Viaggio a Mondo piccolo

Secondo giorno




Pubblicato sul sito Riscossa Cristiana
nella rubrica del martedì “Fuori moda” - La posta di Alessandro Gnocchi
 
  22 giugno 2017



Ogni martedì Alessandro Gnocchi risponde alle lettere degli amici lettori. Tutti possono scrivere indirizzando le loro lettere a info@riscossacristiana.it, con oggetto: “la posta di Alessandro Gnocchi”. Chiediamo ai nostri amici lettere brevi, su argomenti che naturalmente siano di comune interesse. Ogni martedì sarà scelta una lettera per una risposta per esteso ed eventualmente si daranno ad altre lettere risposte brevi. Si cercherà, nei limiti del possibile, di dare risposte a tutti.


giovedì 22 giugno 2017


Cari amici,
prendiamoci un po’ di tempo per ristorare la nostra anima, il nostro cuore e il nostro cervello. Non permettiamo all’orrore e allo squallore che ci assillano ogni giorno di avere la meglio su di noi. Per questo, nel corso dell’estate vi invito a un viaggio nel Mondo piccolo di Guareschi. Nei secoli scorsi, aristocratici, grandi borghesi e intellettuali compivano un Grand Tour di formazione in Europa che li conduceva inevitabilmente ai piedi della modernità, caduca e miserabile. Noi, in fondo al nostro Petit Tour, avremo gli occhi colmi di ciò che non muore. Fuori moda.

Buon viaggio



 

Come ogni iniziato, avventurandosi nel regno arcano della fiaba, anche Giovannino ha avuto un maestro. Se lo era trovato in casa da bambino, nelle vesti della bisnonna Filomena. Una donnina piccola piccola, sempre vestita di nero, che passava le giornate a raccontare storie per tenere compagnia al tempo e agli uomini. Era la nonna di sua mamma e, in più di un racconto, la ricorda col nome di nonna Giuseppina, come in “Sosta in riva all’acqua”: “Ogni tanto uno sente il bisogno di rifugiarsi nella propria fanciullezza, di risalire il rigagnolo della vita fino alla fonte, e nonna Giuseppina è legata indissolubilmente alla mia fanciullezza.

“Risalendo il corso della mia vita, in riva all’esiguo specchio di acqua limpida dal quale parte, trovo nonna Giuseppina. Una vecchietta antica, da libro di lettura di tempi lontani, con le ossa minute, il fazzoletto annodato sotto il mento, sopra i capelli candidi, la sottana nera col corpetto accollato, e il sottile fuscello di gaggia”.

La bisnonna era fatta apposta per incarnare la raccontatrice di fiabe tipica della tradizione italiana. Sembra di vedere il suo ritratto in un passo del saggio “In media coeli” di Cristina Campo: “(…) la narrazione più semplice di un vecchio assume andatura di parabola, in parabole si esprimevano volentieri i vecchi di un tempo e sempre la raccontatrice di fiabe – questi evangeli che così leggermente si dicono moralità – fu la nonna: la decana di casa, la donna di buon consiglio, dama che fosse o contadina. Allusivo suona il proverbio italiano: ‘Val più un vecchio nel canto del fuoco che un giovane nel campo’”.

Questa era l’aura che aleggiava attorno a bisnonna Filomena. E il piccolo Giovannino vi rimaneva impigliato come qualsiasi bambino al cui orecchio giunga una voce che narra una storia. Ciò che ha fatto di lui il discepolo di quella vecchina vestita di nero è stata la capacità di rimanere un poco bambino. Come spiega in un racconto dall’inequivocabile titolo “Chi può portare a spasso il bambino?”. L’idea di fondo è che, crescendo, l’uomo non si trasformi da fanciullo, in ragazzo e poi in adulto: “Il bambino, a un certo momento, si stacca da noi perché, pur continuando a vivere in noi, ha una sua amministrazione autonoma. (…) quando il primo pensiero impuro si affaccia alla mente del bambino e la turba, il bambino si arresta e si cristallizza. Ci affida tutto quanto appartiene alla materia e alle esperienze materiali, tutto quanto gli hanno insegnato e ha imparato trattenendo per sé solo i suoi pensieri e i suoi sogni. (…) Bisogna ricordarsi di se stessi e del bambino: passeggiare con lui come faccio io. (…) mi parla con la voce d’allora, mi spiega i pensieri d’allora, le fantasie d’allora e io vedo il mondo come lo vedevo allora. E ritrovo la speranza d’allora. Ritrovo quella sconfinata fede in Dio, una fede che è solo istinto e non è avvelenata dal ragionamento”.

Chi sappia superare questa prova da paese delle fate non avrà gli anni assegnatigli dall’anagrafe, spiega Guareschi: avrà quelli meno gli anni del bambino. E se, per destino, è uno scrittore, poserà inesorabilmente i suoi passi sul terreno della fiaba e darà il meglio della sua lingua. Quasi che, levigata da simboli così immensi e finiti, così eccelsi e toccabili, la parola possa distillare il suo gusto più puro. D’altra parte, quei simboli possono essere pienamente dominati solo dallo scrittore che abbia della propria lingua un sentimento liturgico quanto il rito della festa e familiare quanto il cibo di tutti i giorni.

Nasce così, per esempio, l’incipit, a un tempo feriale e solenne, della “Prima storia”: “Io abitavo al Boscaccio, nella Bassa, con mio padre, mia madre e i miei undici fratelli: io, che ero il più vecchio, toccavo appena i dodici anni e Chico che era il più giovane, toccava appena i due. Mia madre mi consegnava ogni mattina una cesta di pane, un sacchetto di mele o di castagna dolci, mio padre ci metteva in riga nell’aia e ci faceva dire ad alta voce il Pater noster: poi andavamo con Dio e tornavamo al tramonto”.

Passi come questo, che raccontano un tempo fuori dal mondo, Guareschi li ha raccolti al Boscaccio, la plaga in cui vivevano i suoi avi per parte del padre, lo svanito Primo Augusto. Quella fetta di terra è il luogo dei luoghi, il principio dell’universo sentimentale e letterario dello scrittore di Fontanelle. Che, non a caso, vi ambienta esplicitamente le prime due “Storie” e, per contagio narrativo, anche la terza. Il Boscaccio è uno spazio corso volentieri dagli Esseri Soprannaturali di cui parla Mircea Eliade. È un ambiente che ossequia solo le leggi del mito, come spiega il personaggio narrante della “Prima storia”: “Io devo dirvi che il Boscaccio era un paese dove non moriva mai nessuno, per via di quell’aria straordinaria che vi si respirava”.

Qui, va sottolineato ancora una volta il fatto che le tre “Storie”, unite al resto del prologo a “Don Camillo”, assolvono la funzione del mito ad uso delle creature di Mondo piccolo. È evidente che, per don Camillo, Peppone e la loro gente non possono essere altro. Sono sacre, dato che raccontano le vicende di esseri straordinari. Sono vere, dato che riportano fatti reali. Sono fondanti, dato che spiegano la creazione di un mondo e mostrano l’origine di comportamenti, istituzioni e relazioni con l’umano e con il divino.

Guareschi, però, non ne fa la cronaca di un’età dell’oro, innocente e felice. Macchia la narrazione di luci e di ombre per dare corpo e forza all’incombere dell’estremo commiato dalla vita terrena. E’ vero che al Boscaccio non moriva nessuno. Ma è altrettanto vero che Chico arriva sino sulla soglia della fine. E Gringo finisce con la testa spaccata. E la ragazza della “Terza storia” si riduce a un mucchietto di cenere. Gli esseri straordinari del prologo al “Don Camillo” abitano un mondo in cui l’aurora vive della stessa solennità del tramonto. Chiamano una parola divina capace di lenire la ferita aperta dalla consapevolezza di questa condizione.

In questa situazione, la sapienza del narratore sta nel rendere appena meno visibile la presenza della Grazia per chiedere più forza al dire e al fare dei suoi personaggi. All’impallidire dell’intervento divino, gli uomini sono costretti a farsi persino violenti per andare alla conquista del regno dei cieli. Poi, giunti al limitare delle loro possibilità, dove l’aria è troppo pura per essere alimento di povere creature, ritrovano il sostegno della luminosità pastosa e concreta del soprannaturale. Al termine di questo viaggio, divengono esempi, archetipi dell’agire della razza che da loro discenderà. Simbolo del finito che si disseta nell’infinito. Sacramento dell’eterna pietà del Creatore.

Donne, uomini, animali, piante, cose di Mondo piccolo si ingegnano a ricreare questa sete di eterno per trecentoquarantasei racconti. Dagli antenati delle tre “Storie” hanno ereditato la capacità di consacrare ogni fibra del loro essere alla conquista del cielo. Ma hanno appreso anche la necessità di attingere al manifestarsi della Grazia inchiodata sulla croce. Così, il loro vivere, rito che ripara ogni volta lo squarcio aperto tra la vita di Dio e quella dell’uomo, nei momenti più intensi, è pura riattualizzazione degli avvenimenti avvenuti in tempi favolosi. Don Camillo, Peppone e la loro gente cessano di esistere nel mondo di ogni giorno e penetrano in un universo aurorale, trasfigurato dalla presenza reale di esseri straordinari.

Vicende simili chiedono scenari adeguati. Non necessariamente grandiosi, ma capaci di evocare e replicare momenti perfetti: “Scavalcata la cortina nera dei pioppi, la luna aveva passato il fiume, lasciando sull’acqua una scia di barbagli dorati, e ora prendeva lentamente quota nel cielo pulito.

“Saliva senza fretta perché doveva contare, uno per uno, i mucchietti di covoni sparpagliati nei campi di grano da poco tosati, e doveva segnare ogni mucchietto con la sua brava pennellata di ombra nera”.

E’ l’incipit da fiaba del racconto “Notte di giugno”. Qualcosa che sembra molto da vicino ad alcuni versi di Verlaine sulla sera: “Un vasto e tenero/acquietamento/sembra discendere dal firmamento/che l’astro illumina./E’ l’ora squisita”.

È il momento perfetto in cui l’uomo si ritrae dal mondo per contemplare la bellezza inesorabile del ritmo che lo sorregge. In quest’ora, anche la morte, congiungimento sublime di caduco e di eterno, non suscita terrore. Il prologo a Don Camillo è tutto ricamato con questo filo, che è un canto all’estremo commiato. Così delicato e incontenibile da ricordare il “Falstaff”, l’opera che Verdi scrisse preparandosi a morire.

La creatura verdiana, per esigenze sceniche, termina con il “Tutto il mondo è burla” di Sir John. Un finale gioioso che non riesce a celare, perché non lo vuole, una voce fatta di nostalgia per la vita e di abbandono al suo assopirsi come poche altre nel grande melodramma. È la contemplazione dell’estremo saluto.

Come l’ultima pagina del prologo guareschiano, che inizia con tono di burla: “Uno adesso dice: fratello, perché mi racconti queste storie.

“Perché sì, rispondo io”.

Perché non esiste uomo più gioioso di chi si stia preparando al grande commiato. Perché non vi è scrittore più sincero di chi possieda la grazia, pallida e pura, del vero narrare. Perché non si trova fratello più caro di chi, a un tempo, sappia dipingere scenari immensi come quelli della Bassa e far palpitare il cuore meccanico di solitari organetti di barberia.

(2 - continua)




giugno 2017
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