Femminilità e femminismo


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Quando si assiste, oggi, alla deriva moderna dello sfascio della famiglia e della società, quando si vedono gli uomini e le donne in piazza che al rullo di tamburi chiedono il rispetto di ogni supposto diritto, quando si vedono interminabili convegni che vogliono spiegare che le donne sono uguali agli uomini o viceversa, quando si vedono i religiosi e le religiose che inseguono questa deriva cercando affannosamente nei testi scritturali un minimo di appiglio per portare avanti i falsi ideali di questo mondo, la cosa che salta all’occhio è che si è perso il senso della realtà vera: tutto fa riferimento ad una realtà supposta, ad una realtà teorica e inesistente, non si riflette su ciò che il mondo è, ma su ciò che si vorrebbe fosse. I risultati sono catastrofici, poiché ci si avvita in un vortice di illusioni e di errori che come in un gorgo risucchia nell’inumano.

Uno degli elementi illusori che oggi va per la maggiore è la supposta parità fra l’uomo e la donna, da cui scaturiscono la distruzione della famiglia e l’aberrazione della società, che a loro volta producono ogni sorta di sovvertimento della realtà.

Diciamo subito che quando parliamo di “realtà” abbiamo in vista la “realtà intrinseca” dei due sessi e dei loro ruoli, che cerchiamo sempre di confrontare con la coscienza contingente che di essa hanno gli uomini e le donne del nostro tempo; avendo cura di non confondere la seconda, che possiamo chiamare “realtà illusoria”, con la prima.
Dal momento che siamo cattolici, la nostra cognizione della “realtà intrinseca” in oggetto si basa sui testi scritturali e non certo sulle disquisizioni socio-antropologiche dei “ricercatori” moderni. Per quanto riguarda invece le vedute moderne ci atteniamo ai dati forniti dalla vita quotidiana, appoggiandoci alle convinzioni ed ai comportamenti della cosiddetta “opinione pubblica”.

Incominciamo ad esaminare questo secondo fattore.

In linea di massima si può dire che il mondo di oggi fonda la sua esistenza sulla necessità di risolvere i problemi immediati, di dare risposte alle esigenze più o meno spicciole della gente, utilizzando una struttura sociale che ha come finalità la mera sopravvivenza, sia pure una sopravvivenza supposta sempre più ricca ed “appagante”. Ogni altro interesse sembra essere assente, poiché, anche quando si discute di problemi che sembrerebbero essere relativi all’“etica”, se ne discute avendo primariamente in vista la cosiddetta “convivenza”, la quale oggigiorno non è altro che la sopravvivenza in comune.
Le aspirazioni di ordine spirituale, il senso profondo della vita, della sua origine, della sua fine e del suo fine, l’aspettativa per ciò che ci sarà dopo la morte… sono tutte cose relegate in ambiti talmente ristretti che si finisce per considerarle come “articoli di lusso”, non solo lasciate agli “hobbisti” del ramo, ma reputate inutili a fronte della “realtà della vita”.

In questo contesto “culturale” (dove in realtà c’è poco di coltivato), che l’uomo e la donna svolgano un loro preciso ruolo, strettamente connesso con la loro natura, importa molto poco, visto che in un modo o nell’altro riescono comunque a sopravvivere.
Se poi si considera che la pratica della sopravvivenza si regge sullo svolgimento di compiti del tutto indifferenziati, sia nella vita sociale, sia nell’ambito della famiglia, si comprende benissimo che i ruoli specifici dell’uomo e della donna non possano interessare che in maniera minimale; semmai, del tutto coerentemente, si cercano di superare tutti i rimasugli delle vecchie strutture etico-sociali, ridotte ormai a delle vere “superstizioni”, sia perché limitative rispetto alla realtà odierna, sia perché appaiono, agli occhi dei moderni, del tutto infondate.

Questi elementi, peraltro, sono strettamente legati ad una tendenza che finalmente ha finito col trovare una corposa consistenza: quella che mira alla indifferenziazione dei sessi, sia dal punto di vista sociale, sia dal punto di vista personale. Tanto più che ad essa si associano fenomeni oggettivamente cospicui, come, per esempio, la relativizzazione della eterosessualità, l’aumento della sterilità femminile e della impotenza maschile, la sempre crescente tendenza all’autodistruzione a vantaggio del godimento temporaneo, ecc. Mentre, come è logico e prevedibile, si amplia sempre di più l’attaccamento alla vita, prevalentemente basato sul timore della perdita dei godimenti futuri, e si accelera il processo di sviluppo delle tecniche che si ritengono adatte a ritardare il momento della morte. Si instaura così un circolo vizioso nel quale la ricerca del godimento diventa sempre più urgente ed intensa e porta al parossismo della vita per la vita, comunque sia: storpi, muti, ciechi, sordi, belli, brutti, maschi, femmine, asessuati, imbecilli, geni…, tutto è normale, tutto è omologo, purché si viva, purché si viva al meglio delle possibilità, purché ci si senta vivi.
Salvo arrabbiarsi quando qualcosa impedisce l’agognata realizzazione di desideri e aspettative.

Il ruolo dell’uomo… il ruolo della donna… i ruoli dell’uomo e della donna in relazione alle loro rispettive qualificazioni intrinseche… le loro funzioni connesse con le loro naturali differenze psico-fisiche…, la loro solidale proiezione verso la realtà superiore, tutto questo non può certo avere che un’importanza relativa; non solo, ma, di fatto, non ha in fondo alcun senso pratico. Tanto che la moderna ricerca scientifica tende, logicamente, all’annullamento della differenziazione dei sessi: sia intervenendo chirurgicamente, sia riducendo al minimo l’intervento femminile, sia tendendo finalmente al superamento del processo riproduttivo naturale. La mèta è l’eliminazione della donna e dell’uomo come fattori riproduttivi e, quindi, come elementi complementari e solidali che fondano ordinatamente tutta l’esistenza. Per questo ci penserà la scienza. Al massimo, si può ancora tenere in piedi la piacevolezza dei rapporti sessuali…, tenuto conto però che “ormai” anche per questo non si deve necessariamente ricorrere all’insieme obsoleto uomo-donna: le variabili sono molteplici…

Un aspetto su cui è importante soffermarsi, perché paradigmatico della situazione complessiva, è quello della supposta inter-scambiabilità dei ruoli: che in termini spiccioli viene intesa come la possibilità che le attività pubbliche e private di qualsiasi genere possano essere svolte indifferentemente sia da un uomo sia da una donna.
In effetti si tratta di una reale possibilità, del tutto coerente con il tipo di civiltà in cui viviamo, possibilità che oggi, in Occidente, è divenuta una tangibile realtà apprezzata in termini del tutto positivi. Tale sopraggiunta realtà non ha fondamento nella natura differenziata dell’uomo e della donna, quindi la sua esistenza deve basarsi su una distorsione di questo stato di natura.
A ben riflettere, una civiltà come la nostra ha molta più rispondenza con la “femminilità” che con la “mascolinità”; e per quanto possa sembrare paradossale a certuni, la pretesa del “femminismo” a prevalere su quello che viene chiamato impropriamente “maschilismo” (dei due, il solo “ismo” inteso con una forte coloritura dispregiativa) si presenta in maniera coerente e, a suo modo, giustificata.
Il mondo moderno, essendosi votato al culto quasi esclusivo del “vitalismo”, è come se avesse scelto di esistere, se così si può dire, in funzione del solo substrato “naturale” del creato. Posto che il creato, dal punto di vista della comprensione umana, è fondato sulla interazione fra la “natura naturante” e la “natura naturata”, la visione del mondo moderno ha finito col limitarsi solo alla seconda, misconoscendo la prima. Ora, dal momento che la “natura naturata” è quella che ha la valenza femminile, ne deriva, e ne può solo derivare, che nel mondo moderno tale valenza debba necessariamente avere la preminenza.
Intendiamoci, una cosa del genere non si regge su niente di legittimo e di veramente reale, e tuttavia è pur sempre una cosa possibile e sperimentabile, sia pure nei limiti di un contesto disordinato e, come tale, illusorio e provvisorio.
La sua possibilità e la sua sperimentabilità sono quelle che fondano la percezione moderna della cosa stessa: così che si scambia una realtà illusoria per la realtà vera.

Comunque sia, soprattutto dal punto di vista della visione moderna del mondo, le cose stanno in questo modo: tanto che si può dire che la nostra è una civiltà che tende, anche in maniera inconsapevole, ad esistere al “femminile”.
Ne consegue che, non solo si deve parlare di “parità” tra i due sessi, ma è ancora più logico e più coerente considerare che debba essere il “femminile” ad informare di sé entrambi i sessi.
Per chi pensasse che queste nostre considerazioni siano forzate e tendenziose, ricordiamo che, ormai da alcuni lustri, non solo l’idea della ipotetica “parità” ha definitivamente trionfato a dispetto della logica più elementare, ma i comportamenti e le concezioni di quelli che si presentano ancora come “maschi” sono ormai connotati da quelle valenze che fino a qualche tempo fa erano esclusivo patrimonio delle “femmine”: il piacere come discriminante delle scelte, la bellezza apparente come fattore di socialità, il sensazionalismo come sentimento percettivo degli accadimenti, il giovanilismo come misura del controllo di sé, la puerilità come paradigma dell’innocenza, la corporalità come elemento prioritario dell’esistenza, il ridimensionamento dell’intellettualità a favore della sensibilità, la sopravvalutazione della psichicità e la subordinazione ad essa della razionalità, ecc.
Elemento esplicativo dell’affermazione di questa tendenza è la libera e poco contrastata diffusione di quella strana concezione che pretenderebbe di dare perfino a Dio una connotazione “femminile”: così che siamo giunti, per ora, ad ammettere che Dio è più madre che Padre, perché si ritiene che l'amore di Dio per le creature sia più simile all’amore della madre per i figli, piuttosto che all’amore del Padre.
Per concludere possiamo dire che, non solo la parità dei sessi e la conseguente interscambiabilità dei ruoli sono oggi un fatto compiuto, da cui non si può più prescindere e con i quali bisogna fare i conti, ma tra poco occorrerà anche prendere atto della prevalenza del “femminile”, tale che si passerà dalla interscambiabilità alla unificazione dei ruoli: un solo ruolo femmineo basato su una concezione distorta della femminilità.

Ora, un fatto compiuto è per ciò stesso legittimo? La constatazione giocoforza di un fatto compiuto deve obbligatoriamente comportare l’ammissione della sua legittimità?
Per rispondere a queste domande dobbiamo rivolgerci agli insegnamenti tradizionali, più o meno interamente esposti nelle Scritture.

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Tralasciamo, per vari motivi, i testi del Vecchio Testamento, e limitiamoci a considerare quanto insegnato da San Paolo. Egli ricorda che la donna deve stare sottomessa all’uomo, come al suo capo, al pari dell’uomo che deve stare sottomesso al Signore, che è il suo capo, mentre il capo di Cristo è Dio. Ella deve stare sottomessa all’uomo come la Chiesa sta sottomessa a Cristo: da qui l’amore dell’uomo per la sua donna, a imitazione dell’amore di Cristo per la sua Chiesa.
Perché? Perché, dice San Paolo, non fu l’uomo ad essere creato per la donna, ma la donna per l’uomo; e non fu l’uomo ad essere ingannato, ma la donna a trasgredire: così che l’uomo mostri il segno della sua dipendenza dal Cristo, col capo scoperto, perché egli è gloria di Dio, e la donna mostri il segno della sua dipendenza dall’uomo, coprendosi il capo, perché ella è gloria dell’uomo.
Tuttavia, ricorda San Paolo, nel Signore né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna; come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio.

Se ci si sforza di mettere da parte i pregiudizi moderni che affollano la mente circa la natura, la funzione e il ruolo dell’uomo e della donna, si comprende, innanzi tutto, come i richiami di San Paolo sull’argomento debbano necessariamente essere fondati sulla sana dottrina (I Corinti, 15, 37-38; Tito, 2, 1-10), e non si può pensare che San Paolo desse delle indicazioni “contingenti” e relativamente valide, senza tenere conto del valore dottrinale delle sue affermazioni. Sarebbe come dire che San Paolo in certi casi esprimesse concetti personali e vincolati a particolari circostanze, avulsi dalla sana dottrina, ad uso esclusivo di Tizio o di Caio, di quel gruppo o di quell’altro. Se così fosse, nulla impedirebbe di pensare altrettanto di tutta la dottrina paolina, e si dovrebbe quindi ritenere che la Chiesa abbia sempre sbagliato nell’inserire i testi di San Paolo nei Canoni e nel mantenerveli per duemila anni.
Ovviamente non possiamo tenere in alcun conto certe pretese tutte moderne circa l’artificiosa importanza di una rilettura adeguata al procedere del tempo. Non che, per certi aspetti, la cosa non possa essere possibile e legittima, ma poiché, come tutti sanno, la moderna “rilettura” dei testi canonici, Vangeli compresi, corrisponde solo al travisamento della dottrina, essendo mossa dal pregiudizio progressista ed evoluzionista.

Fermo restando, quindi, che i testi di San Paolo sono chiarissimi circa il senso dei due sessi e i loro rispettivi ruoli, dobbiamo dire che non è tanto la “lettera” che deve contare, quanto piuttosto lo “spirito”, poiché lo spirito della dottrina è la parte immutabile di essa, mentre la lettera è la parte soggetta al mutare del tempo e dello spazio. La lettera della dottrina non è altro che la sua espressione contingente, la quale si adatta alla contingente comprensione umana, traendo dalla stessa immutabilità dello spirito la sua possibilità di adattamento. Se, quindi, certe espressioni, certe forme e certe manifestazioni esterne, possono legittimamente mutare da tempo a tempo e da luogo a luogo, ciò non significherà mai che sia mutata la dottrina; anzi, gli stessi mutamenti si possono riconoscere legittimi solo quando continuino ad esprimere sempre la stessa ed unica sana dottrina.

Ciò detto, cerchiamo di capire perché la donna dev’essere sottoposta all’uomo e come questo possa essere inteso oggigiorno.
Il punto centrale dell’insegnamento di San Paolo è il rapporto gerarchico che esiste fra Dio e l’uomo, fra il Creatore e la creatura. Questo rapporto gerarchico, incomprensibile a quel livello, se non come totale dipendenza logica e ontologica, si riflette su tutti i livelli dell’esistenza; se così non fosse, non si potrebbe parlare di possibilità di collegamento “organico” con Dio. Ecco perché giustamente San Paolo ricorda che il capo di Cristo è Dio: perché in questo modo sottolinea il senso di questa dipendenza gerarchica, la quale serve a condurre tutto all’Unico Mediatore che è il Cristo.
Questo rapporto gerarchico per mezzo del quale ogni cosa ha la possibilità di ricondursi a Dio, ha delle precise connotazioni, che si possono cogliere nell’insegnamento della Genesi (2, 7 e 3, 20). Da Dio l’uomo è detto Adamo, il sussistente in terra, la diretta emanazione dello Spirito di Dio, fatto a Sua immagine e somiglianza; la donna viene chiamata dall’uomo Eva, la vivente, la prima emanazione indiretta dello Spirito di Dio, tratta da una costola di Adamo. Così che l’uomo, Adamo, non è ancora neanche un “vivente”, perché la “vivente” Dio la trae da Adamo, tramite la quale quest’ultimo potrà “moltiplicarsi”, al pari di Eva che si “moltiplicherà” anch’ella continuando ad attingere da Adamo.

Non v’è alcun dubbio che in questo giuoco della parti, Dio assegni a ciascuno dei due una specifica funzione, ad Adamo quella prioritaria di mantenersi “nello Spirito di Dio” e quella subordinata di mantenervi per suo tramite la sua progenie, ivi compresa Eva, tratta da lui (Genesi, 2, 15 e 23; 3, 20); ad Eva quella prioritaria di provvedere alla vita della progenie e quella subordinata di mantenere sé stessa e la sua progenie collegata a Dio tramite Adamo (Genesi, 3, 14-20).
Entrambi svolgono una funzione differenziata e gerarchizzata, che però comporta, al tempo stesso, una interdipendenza dei ruoli: così che Adamo vive per sé stesso e in funzione degli altri che gli sono sottoposti, ed Eva vive in funzione degli altri e a sostegno del ruolo di Adamo. Tanto che l’Apostolo possa dire che: nel Signore né l’uomo è senza la donna né la donna senza l’uomo.
Si comprende facilmente come funzioni e ruoli distinti comportino l’impossibilità di qualsivoglia interscambio, mentre insieme compongono un tutto inscindibile che costituisce l’intera esistenza. Peraltro, ruolo e funzione sono tutt’uno con la natura specifica di ognuno dei due.

Altra cosa di facile comprensione è che la chiarezza del rapporto gerarchico fra le funzioni, i ruoli e quindi i sessi, non implica alcuna disparità a fronte della solidale responsabilità dei due nei confronti di Dio; e al tempo stesso stabilisce la imprescindibilità della fedeltà a sé stessi, e quindi alla propria funzione e al proprio ruolo, poiché, diversamente, si determinerebbe un disordine in quel tutto inscindibile di cui dicevamo prima.
Questo significa che non è possibile scorgere alcun elemento di svilimento o di sopravvalutazione in alcuna delle due funzioni: poiché le due sono interamente sé stesse solo quando sono distinte e gerarchizzate.

Ciò detto, resta da chiarire, in termini più elementari, come possa accadere che uno dei due soggetti travalichi dalle sue funzioni e dal suo ruolo. Cosa questa che è del tutto connessa con la deviazione a cui l’uomo è portato “istintivamente” nei confronti dell’armonia disposta da Dio: se così non fosse non si potrebbe parlare neanche di peccato.
In quanto peccatori, l’uomo e la donna sono portati a misconoscere il proprio ruolo e la propria funzione, cioè a misconoscere primariamente sé stessi e il proprio destino, così da determinare una condizione di disordine.
Questa tendenza, però, sottostà anch’essa alla medesima legge della gerarchia, se non altro per il semplice fatto che tale legge, prima ancora di essere formulata in una qualche maniera, come nel caso di San Paolo, è iscritta nel cuore di ognuno dei due soggetti. Dal che deriva che ogni moto disordinato attuato dalla donna trova una prima compensazione nella reazione dell’uomo; mentre ogni moto disordinato attuato dall’uomo implica l’estensione del disordine nei confronti della donna.
È su questi elementi che si basa ogni concezione ordinata della famiglia: così che l’uomo ama la propria donna come il suo stesso corpo; la donna rispetta l’uomo come il suo tramite verso Dio; i figli amano e rispettano il padre e la madre come i rappresentanti della volontà di Dio, sia in funzione della loro nascita, sia in funzione della loro tensione a Dio; i genitori guidano e accudiscono i figli ad imitazione di Dio che guida e accudisce il creato.
Ritroviamo la stessa gerarchizzazione dei rapporti nella famiglia religiosa: la Chiesa, che è Sposa di Cristo, assume un ruolo “femminile” nei di Lui confronti e un ruolo “maschile” nei confronti dei fedeli; così che si ritorna alla medesima strutturazione della famiglia. E non potrebbe non essere così, dal momento che la famiglia umana ha quella struttura per il semplice fatto che si tratta della struttura “imitativa” della grande famiglia umano-divina: il Signore, la Chiesa, i fedeli.
Quando uno dei soggetti umani: il padre, la madre, i figli, perdono il senso del proprio ruolo, il disordine ha già vinto.

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Tornando adesso al problema pratico del rapporto uomo-donna, diciamo subito che quando si dice che la donna è “sottoposta” all’uomo, è evidente che non si intende parlare di una mera sovrapposizione, ma si esprime il concetto che la sua sottomissione a Dio passa attraverso l’uomo; il quale non esercita in proprio questa sua prerogativa, ma solo in quanto vi è delegato e predisposto dalla volontà di Dio. In altri termini, non è l’uomo che si “autoriconosce” la funzione di guida della donna, ma egli adempie semplicemente alla volontà di Dio.
In tal modo sia l’uomo sia la donna, nei confronti di Dio, vivono una pari condizione di subordinazione: così come dev’essere. Salvo la funzione specifica che li caratterizza, non in relazione a Dio, ma in relazione alla loro umanità, e quindi in relazione al creato. In termini “vitali” si può dire che l’uomo è l'“informatore” della vita, mentre la donna è la “fattrice” di questa stessa vita, vita che non appartiene a nessuno dei due, in quanto derivata solo da Dio e nei confronti della quale essi non hanno alcun potere, se non quello che deriva loro dall’essere gli strumenti di Dio.

Ciò detto, si comprende che il misconoscimento da parte della donna del proprio ruolo e di quello dell’uomo, non può avere altra causa immediata che il preventivo misconoscimento del proprio ruolo da parte dell’uomo stesso. Questo però significa che l’uomo ha già misconosciuto il proprio ruolo, non solo nei confronti della donna, ma primariamente nei confronti di Dio. In altri termini l’uomo, giunto a misconoscere il suo ruolo “femminile” nei confronti di Dio, inevitabilmente non è più in grado di esercitare il suo ruolo “maschile” nei confronti della donna.
Da parte sua, la donna, privata del sostegno del ruolo maschile, o è obbligata a sancire il disordine ignorando l’uomo (tentando cioè di oltrepassare il suo ruolo) oppure è portata ad imitare l’uomo misconoscendo anch’essa il proprio ruolo.
In quest’ultimo caso il disordine è totale, perché si ripercuote inevitabilmente sui figli che, non solo crescono nel disordine, ma finiscono col considerarlo come “ordinario”: innescando così un processo dissolutivo con valenze esponenziali.
Tuttavia, dal momento che un certo tipo di richiamo continua a sussistere in forza della legge scritta nel cuore: di fatto si giunge ad una situazione paradossale.

L’uomo, pur non avendo più nozione del senso proprio del suo ruolo, continua a mantenere “istintivamente” la tendenza a guidare la donna, ma avendo invertito la propria polarità, ed essendosi fatto femmina nei confronti della donna, finisce con l’espletare un ruolo fondato sulla mera supremazia umana e individuale. Supremazia che non rientra né nelle sue prerogative, né nella sua natura.
La donna, salvo i casi particolari ed eccezionali, non essendo in grado di sostituirsi all’uomo, poiché non ha in sé stessa gli elementi per farlo, e trovandosi a dover accettare una guida dell’uomo ormai inefficace, finisce col subire un indebito stato di fatto che la conduce al rifiuto della sua condizione. Il mancato riconoscimento della causa vera del problema la induce a considerare ingiustificata, di per sé, la pretesa maschile di guidarla, esigendo un rapporto paritario con l’uomo che non trova fondamento nella sua natura.
Se l’uomo si è “fatto femmina”, è inevitabile che la donna lo consideri alla pari, e da parte sua, l’uomo, ormai dimentico del senso vero del suo ruolo,  non trova niente di strano a riconoscere alla donna la parità presunta, confermando così la perdita della sua consistenza e, anzi, dando ulteriormente corpo allo stato di disordine in cui si trovano entrambi. In tal modo l’uomo dimostra anche di aver totalmente rinunciato ad ogni assunzione di responsabilità, poiché dalla supposta parità con la donna trae giustificazione per l’esercizio indiscriminato del suo egoismo, lasciando colpevolmente che la donna faccia altrettanto.

Tutto questo, tradotto in termini pratici, significa che più l’uomo perde di vista il senso di sé e del suo ruolo, prima nei confronti di Dio e poi nei confronti della donna e dei figli, più la donna, abbandonata a sé stessa, tende a chiudere il ciclo dell’esistenza tornando a confermare il peccato di Eva.
Da notare che un tale circolo vizioso trova piena attuazione nella costituzione del mondo moderno. Se questo mondo è divenuto quasi interamente dimentico di Dio, è perfettamente logico che l’uomo e la donna moderni tendano a vivere in assoluta autonomia vitalistica e in totale parità; una parità derivata non dalla relazione Creatore-creatura, bensì dalla mera constatazione e accettazione del creato come unica realtà. In effetti, dal punto di vista più elementare, la parità di cui tanto si parla è davvero un fatto reale: l'uomo e la donna sono alla pari perché entrambi sono parimenti disancorati dalla propria natura e dal proprio ruolo, entrambi ignorano parimenti Dio; sono come dei naufraghi, tra i quali non v'è più differenza tra il pilota e il marinaio: entrambi lottano parimenti per la sopravvivenza.
Ovviamente questo non giustifica affatto i compiacimenti moderni circa la “raggiunta parità”, se non nei termini in cui ci si volesse compiacere di trovarsi “in fin di vita”, il che è veramente innaturale e paradossale. Di fatto, però, la situazione odierna è questa.

Non stupisce quindi la tendenza tutta moderna che pretende di guardare perfino al mondo animale e vegetale con la stessa concezione “paritaria”, per di più pretendendo di considerare gli animali e le piante come dotati di sensibilità simili a quelle umane. Si passa così da un paradosso all’altro, con l'uomo moderno che pretende di riconoscere ad un cane o ad un albero gli stessi “diritti” che riconosce a sé stesso: non avendo più alcuna nozione reale di sé e del creato, confonde tutte le cose tra loro, basta che si muovano. Il sovvertimento dell’ordine del creato giunge poi fino al parossismo: si pretende di affibbiare al cane sentimenti simili a quelli umani, imponendogli di comportarsi come un uomo e violando così la stessa natura animale, della quale si dimostra, in tal modo, di aver perduta ogni cognizione.
In effetti si scimmiotta la originaria familiarità di Adamo col creato, trascurando un nonnulla: il fatto che Adamo fosse in grado di dare il “nome” a tutte le creature, Eva compresa: così che l’epilogo della vicenda umana assomiglia, in maniera invertita, al suo inizio.

Questa nostra ultima considerazione, in fondo, potrebbe essere il punto di partenza di ogni seria riflessione sul problema che abbiamo trattato, poiché, per quanto possa sembrare strano a prima vista, le cose si comprendono meglio quando le si esamini con un certo distacco, da lontano. Punto di partenza che, peraltro, è comune a diverse riflessioni, come per esempio a quella relativa alla cosiddetta concezione “ecologista”, dove si scambia la mera passione per la natura con il “ritorno” all’originario amore per il creato, la prima figlia della patologica sentimentalità dell’uomo moderno, il secondo strettamente connesso alla conoscenza vera delle creature (Genesi, 2, 19-20).

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Le considerazioni espresse fin qui attengono, ovviamente, all’ordine dei principi; altra cosa è il modo in cui oggi viviamo e pensiamo, il quale ha una sua propria realtà che è necessario prendere nella giusta considerazione, ma questa realtà per poter essere veramente compresa e correttamente valutata deve essere riferita ai principi.
Da qui scaturisce la consapevolezza che le convinzioni moderne e i conseguenti comportamenti individuali e sociali sono informati dal disordine, per ritornare all’ordine bisognerebbe azzerare il mondo moderno. Cosa invero quasi impossibile. Se si pensasse di poter giungere ad una sorta di conciliazione fra gli insegnamenti tradizionali e l’oggettiva condizione della vita moderna, si dovrebbe tenere conto che oggi manca proprio quel minimo di contesto civile atto a far da base ad una tale conciliazione, contesto civile che può solo equivalere ad un mutamento dell’attuale “civiltà”, ma soprattutto si dovrebbe tenere presente che: o la conciliazione scaturisce dal riconoscimento dei principi e dal loro rispetto, tale che si possa parlare di adattamento, o essa finisce col tradursi in una sorta di compromesso, altrettanto disordinato, che non ha alcuna possibilità di risolvere il problema.
Allo stato delle cose, che ricorda per molti versi quanto preannunciato nel Vangelo per i tempi ultimi, ciò che si può fare è prendere atto del fatto compiuto: la donna è uguale all’uomo, l’uomo alla donna, l’uomo e la donna ai figli, il figlio alla madre, la figlia al padre. Tutto è uguale: l’alto e il basso, il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, l’umano e l’animale, ecc. Tenendo presente però che per chi come noi sa che la realtà ha un senso molto più profondo di quanto appaia ai nostri contemporanei, la presa d’atto dell’evidenza non può e non deve corrispondere alla sua condivisione. Occorre invece chiamare ogni cosa col suo vero nome e darle il suo vero posto. Solo così si può uscire dalle suggestioni e dall’inganno e si può provare ad orientare ogni comportamento fino ad arrivare, se possibile, alla correzione di questo stato di disordine.

Che il disordine su cui si basa anche la concezione della “parità” di chiunque con chiunque sia oggi un fatto da cui non si possa prescindere, siamo i primi a riconoscerlo, ma che si tratti di una macroscopica anomalia e di una iperbolica illusione è cosa indiscutibile che dev’essere ben presente all’intelligenza.

Che oggi si debba convivere con il disordine è inevitabile, ma che si debba solo subirlo sforzandosi in ogni modo di non condividerlo è doveroso.
Ci si sforzi di vivere tale condizione impropria e scomposta senza il minimo compiacimento, ma con la piena consapevolezza di essere costretti a vivere nell’errore, usando la pazienza e la determinazione necessarie per condurre una vita personale la più lontana possibile dall’errore e dalla depravazione moderne e, se possibile, una vita sociale che subordini alle esigenze dell’ordine voluto da Dio ogni disordine voluto dall’uomo.

Per finire, ci resta da riflettere brevemente sul modo in cui un cattolico possa oggi condurre una vita il più possibile corretta mentre si trova a vivere in un mondo disordinato e colpevolmente depravato.
La prima cosa che si può dire è che non si tratta di una novità: sta scritto: “Siete nel mondo, ma non siete del mondo… il principe di questo mondo è già stato condannato”. Per duemila anni i fedeli di Cristo hanno pregato perché la Vergine li aiuti ad attraversare questa “valle di lacrime”.
Da questo deriva che i fedeli di Cristo devono aver chiara coscienza del fatto che non hanno il compito di salvare questo mondo, ammesso che si possa seriamente parlare di salvazione del mondo. Non è la salvezza del mondo che devono perseguire i fedeli di Cristo, ma la salvezza delle loro anime. La Chiesa è stata istituita da Cristo, non per salvare il mondo, ma per portare alla salvezza eterna le anime dei credenti.

Come la suprema legge della Chiesa è la salvezza delle anime, così la suprema legge di ognuno di noi è la salvezza della propria anima. Come la Chiesa deve conformarsi a Cristo per ricondurre tutto al Padre, così ogni fedele deve conformarsi alle leggi della Chiesa, le quali riflettono i comandamenti di Cristo.
Cristo è venuto per salvare i peccatori, rendendo chiaro così che la condizione umana ordinaria è informata dal peccato, se avesse voluto salvare il mondo lo avrebbe fatto in un fiat. È il peccatore che deve ricondursi a Cristo con la sua volontà e la sua sottomissione a Dio, indipendentemente dalle condizioni di vita del mondo in cui si trova.
Certo, sarebbe meglio che si vivesse in un contesto sociale il più informato possibile dalle leggi di Cristo, ma se oggi lo stato di fatto è tale che si è costretti a vivere in un mondo che rifiuta Cristo e misconosce Dio, l’imperativo diviene ancor più categorico: salvare la propria anima.
Non si tratta di un’istanza egoistica, ma di un’esigenza che scaturisce dallo stato oggettivo in cui versa questo mondo, d’altronde, se tutti gli uomini si preoccupassero di vivere in funzione della salvezza eterna, se tutte le creature riconoscessero la loro dipendenza dal Creatore, il disordine sarebbe vinto. Ciò nonostante, i fedeli di Cristo, salvando la propria anima, contribuiscono a salvare l’anima del loro prossimo. Salvando se stessi, possono aiutare altri a salvarsi. La prima istanza resta quindi la salvezza personale: se non si è in grado di salvare se stessi come si può pretendere di aiutare gli altri?
Per far questo, il fedele di Cristo può operare in vario modo, ma innanzi tutto deve avere chiaro che vive in un mondo alla rovescia, solo così potrà fissare con un sano realismo la sua condotta privata e pubblica. Non si tratta di fare la guerra al mondo, ma di riconoscere che il mondo è tutto orientato a portarlo fuori strada, a condurlo lontano da Dio e contro Dio. Sia che si debba perseguire una battaglia personale, sia che si volesse perseguire una battaglia comune, dev’essere chiara la configurazione del campo di battaglia.

Nei primi del secolo scorso il Santo Papa Pio X ricordava che è necessario instaurare omnia in Christo e questo imperativo mantiene tutta la sua attualità, ma anche qui, per operare in questo senso è necessario che ogni fedele lo realizzi innanzi tutto in se stesso e nel seno del proprio ambito naturale: la famiglia.

Il fedele di Cristo, da solo o in gruppo, non può né progettare né costruire. Senza di me non potete fare nulla, dice il Signore. È necessario quindi l’aiuto soprannaturale che, oltre che per la preghiera, passa per i sacramenti, i quali possono essere assicurati solo dai sacerdoti cattolici, da veri sacerdoti cattolici, da buoni sacerdoti cattolici. Possono essere assicurati dalla Chiesa, i cui uomini per primi devono avere chiara coscienza dello stato del mondo, dalla Chiesa che non rincorre il mondo, dalla Chiesa che vive nel mondo, ma sa di non avere nulla da condividere col mondo, se non il peccato: che il mondo pratica baldanzosamente e la Chiesa deve combattere per portare alla salvezza le anime dei credenti che il Signore le ha affidato.

Giovanni Servodio


Rimandi scritturali:
I Corinti, 7, 1-5 (Efesini, 5, 22-23)
I Corinti, 11, 3-12 (Efesini, 5, 23; I Corinti, 3, 23; Atti, 11, 27; II Corinti, 3, 18; Genesi, 1, 26-27 e 2, 21-23)
Efesini, 5, 21-33 (Colossesi, 3, 18; I Pietro, 3, 1-6; I Corinti, 11, 3 e 1, 22-23; Colossesi, 3, 19; I Pietro, 3, 7; Efesini, 5, 2; Tito, 2, 14 e 3, 5-7; Romani, 6, 4; Ezechiele, 16, 9; Colossesi, 1, 22; II Corinti, 11, 2; Apocalisse, 19, 7-8 e 21, 2, 9-11)
Colossesi, 3, 18-19 (Efesini, 5, 21 e 6, 9; I Pietro, 3, 1-7)
I Timoteo, 2, 11-15 (I Corinti, 14, 34-35; Genesi, 3, 16; I Corinti, 11, 3, 8-12; Genesi, 2, 18-21 e 3, 12-13; Numeri, 31, 16; I Corinti, 13, 13);
Tito, 2, 1-5 (I Timoteo, 1, 10 e 5, 1-2; I Corinti, 13, 13; Colossesi, 3, 18; Efesini, 5, 22; I Timoteo, 2, 12)




marzo 2011

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