La licenza umanitaria di uccidere

di Patrizia Fermani


Articolo pubblicato sul sito Riscossa Cristiana






Il 14 dicembre scorso, in articulo mortis, è il caso di dirlo, il Parlamento ha prodotto la legge sulle c.d. Dat, giusto in tempo perché non fosse affossata dallo scioglimento delle Camere, e il popolo non godesse anzitempo di questa sospirata liberazione. Bisogna riconoscere che in tal modo è stata anche rispettata l’unica tradizione nazionale ancora viva, quella per cui le leggi più infami vengono elargite alla vigilia del Natale o il giorno prima di Ferragosto. Chissà perché.

D’altra parte l’evento era ineluttabile, considerata la qualità delle maggioranze che hanno votato la legge e dei suoi instancabili propagandisti. A proposito di questi ultimi è davvero curiosa la loro già storica foto di famiglia con cartelli che invocano quale prossimo traguardo legislativo “perfino” l’eutanasia.
Ora delle due l’una: o costoro non conoscono il contenuto della legge, cosa altamente improbabile dato che elogiano il Parlamento per la bellezza della impresa, oppure lo conoscono benissimo, ma puntano a rassicurare il passante, nonché imminente elettore, su un provvedimento tutto ispirato dall’amore per il prossimo da eliminare, magari in ossequio a superiori motivi di interesse nazionale.

In ogni caso solo chi non vuol vedere può ignorare che la legge regalataci per Natale prevede l’affidamento delle vite indifese all’arbitrio altrui, e che essa spalanca la porta in ultima istanza all’omicidio legalizzato, perché con le “Disposizioni Anticipate di Trattamento”, si consegna in anticipo la propria vita ad un terzo incaricato di decidere se essa ad un certo momento sia ancora degna di essere vissuta o debba essere troncata da una morte che a lui appaia “buona e bella”.
Abbiamo insomma un omicidio autorizzato dalla vittima ma senza quella attualità del consenso, richiesta da sempre non per escluderne la punibilità ma solo per attenuare la gravità della pena.

Ma questo è il punto di approdo di un fenomeno più vasto ben rappresentato dalla stessa metamorfosi della parola “eutanasia” e dal nuovo significato che essa è venuta ad assumere ai tempi nostri.

I Greci sublimarono l’orrore e il timore della morte, elevando ad evento virtuoso la vita sacrificata per un valore più grande. La morte diventava allora bella e desiderabile, eutanasia appunto, se cercata o subita in nome dell’onore, delle virtù guerriere, dell’amore per la Patria, o del disprezzo filosofico verso le cose terrene. E tutto in base all’idea che ogni animo nobile possa scegliere liberamente il proprio destino obbedendo ad un’etica superiore.
L’idea della morte bella perché gloriosa, onorevole o utile per la polis poteva persino indurre una madre a raccomandare al figlio che andava in guerra, di tornare “con lo scudo o sullo scudo”. Dunque se eutanasia era la morte foriera di gloria e testimonianza di valore, da acquistare a se stessi, col verbo contiguo “eutanateo”, si poteva dire “mi avvalgo di una bella morte”.

Invece, nella lezione moderna, eutanasia è diventata la somministrazione ad altri della “buona morte”, cioè di una morte inflitta in quanto chi la procura la ritiene vantaggiosa per la vittima.

Inoltre la morte diventa bella e buona non per gli antichi motivi spirituali o morali, che anzi non vengono neppure più compresi e apprezzati. Essa invece è buona e bella perché solleva da una condizione psico fisica infelice che compromette “la dignità” personale. E quest’ultima, a sua volta, non sta, come si è sempre ritenuto, nel valore in sé dell’uomo, che è creatura superiore irriducibile a cosa in virtù della propria sostanza intellettuale e spirituale. La nuova dignità coincide con il benessere psicofisico, riconosciuto quale bene primario di ogni individuo dalla società materialista in cui egli vive. Insomma la morte è buona se e in quanto sollevi da una vita cattiva perché materialisticamente indegna di essere vissuta. Di conseguenza l’intervento del terzo che la infligge è per definizione“ umanitario”.

Dovrebbe essere evidente che tale idea rovesciata di eutanasia, intrinsecamente pericolosa perché capace di aggredire il principio di inviolabilità della vita altrui, non ha nulla a che fare con quella pietas che nella sfera degli affetti famigliari spesso è chiamata a governare i momenti estremi della esistenza dei nostri cari, in uno spazio di sofferenza comune dove non entrano schemi ideologici o programmi politici, o nuovi dogmi culturali, ma soltanto la tensione della coscienza responsabile.
Come sa chiunque abbia dovuto decidere il momento in cui sia necessario ricorrere alla morfina.

La nuova eutanasia è diventata invece la bandiera di un agguerrito conglomerato politico di nicchia, con la missione di attaccare i gangli vitali della società attraverso la diffusione di falsi concetti capaci di minare lo stesso ordinamento.
L’idea eutanasica infatti trovava davanti a sé l’ostacolo oggettivamente insuperabile della legge penale che punisce chiunque cagioni la morte di un uomo indipendentemente dai motivi da cui è stato guidato, e dal consenso, sempreché attuale, della vittima: motivi, per quanto sedicenti umanitari, e consenso attuale possono solo attenuare la gravità del fatto, ma mai aggredire il principio della inviolabilità della vita umana.
Così anche dopo l’introduzione del consenso informato per cui si può rifiutare ogni tipo di intervento terapeutico sul presupposto che la sperimentazione scientifica possa minacciare la dignità della persona, i principi fondamentali del sistema penale hanno continuato a respingere l’onda d’urto di idee tanatofile sempre più aggressive.

Tuttavia queste forze non si sono di certo arrese, perché avevano come obiettivo proprio lo stravolgimento del sistema giuridico: se la morte viene inflitta nell’interesse di chi la subisce, questo basta a renderla anche lecita. Così, per altro verso, ogni intento suicidiario deve essere rispettato e incoraggiato e tutelato dalla legge in ossequio alla autodeterminazione, il principio cardine su cui ruota la modernità.

Ad aprire inesorabilmente questa strada è intervenuta la “Cassazione secondo Englaro”, cioè, quel provvedimento, sostanzialmente illegittimo perché costruito di proposito in spregio alla legge e ai principi fondamentali dell’ordinamento, con cui fu decretata di fatto la morte per fame e per sete della povera Eluana, sul presupposto che anche il minimo sostegno vitale di cibo e acqua, sufficiente ad assicurarle la sopravvivenza, potesse essere sospeso perché la sua era una vita indegna di essere vissuta.

Lo sgomento suscitato allora da una vicenda tanto sconvolgente ha consigliato un lungo periodo di gestazione per una legge che doveva essere modellata in ogni caso sulla impalcatura spavaldamente messa in piedi dalla cassazione, e poi reclamizzata ossessivamente in ogni contrada dal suo piazzista.

Frattanto, il progetto della legge eutanasica prossima ventura è stato agghindato da “testamento biologico”, dopo un debutto in società procacciato dalle parole fuori posto di alti prelati che avevano scoperto l’esistenza di un “fine vita” bisognoso di regolamentazione legislativa. In seguito si sarebbe passati all’acronimo attuale, che suona innocuo come il Zyklon B, e ora è inciso sul frontone della legge approvata a larghissima maggioranza che perfeziona addirittura lo schema Englaro e ne fa proprio il registro grave e patetico.
Questa legge è infatti anche un capolavoro di fariseismo legislativo.

L’articolo 1 proclama con uno stupefacente afflato etico, che suona sinistramente beffardo, di difendere anzitutto la vita insieme ad altre belle cose come la salute, la dignità e l’autodeterminazione.

Con altrettanta enfasi all’articolo 2 viene professata una compunta fiducia nella sapienza umana e professionale del medico.
Ma all’articolo 3 si stabilisce che nel caso in cui il medico ritenga necessario sottoporre un minore ad una certa terapia, e sia in disaccordo per questo con il legale rappresentante, la decisione debba essere rimessa al giudice tutelare. Insomma Charlie Gard non è passato invano.

Ora dovrebbe apparire evidente come l’attuale concetto di eutanasia si inserisca fra le mostruosità che segnano il destino infelice di una civiltà allo sbando, proprio in quanto un terzo viene autorizzato per legge a decidere della sopravvivenza altrui, secondo l’idea che egli abbia della dignità della vita umana.

Allo stesso modo anche la propria morte commissionata a terzi, quale forma di suicidio per interposta persona, vantata come espressione suprema di autodeterminazione, è in realtà una consegna cieca all’arbitrio altrui su licenza dello Stato.

In questa chiave la moderna eutanasia assume senza difficoltà la forma sinistra di una macelleria umana gestita dal potere, che sarà perfezionata, e qui bisogna darne atto ai signori in posa davanti al Parlamento, solo quando sarà consentito per legge uccidere non per il bene della vittima, ma per l’interesse proprio.

Eppure il popolo sovrano sembra già rassegnato perché, come accade da decenni a questa parte, ogni tensione emotiva viene alla fine risucchiata dall’autorità della legge, il totem che troneggia sulla dissoluzione di tutti quei principi etici fondamentali per la umana convivenza, che erano soprattutto cristiani, e avevano fornito anche alle leggi il criterio per essere leggi giuste.

Non per nulla, come faceva notare Alessandro Gnocchi la settimana scorsa, a proposito di un bel neologismo che descrive a pennello certe relazioni pericolose, esponenti di spicco della fu Chiesa cattolica si inculturano amabilmente in casa radicale.
E quest’ultima in effetti corre per tale motivo notevoli pericoli.





febbraio 2018
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