far credere che le lucciole sono lanterne.




aprile 2016

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