Viaggio a Mondo piccolo

Quarto giorno




Pubblicato sul sito Riscossa Cristiana
nella rubrica del martedì “Fuori moda” - La posta di Alessandro Gnocchi
 
  6 luglio 2017



Ogni martedì Alessandro Gnocchi risponde alle lettere degli amici lettori. Tutti possono scrivere indirizzando le loro lettere a info@riscossacristiana.it, con oggetto: “la posta di Alessandro Gnocchi”. Chiediamo ai nostri amici lettere brevi, su argomenti che naturalmente siano di comune interesse. Ogni martedì sarà scelta una lettera per una risposta per esteso ed eventualmente si daranno ad altre lettere risposte brevi. Si cercherà, nei limiti del possibile, di dare risposte a tutti.


giovedì 6 luglio 2017


Cari amici,
prendiamoci un po’ di tempo per ristorare la nostra anima, il nostro cuore e il nostro cervello. Non permettiamo all’orrore e allo squallore che ci assillano ogni giorno di avere la meglio su di noi. Per questo, nel corso dell’estate vi invito a un viaggio nel Mondo piccolo di Guareschi. Nei secoli scorsi, aristocratici, grandi borghesi e intellettuali compivano un Grand Tour di formazione in Europa che li conduceva inevitabilmente ai piedi della modernità, caduca e miserabile. Noi, in fondo al nostro Petit Tour, avremo gli occhi colmi di ciò che non muore. Fuori moda.

Buon viaggio



 

Il mondo di Guareschi è paradossale fin dall’origine, come spiega lo scrittore stesso nel prologo:
“L’ambiente è un pezzo della pianura padana: e qui bisogna precisare che, per me, il Po comincia a Piacenza.
“Il fatto che da Piacenza in su sia sempre lo stesso fiume non significa niente: anche la Via Emilia, da Piacenza Milano, è in fondo sempre la stessa strada; però la Via Emilia è quella che va da Piacenza a Rimini.
“Non si può fare un paragone tra un fiume e una strada perché le strade appartengono alla storia e i fiumi alla geografia.
“E con questo?”.

Il padre di tutti i paradossi di Mondo piccolo ha preso forma e ha travolto un paesaggio secolare e vicende assurte al grado supremo della certezza storica. Ma solo per rimettere tutto al suo giusto posto, quello delle origini. Con uno scarto bizzarro, lo scrittore avverte di trovarsi davanti a un ostacolo che l’uso logoro del linguaggio non è in grado di superare: invece che dire la loro anima, le parole rischiano di balbettare e ridursi al silenzio e sprofondare nel nulla l’atto letterario della creazione. Per questo ricorre al paradosso. E due espressioni fruste come “storia” e “geografia” vengono rigenerate e portate violentemente a dire ciò che forse non sapevano nemmeno più.

Solo così può trovare senso Mondo piccolo, rappresentazione di luoghi e destini che rispondono contemporaneamente alle logiche del cielo e della terra. Universo bizzarro che nasce da un ossimoro: dall’antitesi tra l’anelito all’immensità di un sostantivo detto con la maiuscola e la vocazione alla finitezza di un aggettivo espresso con la minuscola. Forzando alla reciproca comprensione le parole antitetiche come “Mondo” e “piccolo”, Guareschi le costringe a esplodere in una creazione che travolge i limiti consueti del senso e del non senso ponendone di nuovi. Produce una sorta di Big Bang letterario dal quale nasce il “puntino nero che si muove assieme ai suoi Pepponi e ai suoi Smilzi, in su e in giù lungo il fiume per quella fettaccia di terra che sta tra il Po e l’Appennino”.

“Mondo piccolo”, appunto, ossimoro virile, generatore di spazio, di tempo e di storie. E non “piccolo mondo”, fatua restrizione di coordinate geografiche e di sentimenti.

Nel 1952, abbandonata una Milano assediata dal cemento e dai cementificatori, Guareschi prese a contemplare la sua creazione dall’interno. Con la famiglia si era trasferito nella casa che aveva fatto costruire alle Roncole, a due passi dalla casipola in cui era nato Verdi. L’aveva battezzata Incompiuta, nome lirico e quanto mai appropriato, dato che non smise mai di mettervi mano portandovi modifiche e aggiunte di ogni genere. Se la si va a vedere, ancora oggi, all’angolo tra via Processione e la strada Borghese che porta a Fidenza, l’Incompiuta viene su come un paradosso vivente. Stupirebbe davvero poco trovarla cambiata tra una visita e l’altra.

Era uno straordinario punto d’osservazione. Su “Candido”, in quell’anno, lo scrittore confessava:
“Mi appresso alla finestra a guardare il piccolo borgo delle Roncole che si intravede attraverso l’intrico arguto dei rami spogli degli olmi: è ancora più bello e mi piace di più”.

Più in là, attraversato il deserto verde della Bassa, corre il Grande Fiume. Tra questi due poli, uomini, cose, piante, luoghi sono paradossali almeno quanto gli spigoli, gli anfratti e le sorprese dell’Incompiuta. Le leggi fisiche e spirituali sono dettate da Sua Maestà Giovannino. Niente di originale, perché sono tratte alla lettera da quel paradosso dei paradossi che è il Vangelo. Però, tutta roba rigorosa nel trovare in cielo le ragioni della terra. Come si spiega nel corsivo del prologo:
“La storia non la fanno gli uomini: gli uomini subiscono la storia come subiscono la geografia. E la storia, del resto, è in funzione della geografia.
“Gli uomini cercano di correggere la geografia bucando le montagne e deviando i fiumi e, così facendo, si illudono di dare un corso diverso alla storia, ma non modificano un bel niente, perché, un bel giorno, tutto andrà a catafascio. E le acque ingoieranno i ponti, e romperanno le dighe, e riempiranno le miniere; crolleranno le case e i palazzi e le catapecchie, e l’erba crescerà sulle macerie e tutto ritornerà terra. E i superstiti dovranno lottare a colpi di sasso con le bestie, e ricomincerà la storia.
“La solita storia”.

Non sono le fantasie di un pazzo che ha rinunciato a dare forma alla propria vita. Sono le ragioni di un poeta che ha trovato il vero senso dell’esistenza. In un saggio quasi introvabile, e comunque poco letto, “Il linguaggio della poesia”, Rodolfo Quadrelli scrive: “Il nemico moderno della poesia è la storia; oggi sarebbe vano ripetere la splendida definizione di Aristotele, essere cioè la poesia più ‘nobile’ della storia, rappresentando il possibile e perciò l’universale, mentre l’altra descrive il meramente avvenuto. Infatti le filosofie della storia hanno affermato che quanto è avvenuto doveva avvenire, e hanno ritolto alla poesia il regno dei significati, lasciandole soltanto quello della fantasticheria”.

Come Quadrelli, Guareschi si ribella a una cultura che trasforma dei semplici fatti in verità intolleranti e intollerabili. Sa che la storia è il cortile angusto di ciò che è accaduto, mentre la poesia è il regno dei mille significati con i quali la Provvidenza permette a tutti di salvarsi. Una è la celebrazione grigia e senza prospettiva delle fortune dei potenti. L’altra è un mondo dalle mille dimensioni che consegna il suo destino anche all’ultimo degli ultimi.

Uscito sazio di speranza dalla tragedia della guerra e dei lager, lo scrittore della Bassa vedeva la storia moderna qualificarsi come un’apocalisse senza redenzione che ha il suo contraltare nella speranza smisurata dell’utopia: entrambi luoghi dove si vive per morire e non dove si muore per vivere, come accade invece nel regno della poesia.

In tale situazione, il linguaggio poetico si incarica di conferire l’essere al nulla. Meglio ancora, restituisce l’essere dopo aver ridotto a niente quanto gli altri discorsi hanno dato l’illusione che esista. Anche per assolvere questa incombenza, Guareschi non fa altro che rimettersi al Creatore. Gli basta descrivere, da poeta, ciò che gli infatuati della storia non riescono a vedere:
“(…) gli uomini sono delle disgraziate creature condannate al progresso, il quale progresso porta irrimediabilmente a sostituire il vecchio Padreterno con le nuovissime formule chimiche. E così, alla fine, il vecchio Padreterno si secca, sposta di un decimo di millimetro l’ultima falange del mignolo della mano sinistra e tutto il mondo va all’aria”.

Con una passata della mano, Guareschi sbarazza la tavola di tutte le carabattole da rigattiere che la ingombrano. Tutto il ciarpame della cultura moderna finisce per terra, dove nessuno ha più da curarsene. E l’orizzonte si pulisce e accoglie le storie che sanno veramente dire qualcosa all’uomo. Quelle che chiedono l’esercizio dell’occhio, organo del tragico, e dell’orecchio, organo del comico. Su scenari tragici, passati con tinte violente, l’innesto di dialoghi comici segna l’ingresso della Grazie nelle cose terrene. E si manifesta la tragicommedia, il più cristiano dei generi letterari, il versante evangelico della fiaba.

Lasciata a se stessa, la tragedia racconta l’incontro dell’uomo con la sofferenza e la morte. Ma, allo stesso tempo, è qualche cosa di più della percezione dell’ineluttabilità del morire: è la disperata opposizione a questa crudeltà. La visione tragica del mondo nasce dalla comprensione della natura come grembo originario del prodursi e dell’irrimediabile risolversi di tutto ciò che esiste. Ebbra e felice nella nascita, la natura è, al tempo stesso distruttiva e violenta nella morte. Perciò, l’uomo tragico vive in un mondo senza orizzonte, dominato dall’eterno fluire del farsi e del disfarsi.

Il cristiano, per contro, è costituito dalla capacità di sperare contro ogni male, di attendere oltre ogni limite umano della sopportazione, di proclamare la liberazione da ogni delusione. Un atteggiamento come questo ha ben poco da spartire con la fiducia solo umana nella buona sorte. Si fonda sulla constatazione delle alterne vicende della vita per cui ci si può sempre attendere il bene nel dolore e, più distrattamente, il male nella gioia. Ma sempre con un senso. Dentro un orizzonte luminoso dove la voce di Dio non si stanca tenere desta anche l’ultima sentinella del regno degli uomini.

Non c’è nulla di più comico di una parola eterna e infinita che sorregge pazientemente esseri piccoli, caduchi e infedeli. Non c’è umorista più grande di Colui che ha giocato alle sue creature ansiose di divenire come Dio lo scherzo degli scherzi: farsi Egli stesso figlio dell’uomo. E’ San Paolo a spiegarlo nella “Prima Lettera ai Corinti”: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, (…) ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, (…) ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono”.

Su uno scenario tragico, dunque, il cristianesimo aziona i meccanismi più sorprendenti del comico. Che trova belli e pronti nella realtà della Grazia: fonte sorgiva dell’umorismo e dell’ottimismo, che non copre il male, ma lo sana. Sì che l’uomo possa rispondere allo scherzo del Dio che si è fatto figlio dell’uomo con la rima dell’uomo felice di essere figlio di Dio. Allora l’umorismo mostra di essere un gradino sopra il tragico per il semplice motivo che è una tragedia risolta, una tragicommedia.

Poco indulgente alla teoria, che sottrae alimento alla narrazione, Guareschi ha comunque concentrato un trattatello sul tragicomico nel racconto “Giulietta e Romeo”. Un paragrafo appena, che vale la pena di leggere:
“Nelle grandi città la gente si preoccupa soprattutto di vivere in modo originale e così saltano poi fuori cose sul genere dell’esistenzialismo, che non significano un accidente, ma danno l’illusione di vivere in  modo diverso dai vecchi sistemi. Invece nei paesi della Bassa si nasce, si vive, si ama, si odia, e si muore secondo i soliti schemi convenzionali. E la gente se ne infischia se si trova immischiata in una vicenda che è una scopiazzatura del ‘Sangue romagnolo’ o di ‘Giulietta e Romeo’ o dei ‘Promessi sposi’ o della ‘Cavalleria rusticana’ e altre balle di letteratura. Quindi è un eterno ripetersi di vicende banali, vecchie come il cucco, ma alla fine, tirate le somme, quelli della Bassa finiscono sottoterra preciso come i letterati di città, con la differenza che i letterati di città muoiono più arrabbiati di quelli di campagna perché a quelli di città dispiace non solo di morire, ma di morire in modo banale, mentre a quelli di campagna dispiace semplicemente di non poter più tirare il fiato. La cultura è la più grande porcheria dell’universo perché ti amareggia, oltre la vita, anche la morte”.

Del resto, la Bassa di Mondo piccolo era fatta per vivere di luce propria, e si curava poco del parere dei cittadini, come spiega nel prologo il suo stesso creatore:
“(…) sarà lontana quaranta chilometri o meno dalla città; ma, nella piana frastagliata dagli argini, dove non si vede oltre una siepe o al di là della svolta, ogni chilometro vale per dieci. E la città è roba di un altro mondo”.

Dove città sta per mondo moderno, laico e meccanizzato, in cui la gente è convinta di avere imbrigliato il tempo solo perché corre tutto il santo giorno guardando l’orologio. Universo frenetico in cui si pensa che la rapidità con la quale si esegue qualsiasi compito liberi gli uomini. E, invece, è proprio il contrario. Più si è veloci e più si è schiavi perché non ci rende nemmeno conto che si stanno eseguendo degli ordini. Più tempo guadagnato dalla rapidità significa solo maggiore possibilità di eseguire altri ordini: ma sono comandi troppo umani, malati.

A Mondo piccolo, nessuno chiede di essere veloci. Piuttosto serve essere pronti, che può voler dire anche stare immobili per anni, fino a quando un destino si compie. Poiché la Bassa è il luogo dove le creature riscoprono un’evidenza occultata dai secoli laici: che non c’è nulla di più misterioso del reale e nulla di più reale del mistero.

Quanto universali sono le misere e misteriose luci di Mondo piccolo, se trovano eco in un dialogo fra il moderno letterato di città e l’eterno uomo di Dio nella terra lontana mille miglia del “Dottor Zivago”. Uno ingolfato dal degenerare dei pensieri geniali e senza requie di Tolstoj, l’altro aggrappato all’umanità e alla divinità di Cristo:
“’E voi credete (…) che il mondo sarà salvato dalla bellezza, dal mistero e cose del genere. (…)’
“’Aspettate, ve lo dico io quello che penso. Penso che se la belva che dorme nell’uomo si potesse fermare con una minaccia, la minaccia della prigione o del castigo d’oltretomba, poco importa quale, l’emblema più alto dell’umanità sarebbe un domatore da circo con la frusta, e non un profeta che ha sacrificato se stesso. Ma la questione sta in questo, che, per secoli, non il bastone ma una musica ha posto l’uomo al di sopra delle bestie e l’ha portato in alto: una musica, l’irresistibile forza della verità disarmata, il potere d’attrazione del suo esempio. Finora si riteneva che la cosa essenziale del Vangelo fossero le sue massime e le regole morali contenute nei comandamenti, mentre per me la cosa principale è che Cristo parla con parabole tratte dalla vita di ogni giorno, spiegando la verità al lume dell’esistenza quotidiana. Alla base di questo sta l’idea che i legami fra i mortali sono immortali e che la vita è simbolica perché ha un significato”.

Su questo sfondo russo, non stupirebbe di vedere la figura di Empòrio Pitaciò uscire dall’ombra ed esalare verso il cielo la propria anima e il proprio canto. Carezza per i compaesani che lo avevano svillaneggiato solo poche ore prima. Bacio per lo spirito dei genitori, morti e dimenticati come il loro negozietto polveroso.

“Poi Empòrio Pitaciò tornò dentro la sua grossa macchina e disparve. Nessuno fiatò, le gelosie si riaccostarono silenziosamente e don Camillo, che anche lui si era levato ad ascoltare, tornò a letto e sussurrò:
“’Gesù, fate che le anime dei suoi vecchi l’abbiano sentito’”.

Assunto nel suo gesto umano, gratuito e perfetto, il povero Pitaciò respira il soffio della bellezza, chinata sulla sua anima finalmente salvata. Eppure, gratuità e perfezione sarebbero niente se don Camillo non chiamasse Gesù a testimone. Poiché la perfezione umana non salva se non si fa figlia umile e implorante della perfezione vera, che è quella divina. Se non è consapevole di essere solo l’ombra della luce.

(4 - continua)



luglio 2017
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