L’Amoris Laetitia come
nuova inculturazione


Guida ragionata alla lettura di un documento proteiforme

di Patrizia Fermani


L'articolo, che qui riportiamo per intero,
è stato pubblicato in tre parti da Riscossa Cristiana

Prima parte,  10 maggio 2016
Seconda parte, 11 maggio 2016
Terza parte, 13 maggio 2016

L'impaginazione è nostra
Abbiamo mantenuta la divisione in tre parti, separate dalle immagini
prima parte
seconda parte
terza parte


Prima parte




 

L’Amoris laetitia, che suona come il titolo latino dato ad un antico madrigale, è un testo di disarmante banalità, sgangherato nella costruzione, rozzo nella forma, privo di una sola idea di un qualche interesse, ma ricco di  molte pseudoidee i cui frutti nefasti  già non tardano a manifestarsi.

Non poteva tradire le aspettative e infatti non le ha tradite, perché da tre anni a questa parte, più o meno tutto il suo contenuto è stato già esposto ampiamente da Bergoglio per iscritto,  recitato a braccio, rappresentato per fatti concludenti.

Per dirla in termini crudi si tratta sempre di una stessa minestra, riscaldata, allungata, ribollita e ricondita, oggettivamente indigesta, ma soprattutto particolarmente pericolosa perché  ritenuta commestibile, e trangugiata ad occhi chiusi dai tanti che si sono esonerati a tempo indeterminato dalla preoccupazione di controllarne gli ingredienti, e di valutarne le conseguenze e per questo particolarmente pericolosa in quanto destinata ad accelerare un processo di dissoluzione che si ha fretta di portare a compimento.

Infatti in mezzo ad un enorme agglomerato di  parole usurate, inutili o ambigue, spicca  ancora una volta lo stesso nucleo incandescente: l’attacco portato alla immutabilità della dottrina cattolica e per questa via, alla morale e alla realtà sacramentale. Non a caso il suo autore non perde occasione di ostentare una particolare avversione per la oggettività di norme etiche che non collimano con la propria visione personale del mondo.
Ma quell’attacco  risultava  già  formalizzato  nell’Evangelii gaudium e poi a chiare lettere nel documento programmatico del sinodo dove era stato proclamato apertamente l’abbandono della legge naturale quale criterio guida superiore e indefettibile dei comportamenti umani, con richiamo testuale ad una  dichiarazione del 2009 della  Commissione teologica internazionale (di cui faceva parte anche monsignor Charamsa), ora ripresa dal fatale paragrafo 305, in cui si legge: “la legge naturale non può essere presentata come un insieme già costituito di norme che si impongono a priori al soggetto morale”…

La abolizione di ogni  riferimento alla legge naturale divina è il perno su cui è stata avvitata tutta la farsa sinodale.  Questa  farsa,  allestita lungo un intero anno con una macchinosa impalcatura, aveva infatti conclusioni già  tutte minuziosamente predeterminate, tanto che al di là della messinscena delle discussioni condotte democraticamente, è stata messa in sordina o contraddetta o eliminata ogni voce timida o vigorosa levatasi per contrastare la direzione impressa ai lavori.

Per tutti questi motivi, il documento, nonostante sia defatigante per la sconnessione logica, farraginoso e fastidiosamente ripetitivo, merita di essere letto con attenzione anche a dispetto, anzi proprio in ragione della sua illeggibilità,  perché in ogni caso esso sarà recepito ad orecchio e comunque osannato da quanti, sensibili più ai suoni delle parole che ai loro veri significati, lo trangugeranno così come viene già  presentato in tavola dalla propaganda clericale e laica del regime, con la fatale conseguenza che saranno anche assorbite senza difficoltà tutte le inquietanti idee che lo percorrono. Anche perché ancora una volta, secondo la strategia bergogliana, il consenso  generale viene ottenuto attraverso una studiata tecnica di pesca a strascico: si attirano nella rete pesci di ogni tendenza, dicendo indifferentemente tutto e il contrario di tutto, persino nello stesso contesto, in modo che ognuno  possa scegliere quello che meglio lo soddisfi e lo sazi.
Viene sfruttata inoltre la generale capacità di assuefazione della gente e soprattutto l’incapacità del cattolico medio di esorcizzare la propria dipendenza cieca dalla autorità di chi compare come papa, indipendentemente dalla fedeltà di costui al mandato petrino. Intanto dell’opera è stata decantata persino la “novità del  linguaggio”, nientemeno che dall’arcivescovo di Vienna, di certo ispirato da una certa attrazione aristocratica per l’arte povera.

Ma prima di scorrerne i punti salienti occorre tenere conto delle pur vigorose critiche, che si sono  appuntate in particolare sulla “dottrina” del caso per caso, cioè su quella “morale di situazione”, cavallo di battaglia di Bruno Forte, che distruggendo l’essenza e la funzione fondativa del dogma nella Chiesa è il leit motiv dichiarato di tutta questa  nuova “teologia” peronista.

Spaemann vede nell’A.L. la consacrazione della legge del caos e si rifiuta anche di commentare il famoso paragrafo 305 in cui viene teorizzato l’abbandono di ogni canone morale assoluto valevole per tutti e autorizzata la trasgressione della legge divina attraverso la cancellazione della stessa idea del peccato. E in effetti vi si potrebbe scorgere quasi una parafrasi morbida della esortazione rivolta da Lutero a Melantone nella famosa  lettera del 15 agosto 1521: “sii peccatore e pecca fortemente, ma con ancora più fermezza credi e rallegrati in Cristo vincitore del peccato, della morte e del mondo. Da Lui non deve separarci il peccato, neppure se commettessimo mille omicidi e mille adulteri”.

Tuttavia è da osservare che il riferimento al peccato presuppone comunque il riconoscimento della preesistenza della legge divina, non la sua obliterazione. Peccare significa trasgredire e Lutero incita alla trasgressione sul presupposto arbitrario, volto a portare acqua al proprio mulino impazzito, che tutto comunque verrà perdonato da Dio, e senza chiedersi perché mai l’Onnipotente si sarebbe preso la briga di dare all’uomo i propri comandamenti se avesse avuto intenzione di non esigerne anche l’osservanza. Domanda che va girata ovviamente anche a Bergoglio.

Dunque Lutero non pensava affatto che il peccato fosse una invenzione autolesionista umana, o il prodotto del sadismo divino: si limitava ad esorcizzarlo a proprio uso e consumo.

Nell’Amoris laetitia invece, troviamo lietamente, ma la cosa era già stata insinuata tante volte altrove, che di peccato non è più il caso di parlare, e ne troviamo un riferimento esplicito solo al paragrafo 26 dove si dice che “la degenerazione del peccato viene quando l’essere umano si comporta come tiranno nei confronti della natura” … e non c’è possibilità di intendere il passaggio se non in termini di stretta ecologia. Quella per cui è stata sovvenzionata la costosa deturpazione visiva di San Pietro.

Ma in realtà nell’A.L. c’è qualcosa di più che non l’abbandono di qualunque criterio etico assoluto e la consacrazione della morale del caso concreto. Non c’è   semplicemente l’abbraccio di un relativismo assoluto capace di decostruire ogni caposaldo della morale cattolica in un atteggiamento di indifferentismo etico o di neutralità che dir si voglia. E neppure, per dirla con Radaelli, il mezzo relativismo  intellettuale e professorale ratzingeriano, che Bergoglio sarebbe incapace di padroneggiare. In realtà c’è qualcosa che si presenta oggi persino più significativo e devastante nei suoi effetti immediati. C’è infatti l’adeguamento pieno e incondizionato ai dogmi nuovi del mondo postcristiano, al linguaggio volto ad irretire le coscienze per abituarle ad ogni degenerazione attraverso il paravento delle parole d’ordinanza che aprono la porta alla civiltà dei diritti illimitati e delle intenzioni obbligatorie. Le parole che hanno imprigionato un mondo ubriacato dalla libertà per tutti. Non c’è semplicemente l’affidamento del caso concreto alla creatività del singolo pastore che viene così esonerato  dalla osservanza del dogma. C’è invece l’obbligo per il pastore di registrare lo spirito del tempo, ovvero di un non ben definito Spirito dalle ampie attitudini creative.

Ora, non è neppure detto che Bergoglio sia sinceramente devoto di questa religione, che sia intimamente rapito dai miti libertari anticristiani. Può darsi che il suo obiettivo si esaurisca nella edificazione del proprio mito personale riflesso nel consenso delle masse, fedele ad un prepotente modello peronista, che tuttavia potrebbe a sua volta presentarsi come mezzo e non come fine. Infatti risulta sconcertante  la rozzezza teatrale delle immagini, l’uso volutamente sciatto delle parole, e la banalità delle osservazioni, la mimica goffamente volgare dei gesti, l’uso di un linguaggio parodistico vecchio di decenni. Cosa che fa pensare ad una inadeguatezza studiata o in ogni caso sfruttata per catturare il popolo, sempre attratto da chi adopera il suo stesso registro espressivo e parla per così dire il suo stesso dialetto, perché appagato dalla  possibilità di riconoscersi in gesti e in parole che gli sono famigliari.
Nel quadro  di un costante  artificio  pubblicitario, potrebbe darsi dunque che l’adeguamento ai dogmi del mondo risponda almeno in parte ad esigenze di affermazione personale più che ideologica. E questo potrebbe spiegare anche l’ambivalenza costante del messaggio, che spesso assume la forma della più plateale contraddizione. L’arringatore di folle che mira all’applauso cerca di distribuire pani per tutti i gusti allo scopo di garantirsi il massimo gradimento e fagocitare così gli oppositori più irriducibili che finiranno per diventare innocui.

Sta di fatto tuttavia che egli appare ossessionato da due idee fondamentali diventate  anche direttrici di governo: togliere di mezzo i residui del mondo cristiano attraverso la decostruzione del suo ethos millenario, e cancellare la fisionomia socio culturale dell’Europa attraverso quella invasione da sud, già ideata dal conte Coudenhove Kalergj col famoso “Idealismo Pratico” che gli valse nel 1950 il premio Carlo Magno. Quello stesso di cui è stato insignito ora anche  Bergoglio. Una coincidenza priva di significato?

E resta il dato oggettivo che dall’A.L, come da ogni altro intervento, non emerge mai l’intento effettivo di combattere la crisi epocale che scuote i fondamenti della convivenza umana combattendo le idee degenerate da cui questa ha preso le mosse. Nulla si dice contro la ideologia libertaria e agnostica che ha sacrificato la ragione all’utopia, distruggendo i capisaldi del vivere comune, e anzi proprio di tale ideologia Bergoglio si fa l’ammiccante propagandista.

Fatte queste premesse, vale dunque la pena di percorrere le defatiganti volute in cui si dipana questa inedita esortazione, che paradossalmente esorta a non esortare al bene  ma solo a prendere atto di quanto va girando per il mondo.

È quanto inizieremo a fare da domani.

Seconda parte




Cominciamo dal genere letterario. L’Amoris laetitia, che come dicevamo porta il titolo degno di un madrigale, appare in gran parte come un prolisso trattatello di contenuto prevalentemente erotico, che anche senza scomodare Madame Bovary, si pone in linea con la posta del cuore, un tempo pudica ma ora assai disinibita, dei più aggiornati settimanali femminili. Dietro una densa paccottiglia di ordinaria banalità, si può trovare il manualetto di socio-psicologia spicciola e moraleggiante sul piano di quelli che erano i discorsi da treno, prima che fossero  aboliti gli scompartimenti, insieme ad un piccolo repertorio di buone maniere. Non manca infine il protocollo sulla  politica migratoria volta ad eliminare la identità storica, fisica e culturale europea.

Insomma, non ha nulla a che fare nella forma, con un documento magisteriale anche se i suoi effetti saranno in concreto gli stessi.

Ma soprattutto occorre mettere a fuoco che al di là della forma dimessa e del periodare confuso, qui vengono consacrate tutte le idee degenerate che stanno strangolando la morale e la ragione.

Il filo di Arianna è ovviamente la famiglia, ma in realtà essa è solo il canovaccio sul quale viene imbastito il programma eversivo, già al numero 2 con la necessità di “continuare ad approfondire con libertà (quindi  non secondo verità) alcune questioni dottrinali”, perché “esistono diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina e le relative conseguenze”. Beninteso con l’aiuto dello Spirito, tout court,  che ridiventerà miracolosamente “Spirito Santo” solo verso la fine della trattazione, dopo essersi presentato anche come “Spirito d’amore”.  Dunque si dice subito, perché nuora intenda, che la dottrina non è dottrina, non è insegnamento stabile ma il frutto variabile della libertà dell’interprete. Cioè proprio non c’è più una dottrina da seguire. Il ripudio della legge naturale è il primo comandamento.

Affinché qualcuno non sia troppo allarmato dalla premessa, poco dopo sopraggiunge un edificante omaggio a verità, valori e principi che devono per forza di cose orientare gli individui (n.38). Ma già il tempo cambia e l’apologia dei principi immutabili non impedisce che subito dopo venga invocato un vistoso autodafé da parte della  Chiesa, resasi responsabile, per troppo zelo dottrinale, proprio della attuale crisi del matrimonio. Infatti: “dobbiamo riconoscere che il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo”, infatti, ”privilegiando il fine procreativo il matrimonio è diventato meno desiderabile”, “abbiamo avuto poca capacità propositiva per indicare strade di felicità”.
Dato che di Salvezza cristiana non si parla più, da quando la Dichiarazione di indipendenza americana l’ha sostituita con il diritto alla ricerca della felicità, la chiesa di Bergoglio si impegna a fornire a questa il  manuale di istruzioni che mancava. Così risulta ben delineato anche il senso  del matrimonio postcattolico, quale fonte inesausta di piaceri sensibili.

Subito dopo viene servita una prima razione massiccia di patetismo familiaristico che va ad approdare fatalmente sulla spiaggia delle migrazioni. Qui, al n.46, apprendiamo che la mobilità umana corrisponde al naturale movimento storico dei popoli, che la migrazione può rivelarsi una autentica ricchezza “tanto per la famiglia che emigra quanto per il paese che la accoglie”, e non importa se tali migrazioni, che però poco prima figuravano come “naturali”, sono “sostenute da circuiti internazionali di tratta degli esseri umani”, cosa che evidentemente non intacca minimamente tanta ricchezza così importata.

Ora, poiché questa ricchezza culturale è anzitutto musulmana, per educazione non si potevano  trascurare i cristiani che per avventura vengono perseguitati  proprio dai musulmani. Infatti, con un commovente  doppio lapsus freudiano, si dice che anche la comunità internazionale, (cioè lo stato sovranazionale di cui siamo ostaggio) deve fare ogni sforzo perché i cristiani rimangano nelle loro terre, cioè là dove vengono perseguitati e sterminati… Riassumiamo: ai  musulmani e agli africani travestiti da rifugiati, noi  europei dobbiamo fare spazio in modo da acquisire la loro ricchezza. I cristiani delle terre africane e asiatiche, dove vengono sterminati, rimangano dove sono per agevolare il completamento dello sterminio. Segno che la scorta di misericordia è stata tutta esaurita a vantaggio della umma musulmana, andando a compensare il torto inflitto a questa  da Goffredo di Buglione quando si è preso la briga di liberare il Santo Sepolcro di Cristo.

Infine si raccomanda una pastorale specifica che rispetti le culture con particolare “cura per la ricchezza spirituale dei loro riti e tradizioni”.  Ora, poiché i flussi  migratori  non provengono  dall’isola di Pasqua, e i riti e tradizioni di cui si parla saranno  per lo più musulmani, qui la famosa inculturazione che deve orientare l’azione missionaria nel senso dell’adeguamento alle culture locali non c’entra, e l’unico modo di dare senso alla frase è di intenderla come un invito ad avviare un sano processo di autoislamizzazione.

Bisogna già riconoscere che questo è parlare chiaro e che di certo quando verso la metà degli anni venti Rockefeller ed altri magnati si interessarono all’ ”Idealismo pratico” di Coudenhove Kalergj, cioè al  progetto di annientamento dell’Europa attraverso l’invasione da sud, certamente non avrebbero potuto immaginare che all’inizio del terzo millennio quel piano avrebbe trovato un formidabile paladino in un arcivescovo argentino messo  formalmente a capo  della Chiesa cattolica. Infatti il suo apporto decisivo sta tutto nella possibilità di trasformare nella coscienza collettiva una aberrazione politica in obbligata scelta umanitaria. Operazione facile, perché il mondo cattolico è stato preparato da tempo ad interpretare l’amore cristiano in chiave giacobina e comunistoide, e per questa via può essere agevolmente condotto al  suicidio, in applicazione del principio per cui  il modo più economico di annientare un nemico è quello di rivoltargli contro le sue stesse armi.

Non per nulla viene astutamente cesellato il paragone tra migrazione e disabilità, cioè tra “accoglienza misericordiosa” e “integrazione delle disabilità”: il ricatto morale per il cattolico è così completato e funziona a dovere, sia per le persone impegnate nel sociale che per i pastori impegnati in politica.

Al n. 49 subentra invece il Vangelo alternativo per le famiglie povere, alle quali la Chiesa “deve evitare di imporre una serie di norme come fossero pietre, ottenendo con ciò l’effetto di farle sentire giudicate e abbandonate… ”; infatti “alcuni vogliono indottrinare il Vangelo e trasformarlo in pietre morte da scagliare contro gli altri”. Questa idea del Vangelo da adattare alla capacità contributiva si presenta come una forma nuova di inculturazione economica a cui neppure Las Casas aveva pensato. Tuttavia essa appare ancora tutta da sondare nelle sue possibili applicazioni  pratiche, anche perché non si hanno ragguagli sul Vangelo eventualmente destinato ai ricchi, e nulla si dice sul criterio, progressivo o proporzionale, con cui deve essere regolata la flessibilità della imposizione evangelica in ragione delle diverse situazioni patrimoniali.

In ogni caso una domanda, forse ingenua, sorge spontanea: poiché stiamo trattando di matrimonio e famiglia, e dei rimedi da opporre ad una crisi riconosciuta come devastante per la intera collettività,  quali regole evangeliche debbono essere ritenute non solo non salvifiche, ma addirittura come pietre morte scagliate contro  le persone? Dunque era forse il Salvatore in persona a scagliare  pietre morte sotto forma di precetti evangelici, tanto pesanti da osservare che ne deve essere esentato chi abbia un mutuo troppo oneroso da pagare? Costui potrà dedicarsi liberamente all’adulterio o magari arrotondare lo stipendio procurando un fidanzato danaroso alla propria consorte depressa? Chiederemo a Charasma, che, avendo abolito la legge naturale, di queste cose di certo si intende. Intanto, sempre  a proposito di pietre scagliate, viene anche  da chiedersi se non ci sia qui un riferimento freudiano alle tavole del decalogo che Mosè ruppe rabbiosamente quando trovò il popolo in adorazione del vitello d’oro… chissà.

Il rinnovamento del linguaggio, caro all’arcivescovo di Vienna, nonché quello dello spirito, si dispiega tutto nei paragrafi successivi, di importanza capitale come vedremo presto, perché dedicati espressamente all’istituzione famigliare. Ma poiché l’esposizione risulta piuttosto farraginosa, forse per la intensità dei concetti erogati, possiamo riordinarne l‘ossatura, partendo dal centrale n. 53 dove leggiamo: “benché sia legittimo e giusto che si respingano certe forme di famiglia “tradizionale” caratterizzata dall’autoritarismo e anche dalla violenza, questo non dovrebbe portare al disprezzo per il matrimonio”.

Dunque il punto di partenza è che la famiglia “tradizionale” non è un granché per le magagne endemiche che la affliggono. Però dobbiamo cercare di salvare il matrimonio che non è male, specie nella nuova forma flessibile assicurata dalla misericordia. Se la prima non funziona tanto bene, per fortuna ci sono le sue variabili (n.52), tutte “capaci di offrire una certa regola di vita”. A quali variabili si faccia riferimento lo scopriamo subito dopo dal fatto che, “tuttavia le unioni di fatto o tra persone dello stesso sesso non si possono equiparare SEMPLICISTICAMENTE al matrimonio”.  Cioè unioni di fatto anche tra persone dello stesso sesso, non  sono “semplicisticamente” matrimonio,  ma sono comunque famiglia. Già al numero 38 del resto, era comparsa la “famiglia allargata”, pur con riferimento a certe realtà africane, ma senza troppa preoccupazione per il significato ambiguo di cui si è ormai caricata l’espressione;  e infatti di famiglie allargate si continuerà a parlare con una frequenza tale da non risultare innocente: come sappiamo ogni  realtà oggettivamente distorta può essere normalizzata, appunto attraverso il linguaggio.

L’organigramma della “ famiglia” è dunque completo: ce n’è una piuttosto problematica, che è quella “tradizionale” e ci sono tante versioni più aggiornate, più promettenti e anche più rassicuranti, sicché alla fine, per fortuna, “non rimane uno stereotipo della famiglia ideale, bensì un interpellante (!) mosaico formato da tante realtà diverse”.

Il testo incalza con una serie di riferimenti al necessario riconoscimento dei diritti della donna e alla sua auspicabile partecipazione allo spazio pubblico, a costumi inaccettabili, a violenza verbale e fisica,  alla mutilazione genitale, alla disuguaglianza lavorativa e altro. Seguono ancora  alla rinfusa: 1) la difesa degli usi e costumi locali con relativa esigenza della inculturazione della morale cattolica 2) il riferimento alla pratica dell’utero in affitto quale peccato contro la libertà della donna attraverso la mercificazione del corpo, ma senza alcun riferimento al peccato contro Dio. Cosa che la dice lunga sulla sostituzione di criteri correnti facili da adottare a buon mercato, a quello più impegnativo ma imprescindibile in una prospettiva di fede, della indisponibilità dei processi che presiedono alla formazione della vita umana;  3) il riferimento al  maschilismo quale causa prima della mercificazione di cui sopra (Vendola e Cirinnà sono avvertiti). Al n. 56 arriva persino, a sorpresa, la condanna al gender, che sarà però contraddetta di fatto al n. 286, e infine, dulcis in fundo, per la gioia di Valeria Fedeli, madrina della buona scuola renziana, quell’edificante n. 57 che proclama solennemente il superamento dello “stereotipo della famiglia ideale” sostituito dall’ “interpellante”  mosaico delle tante diversamente famiglie che ci allietano. Il principio di immanenza dà i suoi frutti prelibati.

In questa farragine di proposizioni senza apparente collegamento ritroviamo tutti gli  ingredienti del modello socio politico in cui deve essere risucchiata anzitutto la società europea.

Se  la famiglia che si fonda sulla diversità biologica e ontologica dei sessi, e sulla stabilità, è uno spazio di autonomia e di tradizione da decostruire per fondare il mondo nuovo degli ominidi tutti controllabili perché asessuati e omologati, essa va prima attaccata, e poi annientata nella indistinzione delle “famiglie”. Alla differenza sessuale e di ruoli su cui essa si fonda, deve essere sostituita la fluidità del “genere”. Per dissolvere la sua consistenza fisica, occorre abbattere anzitutto il suo valore ideale. Deve essere denigrata in quanto fonte di mortificazione per la donna che vi viene imprigionata con violenza dall’autoritarismo  maschile. La famiglia crea in questo senso gli “stereotipi di genere” ed è essa stessa uno stereotipo da abbattere. Poiché la mappa delle forme in cui si manifesta tale condizione femminile la troviamo in tante “culture” sparse per il mondo, basta applicare questa mappa genericamente ad ogni famiglia “tradizionale” esistente attraverso la carta delle parole truccate, e il gioco è fatto. A questo gioco si adegua il discernimento  della nuova chiesa madre e maestra che parla, senza rispetto per il comune senso del pudore, di inaudite violenze, di mutilazioni genitali e di analfabetismo femminile diffuso, senza spiegare a quale realtà geografica faccia riferimento. Tuttavia, poiché è oggettivamente difficile parlare con qualche credibilità di discriminazione, disuguaglianza, pregiudizi , depressione culturale a svantaggio delle donne, analfabetismo femminile diffuso, anche per le società in cui viviamo, ci si concentra sui turni per il caricamento della lavastoviglie, che  dovrebbero risolvere definitivamente  la questione dello abbattimento  degli stereotipi di genere.

La famiglia come l’abbiamo sempre intesa è dunque un modello sospetto da mettere da parte a prescindere, a vantaggio di altri in cui gli “stereotipi di genere” vengono superati anche senza l’aiuto dei turni in cucina.  Lo schema imposto dalla propaganda e ormai assorbito da tutti per affabulazione, lo si ritrova perfettamente riprodotto nelle formule adottate in questo nucleo di  paragrafi dell’A.L.

Questo risultato è dovuto all’incapacità degli estensori  di “discernere”,  per dirla con parole loro, il senso di quello che andavano scrivendo, magari con l’aggravante della buona fede, o invece si tratta di  quella stessa confusione di piani, di quella falsificazione di concetti corredata da formule diventate rituali, propri di un  programma eversivo che qui viene adottato a ragion veduta?
Tenuto conto di quanto viene detto qua e là, di erotismo e di stereotipi, di fini del matrimonio e di schemi dottrinali da abbattere, ma anche di  educazione sessuale, di fluidità del sesso e di tanto altro che solo una lettura disincantata del documento fa scoprire, questa ipotesi rimane la sola plausibile. Rimane chiara cioè l’intenzione di avallare con autorità magisteriale la diabolica ideologia genderista ad uso delle scuole statali e paritarie, magari  dopo avere finto, per bon ton, di riprovarla.
L’A.L. tradisce inesorabilmente l’obiettivo della Chiesa di adeguarsi al  programma eversivo imposto all’Occidente e si afferma a pieno titolo quel modo nuovo di  intendere l’inculturazione che è in voga da qualche decennio a questa parte. Infatti essa è passata dal significato originario di utile adattamento del Vangelo ad usi e costumi locali, cioè alle culture intese in senso geografico, ad essere invocata  come necessario adeguamento alla cultura  moderna,  e di questo adeguamento l’A.L. viene ora ad offrirci  il decalogo.

Il passaggio  ulteriore sarà quello di fare propria la visione escatologica  dell’ultimo ministro/a della pubblica istruzione inflittoci dalla sorte, che oltre ad altre qualità esibite in passato si produce ora nella esibizione di idee forti, come quella secondo la quale presto alla famiglia sarà sostituito felicemente l’individuo isolato e autoreggente, che risponde in tutto ai nuovi modelli di sviluppo.

Dunque,  In attesa che si avveri la profezia ministeriale, Bergoglio aggiorna, secondo il linguaggio nuovo caro all’arcivescovo di Vienna, la rubrica della famiglia dalla quale va depennata appunto, in primo luogo, la imbarazzante  “famiglia tradizionale”, detta pure con espressione colta “del Mulino Bianco”, dove alberga  la violenza associata per prassi stilistica al sempre esecrabile autoritarismo. Un quadro dal quale di affaccia spontaneamente e sporge il capo, l’amore disinteressato per eccellenza, egualitario, libero, votato alla felicità, e iniquamente discriminato, cioè “l’amore omosessuale”, che va a fondare tante variegate famiglie mono bi o pluriparentali, ed è decantato in un libro che va a ruba nelle diocesi del triveneto,  prossima idea regalo natalizio per tutti…

Seguono pagine di moralismo vario che assume spesso sfumature di involontaria comicità… ne parleremo nella terza parte.


Terza parte




Abbiamo chiuso la seconda parte di questo studio sulla AL con la frase: “Seguono pagine di moralismo vario che assume spesso sfumature di involontaria comicità”. Vediamole, partendo n. 78 in cui si raccomanda la cura pastorale verso quelli che convivono, in quanto “emarginati”.  Sulla emarginazione di costoro si tornerà infatti al n. 212, quando verrà approfondito il tema cruciale, già affrontato dal Sinodo, del prezzo dei festeggiamenti nuziali che impedisce alle coppie di fatto di diventare coppie di diritto. L’ emarginazione,  colpisce come è noto anche le convivenze “alternative” in stile Charasma, alle quali tuttavia pare non mancare almeno la dovuta cura pastorale vaticana.

In mezzo ad una  lunga fornitura di norme di buona educazione ad usum delphini, si possono ora trovare  profonde riflessioni sull’amore come quella del n.101, che citiamo a campione: “per amare gli altri occorre amare se stessi”, pensiero vintage di moda già ai tempi del ginnasio, e che fa il paio con l’altra del 107: “per perdonare gli altri dobbiamo perdonare noi stessi”.
Dopo altre cose dello stesso tipo in stile Alberoni prima maniera, sempre piuttosto imbarazzanti, si approda all’amore previo di Dio, che “offrendo sempre una nuova opportunità” esenta dalla osservanza di qualunque regola. È l’eterno ritorno di quel bel pensiero centrale di matrice luterana, che aiuta a spiegare (n. 111) il “dinamismo controculturale dell’amore” che tutto  scusa: l’ambiguità sintattica tra ciò che per amore viene scusato e ciò che per amore deve essere scusato, previa  chiamata in garanzia dell’incolpevole San Paolo, può riportare bene l’attenzione sulla inesistenza di una legge assoluta obbligante per tutti e sulla sua necessaria sostituzione con quella buona per tutti gli usi, dell’amore. Naturalmente, il tema che è il leit motiv predisposto a tutta l’opera, sarà ripreso nella sostanza nei fatidici finali numeri 304, 305.

Ma  intanto nei paragrafi  successivi sale di intensità il tono di un sofferto lirismo profetico col quale viene cucinato un grande polpettone di psicologismo da parrucchiere, insieme alle più svariate banalità del progressismo autistico, fino alla celebrazione sadicamente ripetitiva dell’eros quale essenza stessa della unione matrimoniale nella forma del dono.

Si entra cioè in pieno nello spazio riservato all’erotismo, eletto a condizione essenziale dello stesso istituto matrimoniale. Sul registro  sentimentale femminile dell’amore donato con l’offerta di sé, viene innestato stabilmente l’elemento erotico, già cantato da Charamsa davanti al  proprio oggetto del desiderio in una indimenticabile conferenza stampa vaticana. Insomma, quello che gli spagnoli chiamano el amor brujo. E di desiderio immagato questo esaltante testo parla per interi estenuanti paragrafi, perché l’eros tutto scusa, tutto spera, tutto si aspetta … La sezione porta addirittura il titolo, forse inedito per un documento pontificio, “AMORE APPASSIONATO”,  e subito si precisa, nientemeno, che un amore senza piacere né passione, non è sufficiente a “simboleggiare l’unione del cuore umano con Dio”. A scorno di quel trovatore che amò perdutamente la dama che non aveva mai veduta di persona.

Tuttavia dopo digressioni varie su istinti ed emotività, si approda a questa interessante teorizzazione: “bisogna avere la libertà per accettare che il piacere trovi altre forme di espressione (?) nei diversi momenti della vita, secondo le necessità del reciproco amore”, per cui bisogna, sulla scia dei maestri orientali, “non rimanere prigionieri di un’esperienza molto limitata che ci chiuderebbe le prospettive” in vista della dilatazione del desiderio… il testo appare chiaro e quindi non richiede commenti di sorta. Ma è evidente che in caso di dubbio potremo ricorrere alla autorità di Renato Zero, noto cultore di allargamenti della coscienza e dilatazioni  del desiderio…

Al n.150 leggiamo che “l’erotismo più sano, sebbene sia unito ad una ricerca di piacere, presuppone lo stupore (!) e perciò può umanizzare gli impulsi”, mentre il n. 157 è tutto concentrato di nuovo su sessualità ed erotismo. Non manca però un excursus sulle deviazioni sessuali che onestamente devono essere riconosciute come tali, ci mancherebbe! Ma poi con il colpo di reni col quale uno si solleva dall’acqua per issarsi all’asciutto sul pattino, l’autore subito corregge il tiro affermando che “tuttavia il rifiuto delle distorsioni della sessualità e dell’erotismo non dovrebbe mai condurci a disprezzarli o trascurarli” (sessualità ed erotismo, beninteso). Insomma, guai a buttare via il bambino con l’acqua sporca, sennò va a finire che si torna alla sessuofobia e di lì alla promozione della castità il passo è breve.

Ma oramai il discorso ha preso di nuovo quota e dopo un ennesimo ritorno sulla donazione gratuita, auspicabile forse anche nel libero mercato dell’amore esentasse, arriva la giusta rivendicazione del diritto al soddisfacimento delle  proprie necessità. Infatti avverte ancora l’autore,  “ognuno non può solo donare, deve anche ricevere”, perché “bisogna ricordare che l’equilibrio umano è fragile”, cioè la carne è debole e non di solo pane vive l’uomo, come  pure la donna. Insomma, ci vanno di mezzo l’equilibrio e anche la giustizia distributiva; e questo si che è parlare chiaro, altro che il si si no no del precettino evangelico.

Insomma, se hai dato generosamente qualche soddisfazione sessuale al partner è giusto che tu abbia in cambio il tantundem eiusdem generis et qualitatis, come dicono i legulei. E una volta poste le premesse, occorre tirare anche le estreme conseguenze: l’autore guarda lontano, anzi guarda l’orologio della vita, visto che il tempo è superiore allo spazio, e si rende conto che quando uno degli oggetti del desiderio invecchia in costanza di matrimonio, e non è più in grado di soddisfare le necessità erotiche dell’amato/a, questo/a , forte delle proprie esigenze insoddisfatte, a buon diritto finisce per soddisfarle altrove.

Pare che questo paragrafo sia stato letto con sollievo anche dalle parti di Alleanza Cattolica. Anche se non è il caso di riportare per esteso una famosa storiella sui rapporti matematici che regolano le tardive relazioni extraconiugali, è il caso di ricordare a Charamsa che forse anche lui  ha fatto i conti senza l’oste, e non ha considerato che il tempo è superiore allo spazio.

In mezzo a tante aperture di credito anche all’eros extramatrimoniale, troviamo una sezione apposita che porta il titolo “FECONDITA’ ALLARGATA” e che viene subito spiegata al n. 178 secondo l’insegnamento di Aparecida 2007, richiamato in nota: “la maternità non è una realtà esclusivamente biologica”. Naturalmente Il pensiero corre commosso alla maternità di Niki Vendola e a quella di Elton John, esempi accertati di maternità non biologica.

Il tema delle corna verrà ripreso e completato nella parte dedicata alle crisi della famiglia e in particolare al numero 237 dove si fa riferimento esplicito “alla attrazione per un’altra persona” che, per un cattivo impiego  della sintassi, al numero 238 sembra diventare  il “nuovo compagno di strada”, oggetto di “una scelta matura”. Ma questi sono solo gli scherzi giocati dall’uso disinvolto del linguaggio nuovo alla portata di tutte le borse, che piace all’arcivescovo di Vienna.

Se poi le corna fanno male a chi le porta, non è detto che esse non dipendano da un’antica sofferenza da parte di chi le conferisce. Infatti al n. 239 si concede che le corna possano essere il frutto ritardato di frustrazioni precoci, quelle che invero sembravano un po’ dimenticate e delle quali finalmente si torna a parlare. Gli abbandonati, per qualunque causa, psicologica o meno, originaria o avventizia, devono essere “accompagnati”, e devono essere rese più accessibili le procedure per le cause di nullità. Insomma, se costoro sono proprio inconsolabili, meglio curarli con i più aggiornati  rimedi  offerti dalla Chiesa.

Per ricapitolare, vuoi perché la carne è comunque debole, vuoi perché il tempo è superiore allo spazio, se viene meno l’attrazione sessuale non ci sono buoni motivi per mantenere in piedi il vincolo matrimoniale, e il robusto realismo iberico piemontese surclassa persino quello dei pur pragmatici romani che giustificavano pudicamente il divorzio informale col venir meno della maritalis affectio.

A questo punto, dopo tanto girare intorno all’eros che da solo giustifica e regge il matrimonio, si approda felicemente e liberamente all’amore omosessuale, ai cui cultori devono essere forniti “gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita” (250).  In attesa che la Chiesa presenti il proprio  programma dettagliato di aiuti, come sappiamo il parlamento ha già provveduto a formulare il proprio e soprattutto ad accogliere il principio bergogliano per cui è l’amore che fa il matrimonio.

Invece per quanto riguarda la piena comprensione della volontà di Dio in materia, possiamo solo auspicare un prossimo sinodo presieduto da Fausto Bertinotti che, folgorato sulla via di Damasco, ha già cominciato ad evangelizzare le genti con la lettura pubblica itinerante della “laudato sì’” e nei lucidi intervalli sta scrivendo la prima lettera ai cagliaritani, gente rude, e, pare, ancora refrattaria alle novità continentali.

Sempre in vista di un ulteriore approfondimento del tema, non  manca a questo punto uno sguardo amorevole alle famiglie monoparentali che hanno origine spesso da madri e padri “biologici” (n.252).  Dei padri e madri non biologici non è dato sapere, perché qui la prosa bergogliana si tace.

Dopo nuove lezioni di bon ton famigliare, e una nuova impennata speculativa nientemeno che sul tema della  libertà, ecco finalmente il colpo d’ala (267): “la dignità umana esige che ognuno agisca secondo scelte consapevoli e libere”,  “mosso cioè e determinato da forti convinzioni personali”. Dove appare chiaro che siano bastate le forti convinzioni personali a fornire dignità alla signorina Ciccone in arte Madonna come a Jack lo squartatore, a Monica Cirinnà che per “portarle avanti”,  giura sui propri cani, come a Niki Vendola,  per non parlare del fu Mario Mieli. Anche Pol Pot ebbe forti convinzioni personali, ma il libero pensatore per eccellenza è, bisogna riconoscerlo, proprio Jorge Mario Bergoglio, che le ha tanto personali le idee da poterle mettere in contraddizione con tutta la dottrina cattolica. Un lusso che neppure Bonifacio VIII si concesse e che pure per molto meno fu infilato prematuramente nella fossa infernale in una posizione scomodissima  dal nostro stizzoso Poeta.

Tuttavia  si vola alto per poco, perché  nel frattempo, è stato aperto il capitolo sulla  educazione, che,  dopo un’altra dose di pedagogia alla portata di tutte le teste, approda finalmente col n. 280 ad un categorico  “Si all’educazione sessuale”. La lodata novità del linguaggio  risulta comprovata, la sua suggestiva icasticità pure.

Che cosa significhi e a che cosa miri l’educazione sessuale sottratta manu militari alla famiglia, e affidata all’esercito degli operatori psico-sanitari di regime, perché avviino il fanciulli alla pornografia omosessista passando per l’abbattimento degli “stereotipi di genere”, non lo sa soltanto l’autore della A.L. Oppure lo sa benissimo, come vedremo subito.

Infatti dopo alcune generose raccomandazioni circa il rispetto del  pudore dei fanciulli, contro gli eccessi educativi a proposito del “sesso sicuro”, e sulla serietà da impiegare in genere nella  trattazione della delicata materia, arriva la botta al cerchio che va in senso contrario a quella data qualche pagina addietro alla botte. Infatti, se è vero che al n. 56 si era condannato il gender (che nonostante le smentite della Giannini, pare dunque tornato ad esistere per disposizione pontificia), qui si dice in scioltezza che “maschile e femminile non sono qualcosa di rigido”. Per chiunque abbia orecchiato la grammatica perversa con cui è stata messa in campo nei programmi scolastici l’idea del sesso fluido e manipolabile a piacimento secondo libertà, la proposizione appare di una chiarezza insuperabile. Ed è anche noto come l’idea demenziale venga fatta passare per quella che serve a liberare l’uno o l’altro sesso dagli “stereotipi di genere”.
Questi, vale ricordarlo ancora una volta, secondo la vulgata progressista e, come abbiamo visto sopra, ora anche vaticana, inchioderebbero soprattutto le donne agli asfittici ruoli legati alla maternità e alla conduzione famigliare.  E’ evidente come qui entri in funzione ancora una volta il  gioco di prestigio, che serve ad accomunare attraverso una stupefacente falsificazione della realtà, una fantomatica “discriminazione” ai danni  della donna occidentale (!), e quella altrettanto immaginaria degli omosessuali, in modo da fare rientrare fantasiosamente entrambe le categorie nella logica della lotta di classe. Su questo stesso tranello linguistico e concettuale le associazioni lgbt consustanziali al governo hanno costruito il loro potere e hanno imbastito i programmi educativi della buona scuola renziana, imposti  come obbligatori. Ora la cancelleria vaticana vi omologa ufficialmente l’educazione cattolica e si appresta a propinarla a tante famiglie ancora ignare di questa manovra avvolgente. Le stesse famiglie hanno addirittura il compito di costituirsi come soggetto “dell’azione pastorale” (n. 290)   … attraverso “l’apertura alla diversità delle persone”. Lgbt. Uber alles.

Dunque anche sul fronte educativo un dogma costruito dalla politica diventa criterio di comportamento morale munito del sigillo pontificio, in omaggio alla nuova inculturazione. Gli autori di questa truffa epocale, insieme ai complici e alle vittime ignare, aprono le  porte di tutte le scuole ai nuovi predicatori esperti di c.d. “scienze” psicopedagogiche, e immancabilmente iscritti nel libro mastro del progressismo, dei diritti, delle libertà di cui è tenutaria la nota signora che abita a Bruxelles.

A ritmo di tango la “misericordia immeritata, incondizionata e gratuita” (297) di cui si era autoinsignito Lutero conduce  trionfalmente alla  consacrazione ufficiale della morale di situazione.

Conclusioni e ricapitolazione

Con i paragrafi 304 e 305 si chiude virtualmente il cerchio in cui vengono stritolate morale e dottrina cattoliche, passando per matrimonio e famiglia o prendendo essi a pretesto, con buona pace di chi, avendo letto poco o nulla di questo inquietante manifesto della ideologia bergogliana, lo va proponendo a destra e a manca come la rassicurante ciambella di salvataggio per una società in crisi e per tanti spiriti dubbiosi. Vale solo la pena di osservare come qui venga persino esibito San Tommaso, che viene estratto dal cappello per attribuirgli, con goliardica impudenza, il pregio di essere il precursore della  nuova teologia vaticana incentrata sulla cancellazione proprio di quella teologia della legge naturale divina di cui è considerato il principale esponente. E viene da pensare che gli estensori dell’A.L. riuniti  intorno al tavolo per cesellarne  i particolari si siano anche divertiti non poco, proprio come ci si diverte a confezionare un irridente papiro di laurea.

Qualche attenzione merita anche la estesa bibliografia che può essere definita, con una parola cara a Bergoglio, “autoreferenziale”, dal momento che per massima parte l’autore attinge alla propria  “produzione”, ricorrendo cioè all’autorità di se stesso.  Non manca però, sempre in evidente chiave goliardica, anche una innocua citazione  di Roberto Bellarmino, oltre a quelle dell’Aquinate forse esibite anche ad pompam.

Ora, la carrellata fatta qui non ha ovviamente la pretesa di esaurire tutte le pieghe in cui si insinuano i venti di dottrina che spirano dalle parti di Santa Marta. Un capitolo a sé andrebbe dedicato ad esempio, a quello che, oltre a quanto si può trovare nel testo, dal testo manca invece vistosamente o viene liquidato in poche righe destinate a scomparire nelle nubi dense delle parole inutili. Infatti se il tema della famiglia interseca necessariamente quello della creazione e quindi i fondamenti stessi della fede, non si vede come mai si sia tirata in ballo l’emigrazione nei termini che abbiamo visto, e sia stato dedicato all’aborto soltanto un cenno fuggevole.  Segno che lì si è ritenuto di poter occupare impunemente un terreno politico favorevole, mentre qui viene abbandonato in balia della peggiore ideologia politica anarcoide e nichilista proprio quel principio di indisponibilità della vita umana, di cui chiunque volesse esercitare degnamente il proprio servizio sacerdotale, dovrebbe essere lo strenuo difensore. Il discorso vale a maggior ragione per la questione capitale della fabbricazione dell’uomo in laboratorio, che viene liquidata anch’essa con poche righe di circostanza laddove avrebbe dovuto occupare lo spazio riservato all’eros e dintorni.
Ma la ragione di queste omissioni sta evidentemente  nel disprezzo per lo stesso  principio della creazione, perché la nuova chiesa non crede al Dio di Gesù Cristo ma ad un dio generico a basso costo spirituale da usare all’occorrenza in funzione  meramente rappresentativa. Non è il Dio della fede, ma neppure quello dei filosofi, che pure risponde ad esigenze di ragione. Non per nulla in esordio (n. 6) l’autore ha scritto: “comincerò con un’apertura ispirata alle Scritture che conferisca un tono adeguato”. Cioè la Scrittura non è il punto di partenza obbligato, non è l’ “alfa e l’omega” della famiglia, ma un elemento che viene incontro ad esigenze di adeguatezza stilistica, di arredamento, quello che serve a creare l’ambientazione giusta.

Come si diceva all’inizio, la esortazione postsinodale era già scritta nel suo nucleo propositivo ben prima che il sinodo le fosse allestito intorno come si costruisce la coreografia sul copione di una commedia. Non c’era un canovaccio che consentisse libere interpretazioni. Il lancio pubblicitario doveva attirare l‘attenzione del pubblico che per suggestione e soggezione avrebbe applaudito in ogni caso, tanto per giustificare il costo del biglietto, anche qualora non avesse capito granché della trama e gli fosse sfuggito il senso di tante battute.  Ma alla fine tornano utili ancora due osservazioni su questo marchingegno in cui forma e contenuto si compenetrano perfettamente secondo il noto canone della estetica crociana.

Quale sia lo spirito che ha animato il suo autore principale appare senza veli in quella immagine dei precetti evangelici che sono “pietre scagliate contro le persone”. In questa similitudine si dice in modo stupefacente, non solo che le norme morali vanno abbandonate per fare spazio a quella coscienza che equivale alla libertà di comportarsi come piace, ma addirittura che le leggi evangeliche sono un male perché fanno male, affliggono sadicamente gli uomini. La bestemmia contro Dio è formalizzata e pubblicata, dopo che la Sua legge è stata da tempo disattivata con l’arma impropria della  misericordia, buona per fare piazza pulita di verità e giudizio, di legge morale e principio di creazione, di tutto quello che da sempre è al servizio dell’uomo.

Un ultimo breve cenno a parte merita poi la laboriosa costruzione del documento secondo una studiatissima logica di Marketing. Le proposizioni salienti e le intenzioni che le dirigono sono tutte immerse in dense nubi di parole a buon mercato, che suonano bene a qualunque orecchio e danno al tutto quel tono apparentemente dimesso, quella banalità soffusa, che mettendo a proprio agio chiunque, lo solleva dalla fatica di pensare e dalle ansie dell’abbandono.  Ma nell’A.L. c’è anche una varietà di “stili”, preannunciata con soddisfazione nel prologo del documento, che in realtà dimostra la suddivisione dei compiti fra i diversi collaboratori incaricati, chi di soddisfare qualche esigenza culturale residua, anche di forma, del mondo cattolico (vedasi citazioni greche traslitterate che contrastano vistosamente con un lessico demagogicamente sciatto), chi di accontentare gli “operatori pastorali” fornendo loro le necessarie formule d’uso, chi di traghettare il gregge bendato dentro i nuovi pascoli, e di  fustigare a sangue i recalcitranti. Una pluralità di stili e insieme una  pluralità  studiata di proposizioni contraddittorie, che dimostrano ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, la funzione strategica di un documento al servizio di un freddo, ben calcolato, e irrinunciabile piano di guerra in vista della agognata e definitiva demolizione del cattolicesimo.

Insomma c’è del metodo in questa follia, e in questo metodo c’è ben più della follia.





maggio 2016

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