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Risposta a Don Cantoni fra teologia e amarezza Intervista a Mons. Brunero Gherardini di
Dante Pastorelli
D – Caro don Brunero, in questi giorni, come saprà, il Suo nome è oggetto d’un attacco pesantissimo da parte d’un prete che si dichiara Suo ex-alunno. Non gli risponde? R – Per le rime, no. Anzi,
se si trattasse solo della mia persona, manterrei ancor il silenzio che
in tutta la mia vita ho mantenuto. Questa volta, tuttavia, ho
intenzione di farmi sentire in qualche modo, se pur con molta
riluttanza. Non scriverò direttamente una risposta articolata
sulle singole tematiche ed accuse, ma complessiva, breve e sostanziale.
Ho già in mente dove e come inserirla, al solo scopo di fornire
opportuni chiarimenti e quella che mi offri, nonostante la mia
idiosincrasia al genere Intervista,
è un’occasione d’oro. Non risponderò per le rime,
perché rifuggo dall’uso del vetriolo che m’è stato
scaraventato in faccia. E vorrei aggiungere che la mia risposta,
così come tutta la mia analisi del Vaticano II, parte da quel
gesto rivoluzionario che il 13 ottobre del 1962 dette al Concilio un
orientamento prima imprevisto. Son convinto che chi non parte di
lì non può esser in grado di capirci qualcosa.
D – Se accetta di rispondere, comunque lo faccia, mi par di capire che c’è rimasto male. R – Certamente non bene,
specie perché si tratta d’un attacco portato contro di me da un
mio ex alunno, come hai ricordato. Incontro spesso qualcuno che fu alla
mia scuola. Son tanti: laici, suore, preti, vescovi e perfino qualche
cardinale. Ogni volta è una gioia reciproca ed a me non fa
certamente dispiacere sentirmi dire: quando devo parlare sulla Chiesa,
prendo in mano i suoi manuali e gli appunti delle sue lezioni.
Recentemente un parroco di Roma, rivolto a me dall’altare, ha detto: si
tremava un po’ dinanzi al suo rigore, ma non la ringrazieremo mai
abbastanza per quello che ci ha dato. L’uscita di don Piero Cantoni,
l’alunno di cui mi parli, e dal quale mi sarei aspettato ben altro che
vetriolo in faccia, ha rotto l’incantesimo.
D - Se non son indiscreto: c’è qualche motivo per dire che da lui non se l’aspettava? R – Ce n’è più
d’uno e mi trovo un po’ a disagio nel metterli in vetrina. Si tratta
soprattutto d’uno stato d’animo. Quando si presentò al Laterano,
proveniva da Écone e bastava questo, allora più di oggi,
a provocare non poca diffidenza. Seppi da lui le difficoltà che
incontrava nella diocesi nella quale si sarebbe incardinato. Aveva il
volto triste; non lo vidi mai sorridere. Con lui c’era un suo collega
austriaco, egli pure atteggiato a perenne tristezza e, come lui,
proveniente da Écone. Mi guardai bene dal fare un sola domanda
sui motivi del loro abbandono del ben noto Seminario lefebvriano:
fossero transfughi o espulsi, non cambiava le carte in tavola: due
esseri umani da aiutare. Così feci, con tutt’i miei limiti, ma
con sincerità. Ricordo d’averli portati pure a pranzo insieme.
Quanto a Cantoni, anche dopo l’adempimento accademico, lo rivedevo
quando ritornava a Roma, m’interessavo alla sua vicenda, mi compiacevo
nel costatare il graduale assestarsi della sua situazione. Ho tra i
miei ricordi che fu parroco, insegnante e responsabile del Seminario
interregionale, fondatore d’un’opera mariana, e varie altre cose. Lo
rividi una decina d’anni or sono in un comune del pisano (Fauglia) per
un incontro mariano: fu una gioia enorme passare qualche ora insieme,
ascoltarlo, ma soprattutto costatare il seguito che riscuoteva da parte
di numerosi giovani, di sacerdoti, del Vescovo presente. Tutto
confermava il mio giudizio di persona d’altissima intelligenza ed
ottima preparazione teologica, lodevolmente impegnata nel servizio
ecclesiale. Quando incominciò a mandarmi richieste d’aiuto per
la sua opera mariana, sia pur con la consapevolezza della mosca che
tira il calcio che può, non me lo feci ripetere. Ora capisci da
te perché “non me l’aspettavo”.
D – Certo che capisco. Ma voglio immaginare che non ci sia stato un ribaltamento di posizioni improvviso ed imprevisto. Possibile che non abbia mai intuito qualche discrepanza, qualche riserva, qualche eccezione? R – Mai, perché mai
me ne aveva manifestato neanche un piccolo sintomo. In ultim’analisi,
però, non è questo il punto. Dante, di cui tu porti il
nome e che conosci molto meglio di me per la tua specializzazione
letteraria, direbbe: “…e ’l modo ancor m’offende” (I, 5, 102). I
precedenti ai quali ho fatto un sommario riferimento avrebbero
consigliato a chiunque, prima di prender la clava in mano e
scagliarmela addosso, di sentirmi, di chieder chiarimenti, di
contestarmi, riservando un eventuale attacco a dopo che le mie risposte
non l’avessero soddisfatto. Ha fatto esattamente il contrario.
Contraddetto, peraltro, dal suo collega austriaco che, all’oscuro di
tutto, poco prima che la bomba esplodesse, mi scrisse: “E’ un grande
onore l’essere stato suo discepolo”.
D – Che si senta offeso dal modo è comprensibile, ma immagino che abbia anche qualche cosa da eccepire nel merito. R – Sì, e non poco.
Se dovessi risponder puntualmente a tutto quanto mi vien rimproverato
sia attraverso labussolaquotidiana
ed altri siti, sia soprattutto con un intero volume scritto nel modo
dottorale e definitorio del “so io ogni cosa e zitti tutti”, dovrei
venir meno all’impegno assunto con una pubblicazione che uscirà
a marzo 2012 per i tipi di Lindau, nella quale dichiaro che quello
è il mio ultimo intervento sul Vaticano II: quanto, infatti,
dovevo e volevo dire, l’ho detto; ho avuto riscontri sulla
serietà della mia iniziativa da varie e non poche parti;
ciò mi basta. Risponderò, dunque, soprattutto per
chiarire l’equivoco nel quale don Cantoni è caduto e nel quale
potrebbero cader i suoi lettori. Contrapponendo alcuni miei giudizi di
oggi ad altri di ieri, o viceversa, egli dimostra la mia doppiezza e la
mia contraddittorietà. E’, questa, una conclusione estremamente
superficiale; ma potrebb’esser pure estremamente cattiva.
Ogni persona umana, infatti, è in un ininterrotto processo di maturazione. Ho detto altrove che solo le cariatidi non s’evolvono. Ieri ero quello che sono oggi e che sarò domani, ma non allo stesso modo né allo stesso livello di maturazione. Quello che oggi percepisco restava in ombra, o forse era del tutto inavvertito, ieri. E’ avvenuto in me quello che avviene in tutti: è maturata l’età, si son avvicendati impegni e responsabilità che lascian il segno, l’esperienza tocca oggi livelli ieri nemmeno intuiti. Nessuna meraviglia se il giudizio d’ieri non collima, o in parte o in tutto, con quello d’oggi; l’importante è che quello d’oggi indichi i motivi per cui non ripete quello d’ieri. E’ importante, cioè, la fondazione. Dalla quale si potrà sempre dissentire, sempre però riconoscendo la serietà del procedimento fondativo. E’ superficiale il critico che non ne tien conto, ma è cattivo quello che ne fa la premessa per giustificare la conclusione con cui m’addita alla pubblica esecrazione: è un doppiogiochista, è in contraddizione con se stesso. E detta così, sarebbe quasi una carezza, la realtà essendo ben altra. Oltre alla maturazione, c’è una ragione anche più determinante che non sfiora nemmeno l’anticamera del mio accusatore: da una parte, la “missio canonica” per la quale ero “mandato” ad insegnare la dottrina della Chiesa, non le mie idee; dall’altra, la necessità di non turbare la coscienza della personalità “in fieri” d’ogni mio discepolo. Ebbi la mia bella crisi, che superai solo perché un eminentissimo personaggio e il mio direttore spirituale mi dissero di non abbandonar il mio posto, ma di continuare l’insegnamento con opportune precisazioni, se del caso, tratte dall’ininterrotta Tradizione della Chiesa su quei punti che mi fossero apparsi meritevoli di precisazioni siffatte. E tutt’i miei alunni sanno quanti puntini sulle “i” ho messo: sul “subsistit in” che, invece di condannare come non pochi facevano, giustificai sul piano metafisico; sulla collegialità dei vescovi, ricondotta nell’alveo del primato petrino mentre tutti ne facevano un organo di governo accanto ed analogo a quello del Papa; sull’ecumenismo per strapparlo all’alea del dialogo fine a se stesso e ricondurlo nella sfera dell’ “Unam sanctam”, e così via dicendo. D – Quindi, Lei afferma che la Sua posizione critica nei confronti del Vaticano II non è di data recente. R – Sicuramente. Pur non
essendo ufficialmente un “perito”, seguivo giornalmente i lavori
conciliari come uomo di fiducia (insieme con un collega
dell’allora Congregazione dei Seminari e delle Università degli
studi, Mons. R. Pozzi) di S. E. Mons. D. Staffa e gl’interrogativi
s’affacciavano e crescevano durante gli stessi lavori conciliari. Posso
rivelare a questo riguardo che, qualche tempo dopo, un’alta
personalità dell’allora sant’Uffizio e pochi anni dopo il suo
successore, oltretutto mio conterraneo, mi convocarono per chiedermi se
fosse vero che criticassi il Vaticano II. Al primo risposi che
insegnavo ciò ch’egli stesso aveva insegnato a me; al secondo ed
al suo invito alla prudenza per non compromettere il mio domani,
risposi che dovevo risponder al presente della mia coscienza e che
l’unico mio domani era quello di Dio. E già allora sostenevo
ciò che ho sostenuto oggi: che il Vaticano II è un
autentico e legittimo Concilio ecumenico, il più grande dei 20
che l’han preceduto, con un suo magistero supremo e solenne,
ancorché non dogmatico, ma pastorale, e con non pochi
interrogativi sulla sua continuità con la Tradizione di sempre.
D – Ma, tutto sommato, di che cosa viene oggi accusato? R – Un po’ di tutto, dalla
disinformazione alla contraddittorietà, dal non aver capito il
Concilio alla volontaria manomissione del suo insegnamento, e di questo
passo s’arriva fino alla conclusione del “formalmente eretico”.
Mi si dice che ignoro le ripetute asserzioni conciliari di continuità con la grande Tradizione ecclesiale; non è vero, ho detto soltanto che altro è una declamazione ed altro una dimostrazione. E questa, fin ad oggi, è mancata. Mi s’accusa di non conoscere, o non riconoscere, la Tradizione/soggetto, là dove ho solo rilevato, con i grandi storici del dogma e della Tradizione stessa, che questo è solo uno sviluppo della teologia moderna e che, comunque, la Tradizione soggettiva resta costitutivamente legata a quella oggettiva, dalla quale non può allontanarsi né d’un apice né d’un iota; può solo approfondire illustrare precisare senza apporti sostanziali e solo nella linea d’uno sviluppo omogeneo. Si dice equivoca, per questo, la mia posizione sul Magistero vivente della Chiesa, come se ad impedirne la capacità e possibilità d’intervento oltre il limite d’una novità omogenea fossi io e non Gv 14,26 e 16,13-14, nonché il cap. IV dell’ “Æterrni Patris” del Vaticano I. Si ha anzi il coraggio d’appellarsi al Lerinense e al beato Newman la cui dottrina sul progresso dogmatico è quella appena accennata. Si prendon poi, uno ad uno, i testi conciliari che ho criticamente analizzato per negarne la mia interpretazione, con ragionamenti che non stanno né in cielo né in terra. P. es., il famoso GS 22/c (“con l’incarnazione il Figlio di Dio s’unì in certo modo ad ogni uomo”) non dichiarerebbe, sia pur “quodammodo”, il Figlio di Dio unito ad ogni persona, ma alla natura umana d’ogni persona: bel modo di svicolare da una difficoltà, come se il testo non dicesse “cum omni homine” e non chiudesse in tal modo lo spazio ad interpretazioni di comodo: “ogni uomo” è ogni persona umana, il supposito, il soggetto, non la sua natura. Mi si dà sulla voce anche per le mie analisi di DH: chissà se, leggendo domani il libro che ho prima annunciato, nel quale dimostro la non corrispondenza di non poche citazioni bibliche ai testi di DH e di NÆ, ch’esse dovrebbero suffragare, non si ricreda anche un don Cantoni. Non dico nulla sul giudizio, almeno implicito, ch’egli dà della mia produzione scientifica, di cui sembra degnare d’una qualche considerazione solo quella d’indole ecumenica, perché dovrei parlare di me e non della mia posizione dinanzi al Vaticano II, ch’è invece il vero tema. Può darsi, inoltre, che abbia ragione il mio oppositore a definire involuta, oscura ed ambigua la mia scrittura; perché dovrei preoccuparmene più di tanto, dal momento che son infinitamente più numerosi coloro che mi lodano del contrario? A proposito di lode, non mi son mai lodato d’appartenere alla gloriosa Scuola Romana, come dichiara don Cantoni, pur essendo grato a chi in essa mi riconosce. No, su me in quanto me, “ne verbum quidem”. Aggiungo un’osservazione. Nella storia il “conciliarismo” è conosciuto come l’eresia che sottomette il Papa al Concilio ecumenico; nel sottotitolo del libro che mi tartassa, Cantoni scrive: “riflessioni sul Vaticano II e sull’anticonciliarismo”, ovviamente pensando a me come “anticonciliarista”. Stando all’accennato significato storico della parola “conciliarismo”, son fiero d’essere “anticonciliarista”. D – Caro don Brunero, mi pare che un quadro come quello che ha descritto meriti molto più d’una semplice intervista. E’ proprio dell’avviso di non volerci rimetter le mani sopra? R – Sì, caro Dante.
Spero che altri portino avanti il discorso iniziato. Gl’indizi non
mancano. Son già in cantiere due congressi per il cinquantenario
del Vaticano II: l’uno, nel 2012 per celebrar i cinquant’anni
dall’inizio e l’altro per il 2015 per i cinquant’anni dalla fine.
Chissà che non sia l’occasione buona per rimetter in sesto una
situazione che, sotto l’azione della famigerata volgata, s’è
ammalata d’elefantiasi, fin a fare del Vaticano II o l’unico Concilio
della Chiesa, o la sintesi del magistero ecclesiale di tutti gli altri.
Io ho fiducia. Se è vero, come sembra, che già si
comincia a concedere d’interpretare “con libertà” qualche
dichiarazione conciliare, vuol dire che siamo sulla strada buona e ne
ringrazio il buon Dio. Così come ringrazio te, per la tua
intervista.
D.P. – No, sono io che ringrazio Lei per avermela concessa. (torna
su)
settembre 2011 |