Medjugorje. Era ora!

Viaggio a Medjugorje
aprile 2011


di Ugo Tozzini




Statua della Madonna di Medjugorje (2011)


Eccomi, sono arrivato anch’io. Era ora. Ho impiegato vent’anni, una vera enormità di tempo, per dirti di sì e accettare il tuo invito paziente, Madre cara. Quante parole dette e ascoltate, titubanze, dubbi, critiche, indifferenze, perplessità e rinvii prima di decidere, all’improvviso, che non potevo più ritardare un così ineludibile appuntamento d’amore.

Naturalmente so bene Chi, e non è stato il caso, ha voluto sciogliere di colpo il gelo del mio cuore e, traboccante di speranza, mi ha fatto salire alle cinque del mattino su quel pullman di anonimi e pii pellegrini diretto in Bosnia Erzegovina, dopo che avevo troppe volte superbamente respinto, e con quali futili pretesti, le insistenti proposte di amici tuoi e miei.

Preso posto sulla “corriera” in partenza da Fiesso Umbertiano, dopo le belle e cordiali parole di benvenuto di don Lino, ho confidato a chi mi stava vicino un immediato senso di benessere, mentre già aleggiava un’atmosfera ospitale e spontanea che più tardi sarebbe stata avvertita da me come un abbraccio affettuoso. Mentre scorrevano dal finestrino le immagini del lindo e laborioso Polesine mi veniva in mente una foto ingiallita del novembre 1951, fattami in quarta elementare davanti alla scuola, mentre aiutavo a caricare su un camion pacchi d’indumenti destinati alla popolazione polesana colpita da una devastante alluvione del Po, disastro che, alle soglie dell’inverno, aveva privato della casa e di tutto duecentomila persone. Il ricordo, anch’esso tutt’altro che fortuito, era il presentimento che quel mio antico gesto di solidarietà, piccolissimo ma non vano, più di mezzo secolo dopo stava per essermi ricambiato, come promesso da Gesù, “settanta volte sette”, da un gruppo di provvidenziali compagni di viaggio, molti dei quali allora non erano neppure nati.

Il viaggio continuò per tutto il giorno, in un fruttuoso alternarsi di momenti di preghiera e socializzazione. Un sussulto di forte commozione mi avrebbe colto di sorpresa solo più tardi quando, al tramonto, spuntarono all’orizzonte i due campanili della chiesa di san Giacomo, la parrocchia della sospirata Medjugorje, e i miei compagni di cammino intonarono un inno a me sconosciuto. Era un saluto cordiale, semplice e sommesso, cui non sapevo né potevo partecipare per la mia voce roca e per il groppo di commozione, per assicurarti, cara Mamma del cielo, che il viaggio era stato buono, sicuro e leggero, che la tua attesa era finita e stavo arrivando finalmente anch’io, con le mie pene, gioie e speranze. Quel canto speciale sembrava fatto apposta per me, mi riempiva gli occhi di lacrime e il cuore di gioia e riecheggiava un’implorazione di perdono per l’incredibile ritardo della mia venuta. Il ritornello orecchiabile e dolcissimo si trasfigurava nel mio cuore nell’antifona di un salmo celestiale, e non mi avrebbe più abbandonato, sì che ogni tanto mi sorprendevo a cantarlo da solo, a costo di stonature. Ho apprezzato tanto quel saluto a Te, Regina della pace (Kraljica Mira), che mi è venuto da desiderarlo, ora per allora, per il mio ultimo commiato, quale commosso canto “a cappella” alle mie esequie funebri.

Due giorni dopo l’approdo al tuo porticciolo, faticosamente salivo al colle delle apparizioni, ansimando e incespicando tra un macigno e l’altro di quell’impervio sentiero di roccia un tempo impraticabile e ora levigato dai piedi spesso nudi di milioni di tuoi figli.

Quale occasione più propizia per pregare, meditare e sognare? Ispirato da quel clima di devozione e mistero osai cogliere gli estremi per un accostamento audace, forse improponibile per qualche erudito biblista o esperto in geopolitica, ma non per me. Saltando di colpo dalla Mezzaluna fertile ai Balcani mi venne spontanea la similitudine fra due terre, la Mesopotamia e Mdjugorje, bensì percorse da storie disparate e lontane, eppure così apparentate dal dolore e dalla umana tragedia della guerra, carichi di disperazione così simili sotto ogni latitudine.

L’antica Mesopotamia, la “terra tra i due fiumi”, il Tigri e l’Eufrate, pianura fertile e bellissima strappata al deserto, crocevia fra tre continenti, non è mai stata terra di pace. Depositaria delle radici della nostra civiltà, ospitò le più splendide tra le culture antiche, dai Sumeri agli Accadi, dagli Assiro-Babilonesi ai Persiani e ai Greci, di cui conserva tesori millenari tuttora sepolti e inesplorati. La tradizione mitologica vi collocò addirittura l’Edhen, il giardino ameno, ricco di splendida vegetazione e deliziato da acque fresche e abbondanti, ove Dio s’intratteneva familiarmente coi nostri progenitori elevati allo stato soprannaturale a vivere della sua gloria. Racconti primitivi babilonesi e la stessa tradizione biblica vi localizzarono noti episodi risalenti all’origine della storia dell’umanità, tra i quali la creazione, il peccato originale, il diluvio universale, l’arca di Noè, la torre di Babele.

Proprio da quel paradiso terrestre invaso e invasore, da sempre tormentato e senza pace, vent’anni fa s’irradiava la Guerra del Golfo, intrisa del sangue di “pulizie etniche”, deportazioni di massa, spietate esecuzioni anche fra i civili, disperazione e follia. La mitica “terra tra i due fiumi”, crocevia di primizie e di contraddizioni, era presa in ostaggio dai “Signori della guerra” dell’una e dell’altra parte, che in uno scenario apocalittico da guerre stellari, si contendevano barili di petrolio e vite umane a suon di missili Scud e Patriot traccianti bagliori di morte nel cielo annerito dai fumi untuosi di cinquecento pozzi di petrolio dati alle fiamme.

In contemporanea di così stolta esibizione planetaria di follia e pirotecnica onnipotenza tecnologica, ecco fare umile capolino dopo secoli di nascondimento, una contrada già sfigurata da un antico scisma religioso, pluralismo etnico, culturale, geografico e traumatizzata dalla medievale avanzata islamica nei Balcani.

Ecco Medju-gorie, la piccola, impervia eppur verdeggiante, e un tempo sconosciuta “terra fra le due colline”, il Podbrdo e il Krijevac. Cuore di una regione che, rispetto a quella mesopotamica, è più povera e piccina in tutto, persino nella guerra, tuttavia anch’essa teatro di follia e violenze, di massacri e saccheggi, di campi di concentramento e “pulizie etniche” (in serbo-croato: etniko išenje) durante gli anni finali del secolo scorso, al tempo delle sanguinose guerre civili jugoslave.

Mentre salivo al Podbrdo, il colle delle apparizioni, pensavo a loro, a Mirjana, Vicka, Marija, Ivanka, Ivan, Jakov, i messaggeri eletti a diffondere su tutta la terra le tue materne confidenze e raccomandazioni, nelle cui pupille attonite è conservata per sempre l’immagine viva della tua ineffabile bellezza.

Pensavo alla spina dell’ostilità preconcetta conficcata nel tuo fianco dai miei increduli amici di fede, fra cui molti sacerdoti, l’Ordinario stesso del luogo a te caro e persino qualche alto prelato di Curia, alle loro superbe disquisizioni e dubbi, a fronte di duemila anni di quasi ininterrotto silenzio, sul perché di quelle tue ricorrenti apparizioni, messaggi, benedizioni e sollecitudini di madre.

A Chi inutilmente mi tentava con questi dubbi per distogliermi dalla fatica di quella salita che mi avrebbe fatto baciare i sassi testimoni delle tue apparizioni, a Lui, il primordiale Principe dell’inganno, sapevo bene cosa rispondere, sgranando il santo Rosario, la mia arma invincibile di sempre, caricata di quelle cinquanta munizioni così irresistibilmente potenti.

Rispondevo in cuor mio ansimando ch’era pur vero che Tu, Madre cara, la “povera di Dio”, la “benedetta fra le donne”, nel vangelo della vita di Gesù stavi in disparte, misuravi le parole e preferivi il più devoto silenzio. Ma come potevo dimenticare l’eloquenza soprannaturale di quel tuo laconico invito alla nozze di Cana: “Fate quello che Lui vi dirà” o la novità rivoluzionaria del proclama lungo e solenne del Magnificat, il tuo profetico e dirompente discorso della montagna, con cui avresti anticipato di trent’anni quello imperioso di Gesù?

All’annuncio che Dio era con Te, altro che silenzio, altro che ieratico mutismo, prorompesti in un prolungato inno di gioia e giustizia, che anticipava scenari di una strabiliante storia a venire, di potenti rovesciati dai troni e di umili esaltati sopra tutti, di affamati colmi di beni e di ricchi rinviati a testa bassa e a mani vuote. Nel tuo lungo “discorso” compariva in filigrana l’intero alfabeto di un parlare scomodo e nuovo che un giorno avrebbe composto il manifesto sovversivo e pacificamente consolatore di un predicatore ancora sconosciuto, chissà in quell’istante forse neppure ancora concepito.

Lì comunicavi al mondo il primo dei tuoi “messaggi”: Makariusìn me pàsai ai gheneaì, tutte le generazioni mi chiameranno beata. Era la “beatitudine” della creatura più povera colmata dei doni più grandi. Con Te, umile giovinetta di Nazareth, la gioia prorompeva con nobiltà regale e per la prima volta nella storia dei poveri, dei poveri e umili come Mirjana, Vicka, Marija, Ivanka, Ivan, Jakov, e l’avrebbe segnata indelebilmente per sempre.

E questo sarebbe il silenzio e il mutismo di duemila anni fa che i tuoi piccoli detrattori e superbi esegeti del tuo parlare vorrebbero contrapporre ai ricorrenti e per loro “troppi” tuoi messaggi di oggi, nell’intento di svilirli e destituirli di verità, osando addirittura l’empietà somma e insana d’imputare ad essi odore di zolfo?

Le tue parole, Madre cara, sono per me acqua viva, non catechesi astratta e lontana, sono riscatto della mia angoscia e arresto della mia disperazione, perciò mi bastano.

Agli pseudo teologi che storcono il naso e alzano il niffo della loro saccente erudizione di fronte alle tue reiterate raccomandazioni ricordo semplicemente che l’insegnamento di Gesù, annunciato da ignoranti, ha fatto i cristiani e i martiri, mentre lo stesso insegnamento predicato e “interpretato” dai super dotti fa tuttora degli increduli, degli smarriti, dei vacillanti, degli atei e dei pagani.

S’impara a pregare solo pregando e io, Gospa cara, da povero analfabeta mi sforzo d’imparare e, se necessario, faccio tintinnare la mia campanella di lebbroso d’amore per Te, in mezzo alla folla vociante di quelli che, come me, oggi hanno tutto. E nient’altro.

A prestissimo, Madre cara.

Ugo Tozzini
Torino, 15 aprile 2011




giugno 2011

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