Dalla “scelta religiosa” alla politicizzazione della Chiesa. Il Papato diventa un partito?


di Guido Vignelli


Pubblicato su Riscossa Cristiana
in due parti:  prima parte - seconda parte






Com’è noto, una delle ragioni addotte per convocare l’ultimo Concilio Ecumenico fu l’intenzione di riformare la Chiesa riconducendola alla sua originaria missione religiosa e liberandola dai suoi legami con la vecchia politica istituzionale. Questo impegno fu innanzitutto pratico e, nei Paesi latini, si concretizzò nella cosiddetta “svolta religiosa”; ma fu anche un impegno teorico che produsse importanti cambiamenti nella dottrina ecclesiale.
Ad esempio, si misero fra parentesi le fondamenta teologiche della dottrina sociale della Chiesa, riducendo la teologia politica e il diritto cristiano a una “morale sociale” dimentica dei diritti di Dio e della Regalità di Cristo e preoccupata principalmente di tutelare i “diritti umani” e di realizzare finalità naturali come la “promozione umana”. L’antico programma di costruire o restaurare la Cristianità fu ripudiato e la Chiesa cessò di proporsi come modello per la società, anzi si mise a imitare i modelli sociali proposti dalla civiltà contemporanea.

Di conseguenza, l’autorità ecclesiastica rinunciò a far valere un proprio diritto pubblico e favorì la separazione della Chiesa dagli Stati, rompendo o sovvertendo i legami e i patti con le istituzioni e le autorità politiche di allora, anche se cattoliche – anzi, soprattutto se si pretendevano cattoliche!
Piuttosto che con autorità ancora legate al vecchio “regime di Cristianità”, si preferì collaborare con Stati e Governi “laici”, ossia in realtà laicisti, favorevoli alla “riforma della società e della Chiesa” in senso modernizzante.

Inoltre, l’autorità ecclesiastica progettò di demolire gradualmente il vecchio sistema del diritto canonico, affinché la Chiesa non si organizzasse più come una rigorosa “società perfetta”, ma si limitasse ad essere una “società di soccorso spirituale” (oggi si direbbe come un “ospedale da campo”) finalizzata a favorire la “solidarietà globale” e la pace nel mondo. Quindi, niente più giuridicismi, regole, procedure, sentenze, uffici; meno spazio alla Legge e alla Lettera e più spazio allo Spirito e all’Amore!

Per giustificare questa “svolta religiosa”, l’autorità ecclesiastica disse ch’essa era necessaria per “de-politicizzare” la vita ecclesiale liberandola dalla contiguità alla politica e anche a questo fine fu lanciato il famoso slogan per una “Chiesa post-costantiniana”.

Eppure, il risultato ottenuto è stato opposto a quello sperato. Paradossalmente, dopo il Concilio, specialmente in questi ultimi tempi, la Chiesa visibile è rimasta sempre più invischiata nelle faccende temporali, la vita ecclesiale si è sempre più politicizzata e burocratizzata e il sistema di governo ecclesiastico va sempre più assomigliando a quello di un partito politico sui generis.

Ciò è dovuto in parte al fatto che, col tempo, la Chiesa si è sempre più posta al servizio della “promozione umana”, ad esempio facendosi paladina dei cosiddetti “diritti umani”, promuovendo la “teologia della liberazione” e, recentemente, fiancheggiando i movimenti no global e quelli sindacali progressisti. Inoltre, in molte nazioni, come quella italiana, la “svolta religiosa” della Chiesa ha favorito il laicismo politico e di conseguenza la vita politica è decaduta sempre più, sia come efficienza che come credibilità; per rimediare, la Chiesa è stata obbligata a riempire il vuoto lasciato da una politica in crisi mettendosi a gestire settori prima riservati al governo statale o locale, come nel caso dell’attività assistenziale (welfare). Infine, nel campo della politica internazionale, la Chiesa ha avviato il collateralismo con l’O.N.U. e con l’Unione Europea, impegnandosi a collaborare alla costruzione della mitica “repubblica democratica universale”.

Sicché, il vecchio collateralismo della Chiesa con i regimi “d’ispirazione cristiana” (in realtà, democristiani) è stato sostituito dal nuovo collateralismo con regimi e poteri non solo laicisti ma anche globalisti.

Di questa situazione possiamo rendercene conto, se paragoniamo le caratteristiche del partito politico contemporaneo con quelle dell’attuale sistema ecclesiastico.
Lo facciamo seguendo l’analisi fatta un secolo fa da un grande sociologo cattolico – Augustin Cochin – il quale, studiando le “società di pensiero” illuministiche e i circoli politici giacobini che avviarono o pilotarono la Rivoluzione Francese, li considerò come modello storico originario degli attuali partiti politici, (cfr. Augustin Cochin, La Révolution et la libre pensée, Paris 1913 / Le società di pensiero e la Rivoluzione francese. Meccanica del processo rivoluzionario, Il Cerchio, Rimini 2008). Teniamo però presente che ovviamente nessun partito contemporaneo realizza perfettamente quel vecchio modello.

Ci sono alcune caratteristiche, tipiche del partito politico rivoluzionario, che possiamo ritrovare non solo nella vita politica, ma anche in quella ecclesiale odierna. Facciamo alcuni esempi.

Quasi tutti i partiti politici pretendono di agire per realizzare il bene comune della società. Eppure, sebbene il concetto stesso di bonum presupponga quello di verum, il moderno partito non ammette verità né bene oggettivi, nemmeno morali o politici, che siano preesistenti alla propria ideologia o ai propri programmi di azione.
Il partito infatti si costituisce raccogliendo seguaci uniti non dalla verità oggettiva, ma al fine di “cercare insieme” una verità ideologica funzionale al successo e agl’interessi del partito. Il partito quindi non pensa per assimilare una verità conosciuta come reale, ma per inventarsi una verità fittizia; non agisce per realizzare un bene comune desiderato come fine, ma per costruirsi un bene comune fittizio voluto come strumento utile a realizzare il proprio progetto di società, il quale a sua volta deriva dalla propria ideologia fondante. Il partito politico è dunque auto-referenziale sia nel pensare che nell’agire.

Di conseguenza, il partito non ha una vera filosofia politica ma ha solo una fittizia ideologia societaria finalizzata a attirare consensi, avere successo e conquistare il potere; l’ideologia è infatti una costruzione intellettuale, applicabile mediante una strategia di propaganda culturale e di azione sociale, che si fonda non sul bonum honestum ma sull’utile prevedibile. Pertanto, servendo a giustificare la politica concretamente svolta dal partito, l’ideologia è mutevole, cambia anche radicalmente secondo le situazioni e le necessità del partito in azione.
L’ideologia partitica è una forma di pragmatismo che rifiuta verità e beni oggettivi, al massimo ammette nemmeno vaghi “valori” variamente interpretabili, ma impone l’utile settoriale, contingente e momentaneo del partito, o meglio della cricca che lo gestisce dall’interno o lo controlla dall’esterno. Pertanto, l’implicita massima del partito è: “transigenza sull’essenziale ma intransigenza sull’accidentale”, ossia il metodo opposto a quello delle società naturali.

Eppure, se vuol essere efficace, il partito deve ottenere dal proprio partigiano un’adesione sincera, convinta e appassionata all’ideologia; pertanto questa deve ingannarlo presentandosi non come una mera opinione ma come una verità universale e necessaria, sebbene settoriale ed effimera; parimenti, il programma del partito, se vuol essere obbedito, deve presentarsi come un bene oggettivo e vincolante, sebbene relativo e momentaneo. Così facendo, il partigiano finisce col subire una sorta di schizofrenia che lo porta a rinunciare a verità e bene oggettivi per obbedire a una opinione e ad una utilità convenzionali e continuamente cangianti.

Contrariamente a quanto spesso si pretende, questo relativismo ideologico e morale del partito non tollera chi ha opinione diversa o prassi divergente: anzi, proprio il fatto di non ammettere verità e bene oggettivi fa sì che le opinioni e le direttive partitiche, per quanto arbitrarie e mutevoli, siano imposte come ingiudicabili e inappellabili. Si tratta del famoso metodo del “centralismo democratico”, vigente non solo nei partiti social-comunisti ma anche in quelli liberali, sebbene in modo più elastico. La direzione del partito non tollera dissidenze dalla ideologia propagandata né disobbedienze alla strategia scelta: si può discutere quanto si vuole, ma quando il partito ha preso una decisione, questa dev’essere rispettata sempre da tutti. Pertanto, la libertà di opinione e di azione dei partigiani finisce dove cominciano le posizioni e le direttive emesse dal partito.

Il partigiano che non si allinea alle idee e alle direttive del partito è un “nemico oggettivo” che “fa il gioco dell’avversario”, insomma è un “traditore del popolo” e viene trattato di conseguenza. Se poi la direzione del partito controlla anche la società civile e decide le sorti delle persone, il dissidente rischia l’isolamento totale e la “morte civile”, se non il carcere e peggio.
In nome della libertà politica e come applicazione della “sovranità popolare”, già il liberale Rousseau, nel suo celebre Contrat social, aveva previsto la pena di morte per i dissidenti e lo aveva ripetuto il comunista Trotzskij con il suo motto “chi non obbedisce non mangia”.





Oggi notiamo che non solo lo stile, ma anche il metodo di pensare, parlare ed agire della Chiesa stanno diventando sempre più simili a quelli di un partito politico. Ciò sta provocando un mutamento sostanziale non solo nella pastorale ma anche nella dottrina della Chiesa.

La dottrina si è ridotta a ideologia, ossia a giustificazione dell’azione ecclesiale. A sua volta, l’ideologia ecclesiale tende a ridursi a un programma pastorale, senza necessaria coerenza con una visione globale della realtà. A sua volta, il programma pastorale punta solo a ottenere un risultato pratico ritenuto conveniente.

La certezza delle verità di fede viene sempre più messa in discussione. Verità eterne, concetti definiti, ragionamenti rigorosi, leggi sacre, metodi  sicuri, sono tutti disprezzati come prodotto d’ideologie astratte imposte da intellettuali estranei alla vita reale; simboli, definizioni e canoni della Fede sono sostituiti dalla “teologia narrativa”; l’insegnamento formativo è sostituito dalla problematica ermeneutica e dalla “predicazione parenetica” (ossia esortativa); catechismi, manuali e codici sono bollati come “verità preconfezionate” che ostacolano lo sviluppo della “creatività ecclesiale” e sostituiti da prontuari di soccorso misericordioso per le “anime ferite” ricoverate nell’“ospedale della Chiesa”; l’apostolato finalizzato al proselitismo e alla conversione è sostituito dalla “pastorale inculturata e inclusiva” che usa un linguaggio vago, emotivo, grossolano, demagogico, povero di dottrina ma ricco di parole magiche, slogan, frasi fatte, perfino battute volgari e vignette irriverenti.

Parallelamente e coerentemente, anche la certezza delle verità morali viene sempre più messa in discussione. Leggi assolute, norme stabili e procedure sicure sono disprezzate perché peccano di fissità, astrattezza ed estraneità al progresso della storia, alla “mutazione antropologica”, alla concretezza della situazione e alla libertà di pensiero e di azione. La libertà di coscienza, di sensibilità e di azione, la misericordia incondizionata, il “discernimento delle intenzioni”, la “condivisione delle situazioni” e l’“inclusione nella comunità ecclesiale”, esigono che “le situazioni non siano giudicate dall’esterno ma siano vissute dall’interno”, perché “è nel flusso della vita che bisogna capire, decidere e soccorrere”.

Del resto, oggi si dice che il compito della Chiesa non sta più nel fornire risposte che danno certezze né soluzioni che danno sicurezze, ma sta solo nell’accompagnare il fedele nel suo porsi domande e affrontare problemi da risolvere liberamente in coscienza, valutando “caso per caso”, senza sottomettersi a una legge morale ritenuta “astratta ed esteriore”.

Pertanto, chi si ostina nel difendere la certezza e sicurezza della morale naturale o anche evangelica, affermandone i diritti e imponendone i doveri, viene accusato di essere “ipocrita moralista”, “insensibile dottore della legge” e “carnefice delle coscienze”, colpevole di misconoscere la “trascendenza delle persone”, la creatività delle coscienze, la varietà dei casi concreti e la “ingiudicabilità delle situazioni”.

Sembra che il magistero ecclesiastico stia perdendo non solo l’autentico senso della verità rivelata, ma perfino le categorie logiche e metafisiche della philosophia perennis, e, prima ancora, quel buon senso che nella Chiesa si è sviluppato anche grazie alla saggezza di quella filosofia e teologia tradizionali. Ormai dilaga un magistero informale, pluralista, problematico, “a ruota libera”, che interviene occasionalmente disprezzando e anzi deridendo la coerenza di ragionamento, la chiarezza d’insegnamento e l’uniformità d’interpretazione.

Se poi qualcuno chiede chiarimenti che obbligano a giustificare i cambiamenti avvenuti, allora il discorso magisteriale diventa improvvisamente assertivo, apodittico, impositivo, grossolano; le analisi e le direttive semplicistiche e approssimative vengono giustificate da elucubrazioni e complicate, contorte, sofistiche. Lo stesso accade nelle ideologie politiche dei partiti: ad esempio, quelli marxisti giustificavano la loro brutale “lotta di classe” con sofisticate analisi intellettuali.

Se l’antico saggio motto ecclesiale diceva “in veritate unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas”, il motto oggi dominante invece dice: “in veritate libertas, in dubiis charitas, in omnibus unitas”; si è liberi di credere ciò che si vuole e di mettere in dubbio le verità, ma bisogna essere tutti uniti in questa nuova ideologia priva di coerenza. Quindi, l’unico peccato grave rimasto è quello di rompere la “comunione ecclesiale”; eresie, perversioni e sacrilegi sono solo peccati veniali da perdonare o piuttosto di malintesi da dissipare.

La crisi del senso del verum e del bonum provoca inevitabilmente anche quella dello justum. Di conseguenza, la certezza del diritto è sempre più messa in discussione nella Chiesa, e con essa anche la certezza dell’autorità legittima. Questa viene sostituita dall’auto-referenzialità del potere costituito, ossia dall’arbitrarietà e dalla volubilità di un governo assoluto esercitato da un “capo carismatico” e dal “partito del capo” nel contesto di un sistema ecclesiale “democratico”. Il capo e il suo gruppo dominante pretendono di agire come demiurghi di una nuova Chiesa identificata col nuovo “Popolo di Dio”, essendo qui il popolo dichiaratamente esaltato come realtà “mitica”; la mitizzazione del popolo produce la demitizzazione del Papato e la secolarizzazione del governo ecclesiastico.

Di conseguenza, la certezza e la correttezza del diritto ecclesiale e dello stesso diritto canonico sono sempre più messe in discussione in nome della libera coscienza da venerare, della spontaneità dell’agire, dell’accompagnamento da ricevere, della misericordia da assicurare, del “popolo” da esaudire, dei “giovani” da sedurre.

Se una volta la Chiesa era unita nella dottrina da insegnare sebbene divisa nella strategia da seguire, oggi la vita ecclesiale è “pluralistica”, dunque divisa sull’essenziale, ossia sulla dottrina di fede e di morale da professare e da insegnare, ma è (apparentemente) unita sull’accidentale e sullo strumentale, ossia nei capi da seguire e nella prassi da eseguire.
Tutto si riduce nell’obbedire alle decisioni del capo, nel seguire le procedure della direzione, nell’inserirsi nel sistema funzionale. Come già sarcasticamente Kierkegaard constatava ieri per la Chiesa protestante, oggi anche per quella cattolica “non c’è più bisogno di miracoli, perché bastano le istruzioni per l’uso”.
Molti anni fa, il vescovo di Viterbo – mi pare si chiamasse Boccanera – sentenziò che “il fondamento della Fede consiste nella obbedienza ai legittimi Pastori”; allora, questa uscita fece ridere tutti per la sua ignorante protervia, ma oggi è diventata una massima ecclesiale obbligante.

E così, la regola della Fede e dell’appartenenza alla Chiesa non è più la verità ma l’opinione e la direttiva di attualità: flessibilità nella dottrina e nella morale, rigidità nella prassi pastorale. Oggi è lecito mettere in dubbio o reinterpretare o addirittura negare sfacciatamente fondamentali verità di fede, di morale e di diritto, ma non è lecito mettere in discussione l’ultimo “progetto pastorale” varato dalla parrocchia o dalla diocesi o dalla Conferenza episcopale o dalla Santa Sede.

Esempio concreto: se qualcuno critica l’enciclica Humanae vitae, ritenendola sorpassata, ma elogia la esortazione apostolica Amoris laetitia, ritenendola aggiornata, egli è benevolmente considerato “in piena comunione” (o almeno in “parziale comunione”) con i legittimi Pastori e col Papa stesso; ma se un cattolico fa l’esatto inverso, egli è malevolmente considerato “fuori dalla comunione” della Chiesa e nemico del Papa. La motivazione che ne viene data è semplice: l’enciclica di Papa Paolo VI è del 1968, per cui può essere rifiutata in quanto “superata dalla storia”; ma l’esortazione apostolica di Papa Francesco è del 2016, dunque è un programma del futuro, per cui non può essere criticata in quanto è “aggiornato alla situazione”, è “tradizione vivente” adeguatasi ai “tempi che cambiano”.

Con questi paradossali criteri di giudizio, diventa molto problematico capire chi è davvero cristiano cattolico, chi è dentro o fuori della Chiesa. Una volta si diceva che è nella Chiesa chi professa la fede e la morale evangeliche, frequenta i Sacramenti e vive in obbedienza ai legittimi Pastori in comunione con il Sommo Pontefice. Ma ormai la fede e la morale sono subordinate alla “inculturazione”, ossia alle opinioni e alle esigenze dettate dai tempi e dai luoghi, i Sacramenti possono essere concessi anche a chi non ha la fede o non è in stato di grazia.

Quanto ai Pastori, da una parte, in nome della collegialità, essi possono porsi in dissidenza da Roma e agire come autocrati della loro diocesi, purché, in nome della democrazia, essi deleghino la loro autorità in alto alla loro Conferenza Episcopale e in basso ai loro comitati diocesani.
Quanto al Sommo Pontefice, in nome dell’ecumenismo e ancora della collegialità, egli oggi si proclama “non cattolico” e si riduce a mero “vescovo di Roma”, riservandosi però di pretendere obbedienza assoluta quando vuole imporre una decisione ecclesiale o un progetto pastorale qualsiasi, per quanto possano essere in contrasto con la giustizia, la morale e perfino la fede.

Sicché oggi abbiamo, da una parte, individui e movimenti sedicenti cattolici elogiati dalle autorità ecclesiastiche in quanto “in piena comunione” con loro, anche se essi non professano la vera Fede né la retta morale; dall’altra parte, abbiamo individui e movimenti palesemente non-cattolici, o anche anti-cattolici, elogiati dalle autorità ecclesiastiche perché ritenuti “in parziale comunione” con loro; infine abbiamo individui e movimenti veramente cattolici, ma disprezzati e condannati dalle autorità ecclesiastiche perché ritenuti “non in comunione” con loro e privi di sensus ecclesiae, per il solo fatto di non concordare con l’ultimo progetto pastorale o con l’ultima teologia alla moda. Insomma, come si diceva una volta: si agisce da “deboli con i forti ma forti con i deboli”.
 
Insomma, non è più la vita umana a doversi adeguare alla Verità rivelata per compiere il Bene e raggiungere la Vita eterna, ma al contrario, è la Verità che deve adeguarsi alla vita umana per ottenere il progresso temporale e la salvezza terrena.
Come ammoniva Romano Amerio, l’ordine interiore della divina Trinità è sovvertito: lo Spirito Santo non procede più dal Logos ma solo dal Padre, ossia il bene non è più applicazione della verità ma solo imposizione del potere. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: confusione dottrinale, licenza morale, decadenza liturgica, anarchia disciplinare, le quali provocano “vergognose contraffazioni, amorfe imitazioni, scandalose immagini, infami parodie” (Charles Péguy).

Ciò significa che oggi la vita della Chiesa non è sottomessa a una legittima e coerente autorità, ma è sia libera di essere arbitraria, sia tiranneggiata dal sopruso.
Già nel 1970, alcuni studiosi cattolici sostenevano – prove in mano – che la Chiesa visibile non è tanto la “cittadella assediata” da un esercito nemico, quanto la “cittadella occupata” da un manipolo nemico infiltrato.

In questa Chiesa oggi si affrontano i pochi Davide cattolici, con dietro il “resto d’Israele”, e un Golia modernista, con dietro la turba filistea dei novatori; occorre che i Davide tirino fuori la loro fionda e mirino bene al nemico. Se saprà approfittare delle grazie e delle occasioni propizie offertegli dalla divina Provvidenza, il pusillux grex davidico ed evangelico potrà abbattere la scelesta turba modernista.


aprile 2018
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