La novella dello stento
ovvero
La disputa sull'interpretazione
del Vaticano II

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di Mons. Brunero Gherardini

L'articolo è stato pubblicato su Riscossa Cristiana con la seguente premessa
del Prof. Dante Pastorelli

Ancora una volta l’Amico e Maestro mons. Brunero Gherardini, in attesa che esca l’ultimo suo volume sui problemi posti dal Vaticano II, dal Magistero che ad esso si richiama e dalle riforme che ne sono scaturite, mi fa l’onore d’inviarmi un intervento che chiarisce al colto e all’inclita, o a presunti tali, la sua posizione teologica in questo delicato campo: una posizione da molti condivisa ma da alcuni contestata non sempre col garbo ed il rispetto che richiederebbe un dibattito sereno ed a così alto livello.
Questo saggio, suggerito dalla lettura di osservazioni critiche a giudizio dell’illustre teologo tutto fuor che convincenti, e ravvivato anche da qualche motivata battuta dal salace sapor toscano, affronta con grande rigore scientifico ed ineffabile amore per la Chiesa il tema Concilio, Magistero ed ermeneutica della continuità, che sembra non doversi mai esaurire (“la novella dello stento”). È prevedibile che il presente lavoro non solo avrà larga eco ma susciterà reazioni che mi auguro positive e propositive, non viziate alla base, cioè, da quell’ “infallibilismo”, pericoloso quant’ormai diffuso nella sua banalità, a cui s’aggrappa chi è a corto di solidi argomenti per spiegar certe discontinuità e certe equivoche formulazioni caratterizzanti vari documenti del Vaticano II, ramificatesi e proliferate successivamente in ambito dottrinale e liturgico nel nebuloso e tempestoso post-concilio. Discontinuità ed equivoche formulazioni che non devon esser mai sfuggite agli occhi ed alla mente del card. Ratzinger ed ora Sommo Pontefice felicemente regnante, se, oltre a giudicar gravissima, ingiustificabile, mai occorsa nella storia della Chiesa, la rottura liturgica operata da Paolo VI – e ciò sin dal 1976, lettera al prof. Valdenstein - tanto s’impegna a proclamar un’indimostrata continuità, e se agl’Istituti “Ecclesia Dei” o post Summorum Pontificum è stato concesso il diritto di discuter i punti del Magistero conciliare che ad essi non appaion conciliabili con il Magistero precedente e la Sacra Tradizione.
Un esempio per tutti: ecco cosa dichiara mons. Rifan, Amministratore Apostolico della Società S. Giovanni Maria Vianney, in un’intervista rilasciata ad ITEM (“Entraid et Tradition”) il 14 gennaio 2004:

ITEM: Nella fedeltà a Mons. De Castro Mayer, il vostro gruppo sacerdotale aveva mantenuto una critica molto forte e argomentata delle innovazioni conciliari: libertà religiosa, ecumenismo, vaghi principi della collegialità episcopale, falsi fondamenti del dialogo con le religioni non cristiane. La vostra nuova situazione vi permette di far sentire “dall’interno” queste stesse critiche teologiche?
Mons. Rifan: Noi conserviamo la stessa posizione cattolica, la nostra posizione di sempre. Siamo per la regalità sociale di Cristo Re, siamo contro la libertà religiosa in quanto relativismo dottrinale, laicismo dello Stato, indifferentismo e sincretismo religioso, uguaglianza di tutte le religioni davanti alla legge; in una parola siamo contro la libertà religiosa condannata da Gregorio XVI, Pio IX e Pio XII. Noi siamo contro l’ecumenismo di complementarietà, o l’irenismo, e siamo per il ritorno o la conversione dei separati. Siamo contro la democratizzazione della Chiesa a tutti i livelli. Evidentemente, noi abbiamo il diritto di criticare gli errori e di presentare le nostre critiche costruttive, nel rispetto delle persone, alle autorità della Chiesa! Io mantengo la stessa analisi che fece Mons. De Castro Mayer, nelle sue Lettere Pastorali, nei confronti dei testi del Vaticano II.

Che poi tutti questi Istituti non abbian intavolato, come spesso ho scritto, un serio confronto teologico con la S. Sede su codesti temi che più o meno a tutti stann’a cuore, o che, se v’è stato, non ne abbian reso pubblico l’esito, è molto significativo. Se chiarimenti soddisfacenti o addirittura definitivi verranno, ne va riconosciuto il merito alla Fraternità S. Pio X, qualunque sia il risultato dei difficoltosi colloqui che, stante il loro prolungarsi, non prospettano una riconciliazione a breve termine. Con grave danno per l’intera Chiesa, non solo della Fraternità fondata da mons. Lefebvre.

Mons. Gherardini ricorda, a riprova della fallibilità del Papa al di fuori dell’ambito stabilito una volta per tutte dalla Pastor Aeternus, il solo caso di Onorio I e il monotelismo. Avrebbe potuto anche indicar l’altro ben noto, anch’esso controverso, di Liberio e l’arianesimo. Ancor più significativa ai miei occhi appar l’eclatante eresia di Giovanni XXII che, in tre omelie pubbliche, e quindi nel pieno esercizio del suo munus docendi, da considerarsi almeno Magistero ordinario autentico, quali debbon esser qualificate ad es. le catechesi pontificie, e poi in una dissertazione a sua difesa contro la giustamente indignata sollevazione dei cardinali, sosteneva l’aberrante concezione secondo la quale le anime dei giusti dimoranti sub altare Dei godessero della visione dell’umanità di Cristo e non venissero ammesse se non dopo il giudizio universale alla visione beatifica dovuta solo all’uomo ricomposto nell’unità di anima e corpo nella resurrezione. E solo dopo il giudizio universale, insegnava anche, i demoni ed i dannati sarebbero andati al castigo eterno. Una commissione di cardinali e teologi condannò questa dottrina eterodossa e il Papa ritrattò il giorno prima della morte.
Evidenziare i confini dell’infallibilità pontificia o conciliare non costituisce erosione o addirittura negazione di questa sublime prerogativa ch’è, in quanto dogma, Verità di Fede, tutt’altro: significa ferma volontà indiscutibilmente cattolica di salvaguardarne l’intero valore e richieder per essa l’obbedienza assoluta quando sia esplicitamente, inoppugnabilmente impegnata dal Pontefice che parli come Vicario di Cristo, Pastore e Maestro universale.


La novella dello stento
ovvero
La disputa sull'interpretazione
del Vaticano II

È probabile che i lettori più giovani mai prima d’ora si sian imbattuti nell’espressione la novella dello stento. Da ragazzo, la udivo quasi tutte le sere, al momento in cui, dette le preghierine ed ascoltata l’ultima fiaba prima che m’addormentassi, la nonna ricominciava la novella appena terminata, premettendo: “questa è la novella dello stento, che dura tanto tempo e che non finisce mai”. C’era anche un’altra espressione per indicare l’insopportabile ripetersi di qualcosa: lungo/a come la camicia di Meo. E’ mia impressione, soprattutto leggendo certi Autori, che anche l’interpretazione del Vaticano II sia diventata “lunga come la camicia di Meo”, ripetitiva cioè e superficiale, ed appunto per questo una vera “novella dello stento”. Alludo ad Autori nei quali mai si coglie un sia pur flebile tentativo d’approfondimento, uno sforzo di comprensione alla luce delle fonti, del Magistero e dei “probati Auctores”, un’analisi contenutistica e comparata dei documenti conciliari; mai una verifica fra il dettato conciliare e le note a piè di pagina che dovrebbero confermarlo e documentarlo, oppure fra questo dettato conciliare e quello dei precedenti Concili ai quali vien fatto appello. Si ripete fin alla stanchezza, proprio come quella prodotta dalla “novella dello stento”, che il Vaticano II è infallibile anche se non è dogmatico, perché – e qui sta l’unico immane erculeo sforzo di fondazione critica – è assistito dallo Spirito Santo.

1 - Ai sostenitori d’una tale giustificazione, dai medesimi ritenuta apodittica ed indiscutibile, non passa neanche per l’anticamera del cervello ch’essa sia aprioristica sul piano filosofico e fideistica su quello teologico. Dico aprioristica non nel senso scolastico della dimostrazione “a priori”, dalla causa ch’è prima all’effetto ch’è dopo – o dall’universale che logicamente è anteriore al particolare, il quale è quindi posteriore – ; bensì nel senso moderno e kantiano del termine, vale a dire di forme che, indipendenti dall’esperienza, la condizionano e quindi la precedono. In tal senso, infatti, il predetto unico immane erculeo sforzo di fondazione critica dichiara che prima di tutto, soprattutto e prescindendo da tutto sta l’assistenza dello Spirito Santo e che tutt’il resto (ogni documento conciliare) ne dipende. Potrà mai, allora, non esser infallibile ciò che dipende dallo Spirito Santo? Ovviamente no, ma il modo d’arrivare a codesto no è kantiano, indimostrato, pre-messo, a priori: val a dire privo di forza giustificativa.
Dico inoltre fideistica la giustificazione di chi sottopone il Vaticano II, il Magistero e la Chiesa stessa all’a priori dello Spirito Santo, dimenticando o volutamente rifiutando l’insegnamento del Vaticano I, il quale esclude che la verità possa cogliersi non anche secondo la ragione, ma solamente per fede (1).

I sostenitori della giustificazione aprioristica e fideistica, privi in assoluto d’autocritica perché altrettanto in assoluto sicuri di sé, s’ergon a giudici di chiunque la pensi un po’ diversamente e sentenziano contro chi valuti il Vaticano II sulla base non d’un aprioristico e fideistico ricorso allo Spirito Santo, ma del metodo rigorosamente critico - teologico: alla luce cioè della Fede rivelata e della sua presenza nell’ininterrotto Magistero ecclesiale dagli Apostoli ad oggi. Poiché codesta medesima luce evidenzia non pochi elementi del Vaticano II o discutibili o difficilmente collegabili con la continuità del detto Magistero, il rilevarlo è considerato un peccato mortale e vien investito da veementi accuse ai limiti del non-senso: “interpretazione modernista” è la più grave così come la più assurda, oppure “interpretazioine lefebvriana”, quasi un colpo di grazia contro la reazione in agguato, che osa sfidare il Papa, il Magistero e soprattutto loro, gli aprioristi e fideisti del momento.
Mi nasce il sospetto che io stesso sia per loro un “modernista” ed un “lefebvriano”. A dir il vero essi stessi mi combattono per ben altri motivi ed è quindi evidente il loro stato confusionale: non si rendon conto, infatti, che “modernista” e “lefebvriano” non stanno insieme: è modernista chi considera la Rivelazione non conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo, ma tuttora in atto e riconoscibile nei movimenti del subcosciente e nell’evolversi della cultura, alla luce della quale, anzi, il modernista interpreta ed accomoda le verità del “Credo”; è “lefebvriano” chi appartiene alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata dal ben noto Mons. M. Lefebvre, o anche chi, sia pur al di fuori della Fraternità, ne condivide le riserve sul Vaticano II, nonché sull’aperturismo del postconcilio e sulle avventure liturgico-teologiche degli ultimi cinquant’anni. Non credo che i suddetti sostenitori, se pur in stato confusionale, ignorino la mia posizione teologica assolutamente antimodernista e la mia estraneità alla famiglia lefebvriana. È vero che qualche membro di essa, secondo quanto leggo in pubblicazioni ufficiali, ha detto di me: “Non è dei nostri, ma la pensa come noi”; ciò peraltro è del tutto insostenibile.
Sulla prima affermazione non c’è né sema che tenga: anche se amico sincero d’alcuni membri della Fraternità, appartengo al clero secolare, son incardinato nella diocesi di Prato, in servizio presso la Santa Sede fino al 1995 e membro del Capitolo vaticano dal 1994.
Sulla seconda affermazione i se ed i ma son d’obbligo. Condivido con la Fraternità alcune idee di fondo: il senso della Tradizione viva perché ininterrotta, la “romanità” del Fondatore, la critica all’attuale involuzione mondana, ed altro ancora. Non però l’autonomia con cui la Fraternità “conosce” cause matrimoniali, scioglie matrimoni, riduce allo stato laicale: queste son competenze della Chiesa e dei suoi tribunali, non d’una “società sacerdotale”, oltretutto non ancora canonicamente riconosciuta.
Anche sul piano teologico, nel quale alcuni lefebvriani emergono per competenza e profondità, non proprio su tutto mi sento in sintonia: p. es., non su tutte le idee recentemente esposte, in tema di Magistero ecclesiastico, dal pur bravo ed a momenti anche ammirevole abbé J. M. Gleize. Un suo ampio scritto del 2009, concettualizzando Il Magistero vivente e la Tradizione, distingue il Magistero dal punto di vista del soggetto – il Papa ed i vescovi –, dell’atto magisteriale – la forma scritta o detta –, e dell’oggetto – l’insegnamento della verità rivelata – . Distinzioni e suddistinzioni s’incrociano e si moltiplicano soprattutto per spiegar il Magistero alla luce del secondo e del terzo punto di vista; alcuni accenni al primo non mancano, manca però la spiegazione del Magistero ordinario distinto – e perché ed in che senso – dal Magistero solenne e supremo. In tal modo l’esposto sembra allontanarsi da quella “romanità” che pur vorrebbe affermare e difendere. Né, infine, posso dirmi d’accordo sul giudizio della Fraternità circa il nuovo rito della Messa. Da quando il rito c. d. tridentino è stato ripristinato, celebro quotidianamente con esso, ma mi guardo bene dal demonizzar il nuovo, affermando che non soddisfa il precetto festivo e che la presenza alla “nuova” Messa è un sacrilegio. Bastan queste poche precisazioni per convincer ognuno - ovviamente non gli aprioristi ed i fideisti - di quanto aberranti sian le loro accuse di modernismo e di lefebvrismo contro chi, come il sottoscritto, non la pensa e si compiace di non pensarla come loro.

2 - Non contenti di ciò, con la sicumera della loro superficialità senza misura, insistono nel rimproverar a me e ad altri – p. es. al bravo prof. R. de Mattei – l’imperdonabile peccato di non aver riconosciuto e d’aver negato il raccordo tra Vaticano II e Tradizione, tra progresso e conservazione, d’aver anzi sostenuto il contrario, nonostante che lo stesso Vaticano II dichiari più volte d’avere stabilito un tale raccordo e che i Papi del postconcilio l’abbiano ininterrottamente riconosciuto. Al punto in cui stanno le cose, l’insistervi denota o un indizio di secondi fini o la presenza di limiti intellettivi. È evidente che un raccordo di tale natura ed importanza non può esser semplicemente declamato; va dimostrato. E dimostrato in modo tale da neutralizzare le prove della controparte relative all’inesistenza del raccordo stesso. Benedetto XVI – ma gli aprioristi ed i fideisti nemmeno se ne rendono conto – proprio questo tentò di fare con l’ormai nota allocuzione del 22 dicembre 2005, là dove parlò d’una continuità discontinua sull’asse portante, fisso, indefettibile, del soggetto Chiesa, nel quale la continuità dottrinale non viene interrotta dalla discontinuità d’atteggiamenti pratici e di scelte storiche, in risposta a determinate condizioni ed esigenze temporali. Per difender la tesi del raccordo tra Vaticano II e Tradizione, questa avrebbe potuto esser la strada maestra; ma sarebbe veramente troppo, se si chiedesse agli aprioristi ed ai fideisti di percorrerla. A loro interessa una sola cosa: che il Vaticano II sia detto un Concilio “infallibile anche se non dogmatico”, solo perché è un Concilio ed in quanto tale è garantito dall’assistenza dello Spirito Santo; donde l’infallibilità conciliare, anche in assenza di definizioni dogmatiche.
Gl’ineffabili aprioristi e fideisti son ancor e sempre a questo punto. Parlan di progresso, ma son di fatto la conservazione, incapaci di muover un passo al di là della loro comoda ed acritica posizione: il Concilio è infallibile perché tale lo rende lo Spirito Santo ed è eretico – sì, anche questo han saputo dire senz’il minimo pudore – chi dichiari il contrario. Se movessero almeno una volta quel passo, se almeno una volta si preoccupassero di confrontare la loro convinzione soggettiva con l’oggettività documentata delle altrui obiezioni, stringerei loro la mano. Per ora le mani non s’incrociano, solo perché quel passo sembra di là da venire.

3 – Proprio il modo con cui parlano d’infallibilità lo dimostra. Intendo l’infallibilità della Chiesa, del Magistero, dei Concili, delle dottrine anche non definite. A parte il fatto che qualcuno dovrebbe spiegar loro la differenza fra infallibilità, impeccabilità, inerranza ed indefettibilità, non si rendono o non vogliono rendersi conto delle condizioni alle quali soggiace “per divina disposizione” il carisma dell’infallibilità. Alcune affermazioni neotestamentarie, riferite dal quarto evangelista come detti espliciti di Gesù, dovrebbero far riflettere anche un apriorista ed un fideista. Riguardano lo Spirito Santo come dono del Padre su preghiera del Figlio Gesù Cristo, all’approssimarsi della sua ora suprema: “Pregherò il Padre, e questi vi darà un altro Paraclito, perché rimanga sempre con voi, lo Spirito della verità” (Gv 14,16). Paraclito indica la funzione che lo Spirito Santo svolgerà “in eterno” a favore della Chiesa, assistendola come “un altro” Paraclito, dopo che il primo, Cristo, se ne sia andato. Non sarà semplicemente in sostituzione di Cristo e meno ancora in competizione con Lui: sarà “un altro”, senza che altro sia il suo insegnamento, altra non essendo la verità. Proprio per questo vien chiamato “lo Spirito della verità”, per la sua funzione d’annuncio della verità, parallelo a quello di Cristo, del quale, come successivamente l’evangelista conferma, dovrà ripetere l’insegnamento e facilitarne una sempre maggiore intelligenza. “Lo Spirito Santo, il Paraclito che il Padre manderà nel mio nome, v’insegnerà e vi suggerirà tutto quanto io vi avrò detto” (14,26) […] Quando lo Spirito della verità sarà venuto, v’introdurrà nella verità tutt’intera, parlando non già per conto proprio, ma dicendo quanto avrà ascoltato […] Prenderà del mio e l’annuncerà a voi” (16,13-15). È qui chiaramente e perentoriamente definita la funzione dello Spirito Santo: non sarà una seconda rivelazione e men ancora una rivelazione perennemente in fieri: sarà una riproposta della rivelazione già compiuta, una reiterata memorizzazione di essa ed un suo sempre ulteriore approfondimento nel cuore della Chiesa lungo il volger dei secoli, quasi un prender la Chiesa per mano ed accompagnarla “nella verità tutta intera” – cioè senza nulla togliere e nulla aggiungere alla parola di Cristo, fosse anche “un solo iota o un solo apice” (cf Mt 5,18). 
Quell’ “introdurre nella verità tutt’intera” – ed il verbo “introdurre” ne è una prova – non può intendersi come una meccanica ripetizione del già detto, anche se questo fu detto una volta per sempre. Si tratterà, infatti, d’una penetrazione in profondità di ciò che fu detto una volta per sempre, alla scoperta di quanto fosse rimasto in zona umbratile o ad altezze troppo superiori alle capacità dell’intelletto umano, perché, a beneficio di esso, la verità rivelata si dispieghi nella sua interezza ed in ogni sua sfumatura. In codesto quadro si capisce allora il senso di quel “vos docebit omnia” (v’insegnerà ogni cosa) e di quel “suggeret vobis omnia” (vi rammenterà ogni cosa) che, in Gv 14,26, trovan la loro estensione entro un ben determinato confine: la rivelazione cristiana. E soltanto quella!

A ciò s’aggiunga il chiaro limite posto al Magistero dal quarto capitolo della costituzione dogmatica “Pastor æternus” del Vaticano I. Per esser più esatti, il limite è posto al Magistero papale; ma poiché oggetto del Magistero insieme papale ed ecclesiale è “Fede e Morale” e poiché solo in materia di Fede e Morale – la verità rivelata in cui lo Spirito Santo aiuta a penetrare – il Magistero può sicuramente contare sull’assistenza dello Spirito Santo, ne consegue che il limite entro il quale si definisce l’infallibilità del Magistero papale è quello stesso del Magistero ecclesiale. Non a caso la medesima “Pastor æternus”, al medesimo capitolo quarto, dichiara che il successore di Pietro, in materia di Fede e Morale, “gode di quella stessa infallibilità della quale il divin Redentore volle dotare la sua Chiesa nel definire dottrine di Fede e di Morale” (2). Il Magistero, pertanto, non può contare sulla divina assistenza sempre, in assoluto, ad ogni suo intervento, ma solamente quando, direttamente o no, si colleghi con l’avvenuta Rivelazione e con quanto in essa riguarda la Fede e la Morale. Entro codesto ambito, il condizionamento assume, inoltre, i connotati della straordinarietà. L’intervento magisteriale è, in effetti, coperto dal carisma dell’infallibilità, solo se “il Romano Pontefice
1 - parla ex cathedra, ovvero come pastore e dottore di tutt’i cristiani;
2 – in forza della sua suprema autorità apostolica,
3 – per definir un dottrina di Fede o di Morale
4 – rendendola obbligatoria per la Chiesa universale”(3).

Poiché l’infallibilità è una ed indivisibile, tale condizionamento riguarda il Magistero supremo e solenne in quanto tale, sia che venga esercitato personalmente dal Papa loquens ex cathedra, sia che ad esercitarlo provveda collegialmente un Concilio ecumenico. Ma riguarda pure il Magistero ordinario, quello cioè del Papa e dei vescovi dislocati nel mondo intero ed in totale comunione col Papa stesso, qualora riproponga dottrine dogmaticamente già definite, o da queste derivanti – non importa se direttamente o no – così che anche il Magistero ordinario venga in tal modo ricollegato con la divina rivelazione.

Per aprioristi e fideisti non ci son limiti né condizioni: c’è soltanto l’infallibilità. Una volta che una dottrina, ancorché non definita, sia proposta ufficialmente dalla Chiesa, essa per loro diventa automaticamente infallibile e a chi solleva qualche obiezione o ricorda qualche precedente storico nella linea d’un antinfallibilismo soltanto apparente, rispondono con saccenteria e disprezzo. In realtà, quei precedenti – la condanna di sant’Atanasio, le parole di san Leone Magno: “Assumpta est de matre Domini natura non culpa”, il comportamento d’Onorio I nella questione monotelitica, e qualche altro caso ancora – non son prove contro l’infallibilità del Magistero. Non c’è storico della Chiesa che non ne tratti in lungo ed in largo, destituendo di fondamento l’interpretazione antinfallibilista. Chi poi non avesse tempo da dedicare ai loro trattati, potrebbe almeno legger il Denzinger-Schönmetzer sub H 2c a p. 894-895. Ognuno, insomma, può convincersi, se il pregiudizio non gli fa velo, che nessuno vuol metter in discussione il carisma ecclesiale dell’infallibilità, né le condizioni che lo circoscrivono e delimitano.

4 – È legittimo chiedersi, dop’aver letto quanto aprioristi e fideisti scrivon al riguardo, se proprio nulla faccia velo ai loro giudizi. Sembra che in essi neanche l’ombra affiori delle surriferite condizioni. Quando c’è di mezzo un Papa, un Concilio, la Chiesa, tutto per essi è automaticamente infallibile e tale dev’esser da tutti riconosciuto. Il Papa sospira? È un sospiro infallibile. Il Concilio ha un pensiero di riguardo per l’uomo, il mondo, il progresso? È un pensiero infallibile. La Chiesa stabilisce orientamenti e decisioni pastorali d’almeno dubbia fondazione nel tesoro della sua costante Tradizione? L’infallibilità arriva sin qui, perché tutto è avvolto, esplicitamente o no, nell’ambito d’un carisma inalienabile dal dna della Chiesa. Insomma, nessun limite, nessuna condizione, nessun freno al verificarsi della sua infallibilità.
Perché non si sospetti che ciò dipenda solo da empito polemico, nel qual caso a rimanerne velato sarebbe il mio giudizio e non quello degli aprioristi e dei fideisti, mi par opportuno riportarne fedelmente alcune parole, recentemente scritte e pubblicate.

A proposito di posizioni conciliari “di tipo dottrinale”, leggo:
- “Dottrinale non nel senso della ripetizione dei dogmi già definiti, ma anche nel senso dell’insegnamento di dottrine nuove, esse pure infallibili benché non definite” (4).
- “Si tratta delle cosiddette dottrine definitive, che alla pari di quelle definite, sono immutabili, infallibili ed irreformabili”(5).
- “L’insegnamento straordinario è un insegnamento nuovo; quello ordinario è quello corrente […] È questo appunto il caso del Vaticano II (6)”.
- “In campo dogmatico non si può ammettere una rottura dell’insegnamento del Concilio nei confronti del passato” (7). Ma, in contrasto con un siffatto giudizio, di per sé aprioristico, ecco il suo contrario:
- “Il Vaticano II presenta un nuovo concetto di Rivelazione rispetto a quello del Vaticano I […] dobbiamo ritenere per certo che anche il Vaticano II, benché di contenuto concettuale diverso, sia a sua volta infallibile” (8).
- “Comunicare il Vangelo utilizzando un (?) pensiero moderno purificato dall’errore” (9).
- “Rahner non è riuscito a far entrare nel documento conciliare l’aspetto errato della sua concezione […] stante l’infallibilità conciliare. La presenza dello Spirito Santo nei lavori conciliari purifica il pensiero dei Padri e dei teologi, lasciando cadere le vedute errate” (10).
- “L’evidenziamento (?, parola inesistente) dell’atto e del contenuto della Rivelazione come evento interiore di coscienza, che emerge dalla visione del Vaticano II, non esclude affatto, ma comporta l’atto e il contenuto della Rivelazione come comunicazione divina al destinatario in forma di proposizioni concettuali per il tramite della realtà visibile della Chiesa. Per cui la ricezione del dato rivelato da parte del destinatario non avviene per una sua comunicazione diretta con Dio nell’intimo della coscienza, ma per il tramite della predicazione della Chiesa” (11).
- ”Il concetto di libertà religiosa, venendo fondato sulla Rivelazione, appare come verità prossima alla fede” (12).
- “Caratteristica del Vaticano II è infatti la proposta d’un immenso allargamento di mentalità, quasi a voler superare i precedenti confini della cristianità, ad andare oltre inveterate abitudini di pensiero, ad allargare la capienza dell’intelligenza cristiana, a superare anche barriere con spirito di integrazione, di assunzione e di conciliazione” (13).
- “Quando il nuovo appare nelle dottrine d’un Concilio ecumenico, il cattolico, in base al fatto che egli sa che la dottrina della Chiesa non può mai smentire se stessa, davanti a questo nuovo è certo che esso non è in rotta con l’antico, anche se ciò non appare immediatamente evidente” (14).

5 – L’Autore di queste ed altre dichiarazioni, a dir poco discutibili, dedica, bontà sua, un po’ d’attenzione anche al sottoscritto: con il suo solito metodo di lodare per stroncare, o viceversa. Gli son grato per il tempo dedicatomi, non per le alterazioni del mio pensiero. Un solo esempio, il più clamoroso, si trova là dove, a proposito del mio volume sulla Tradizione (“Divinitas”, numero unico 2010 e Casa Mariana Editrice, Frigento 2010), afferma con la solita sicumera di chi sa tutto e su tutto ha da dire l’ultima parola, che il sottoscritto “non riesce a vedere la continuità tra il concetto di Tradizione dei Concili Tridentino e Vaticano I e quello del Vaticano II, per cui parla di contraddizione, cosa che evidentemente non si può accettare trattandosi di materia di fede, dove la Chiesa non può entrare in contraddizione con se stessa, perché vorrebbe dire che essa ha abbandonato il sentiero del vero per imboccare quello del falso, il che sarebbe come pensare che Cristo l’ha ingannata quando le ha promesso di assisterla col suo Spirito sino alla fine del mondo”. Non è un esempio di scrittura traslucida; è tuttavia comprensibile. Comprendo infatti
a) la mia cecità di fronte alla continuità del concetto di Tradizione del Tridentino, del Vaticano I e del Vaticano II;
b) la mia empietà nel definire contraddittorio il concetto di Tradizione del Vaticano II rispetto a quello del Tridentino e del Vaticano I;
c) la mia implicita blasfemia nell’accusare Cristo d’aver ingannato la Chiesa circa l’assistenza dello Spirito Santo.
Ma comprendo pure che tutto questo è impossibile perché si tratta, aprioristicamente e fideisticamente, di materia di fede. Il mio censore, anche se di mestiere fa lo zitti-tutti-parlo-io, vorrà concedere a questo povero cieco, empio e blasfemo di richiamarsi a quanto ha effettivamente scritto.
A p. 186 del suddetto numero unico:
- parlo del Tridentino che, superando la distinzione del partim/partim, si concentra sull’esistenza d’una fonte scritta e d’una fonte orale, ambedue consegnate alla Chiesa dall’ininterrotta successio apostolica ed è questo il suo concetto di Tradizione;
- parlo del Vaticano I, che recepisce codesto concetto e lo innerva nella proposta magisteriale della Chiesa docente;
- parlo del Vaticano II, che opera una reductio ad unum della Rivelazione scritta e di quella orale, annullandone l’evidente distinzione dichiarata ed insegnata dal Tridentino e dal Vaticano I ed inserendo in tale reductio anche il Magistero, ovvero l’autorità che propone le verità rivelate (Tradizione attiva) e l’insieme di tali verità (Tradizione passiva).

Poiché codesti tre punti riposano sulla base rigidamente storico-filologico-teologica del cap. VI (p. 137-186), e non su quella dell’apriorismo e del fideismo, resto in pace con la mia coscienza. So di non essermi divertito a giocar a mammole, so cioè d’aver operato sulla base di dati storico-teologici inoppugnabili, di non aver aggiunto nulla e nulla tolto, d’aver quindi tratto delle conclusioni sotto l’urgenza della logica obiettiva, qual è quella che vuole irriducibile il terzo punto ai primi due del quadro sopra indicato. Che poi, come la mia povera e cara nonna, aprioristi e fideisti trovino piena soddisfazione a ricominciar sempre da capo “la novella dello stento, che dura tanto tempo e che non finisce mai”, padroni di farlo, anche se ormai la loro novella non addormenta più nessuno.
 
NOTE:

1 - In DS 3033; cf 3009; inoltre 2751-2756, 2765-2768. Non è facile concettualizzar il fideismo, perché confluiscon in esso vari indirizzi filosofico-teologici, che i tedeschi indicarono complessivamente con l’espressione Glaubensphilosophie. In particolare, il fideismo si rivelò un’emanazione del tradizionalismo religioso, promosso da Huet, Bautain, de Bonald e Lamennais, secondo i quali solo dalla parola rivelata si ha la conoscenza della verità in assoluto. Per Lamennais e seguaci, fideista è chi raccorda con la fede, in forza d’una rivelazione divina e della sua trasmissione, e quindi al di sopra dell’umana ragione, la conoscenza della verità. Oggi son detti fideisti quanti ricorrono all’esclusivismo o al primato della fede per risolvere il problema della conoscenza e per porre le verità di fede al di sopra di quelle razionali, come gl’immanentisti, i pragmatisti e tutti gli anti-intelletualisti. Cf BAINVEL V., Foi-Fidéisme, in “Dictionnaire apologétique de la Foi catholique” (a c. di A. D’ALÈS, quattro volumi, Parigi 1911-1928) II, cc. 171-278; HARENT S., Foi, in DThC, cc. 171-236: MONTI G.-CHIETTINI E., Fideismo, in EC, V, c. 1246.
2 -  Constit. Dogm. “Pastor æternus”, cap. IV DS 3074.
3Ibid.
4 - Tutto dipende dalla natura e dal senso dell’aggettivo nuove. Se con esso s’intendesse qualcosa d’eterogeneo rispetto al dogma già definito, si sarebbe di fronte alla prova della discontinuità dottrinale. Se invece s’intendesse qualcosa di pienamente omogeneo e già contenuto, se pur in modo latente, nella definizione precedente, si sarebbe di fronte ad un vero e proprio esempio di progresso dogmatico “in eodem sensu eademque sententia”. È dottrina del Vaticano I: si veda DS 3020, 3043, già presente nella Bolla dogmatica del beato Pio IX “Ineffabilis Deus”, 8 dic. 1854, DS 2802, e riproposta dal motuproprio di san Pio X, 1 sett. 1910, DS 3541; dall’enciclica “Ad beatissimi Apostolorum” di Benedetto XV, 1 nov. 1922, DS 3626; e dall’enciclica “Humani generis” di Pio XII, 12 agosto 1959, DS 3886. Al di fuori del Magistero, è dottrina che risale al ben noto monaco san Vincenzo da Lerins, morto verso il 450, e precisamente al suo Commonitorium primum, cap. 23 PL 50, 668A.
5 -  Se per definitive s’intenda ciò che s’intende con la formula definitive tenendæ, ovvero dottrine sulle quali il Magistero ha pronunciato la sua ultima e definitiva parola benché non in modo definitorio, allora si è davvero di fronte a dottrine “immutabili, infallibili ed irreformabili”. Ma non consta affatto che quelle del Vaticano II siano state concepite dai Padri come definitive tenendæ. Ne fa fede la notificazione dell’Ecc.mo Segretario Generale, Mons. P. Felici, in data 16 nov. 1964, il quale, circa la mancanza negli asserti conciliari di note teologiche, dichiarò che essi devon interpretarsi “secundum regulas generales, ab omnibus cognitas” ovvero “utpote Supremi Ecclesiæ Magisterii doctrinam” da accogliere “iuxta ipsius S. Synodi mentem, quæ sive ex subiecta materia, sive ex dicendi ratione innotescit, secundum normas theologicas interpretationis”.
6 -  Queste parole figurano subito dopo altre, che dicono:“Il grado supremo dell’autorità del Magistero corrisponde a quello che solitamente si chiama Magistero solenne o straordinario, mentre il grado inferiore corrisponde al Magistero semplice ed ordinario”. Da ciò discende lapalissianamente una conseguenza gravissima, soprattutto dopo le ripetute esaltazioni del Vaticano II: da Magistero solenne e supremo, qual è ogni Concilio ecumenico, vien degradato a Magistero ordinario, anche se un Concilio ecumenico non può affatto, per sua intrinseca natura, esser ridotto a Magistero ordinario. Troviamo conferma di tale degradazione anche qualche pagina dopo: “Il Vaticano II ha fatto avanzare (?) la dottrina della fede nella modalità dell’insegnamento ordinario”.
7 -  Non si tratta d’un argomento generico ed astratto (“non si può ammettere”), bensì concreto: c’è o no la rottura? Alle prove addotte da lefebvriani e compagni di viaggio, che cosa risponde, al posto di “non si può ammettere”, un apriorista e fideista?
8 - Vaticano I e Vaticano II son messi su un piano di parità, che il II negò fin dall’inizio. Il testo prosegue affermando che il contenuto dei due Concili è diverso non perché insegnino cose diverse, ma perché con “due dottrine diverse” fanno “avanzare la conoscenza […] della Rivelazione”. Qui il principio di non contraddizione va a farsi benedire: d’un medesimo soggetto non si può predicare il si insieme con il no. O sbaglia il predicante, o è sbagliato il predicato. All’Autore di queste dichiarazioni la responsabilità d’aver riconosciuto nel nuovo concetto di Rivelazione del Vaticano II “il ricupero di quanto di valido esisteva ed esiste nella concezione modernistica, nella c. d. apologetica dell’immanenza di Maurice Blondel, nella tradizione protestante (???!!!), nella filosofia idealistica, esistenzialistica e fenomenologica”
9 -  Se l’errore del pensiero moderno è d’esser immanentista, tolto codest’errore, che cosa rimane del pensiero moderno?
10 -  L’infallibilità della dottrina conciliare è dunque un assoluto, conseguenza d’un altro assoluto, l’assistenza dello Spirito Santo. La compresenza dei due assoluti giunge a dissociare i singoli Padri conciliari in soggetti infallibili nell’aula conciliare, e fallibilissimi appena l’abbian abbandonata. Quando si dice la fantasia al posto del fondamento neotestamentario e di quello dogmatico, sopra indicati, e dei connessi condizionamenti a salvaguardia del carisma dell’infallibilità dal pericolo d’una risibile banalità, come quella alla quale sto riferendomi.
11 -  Il balletto del sic et non continua per far capire che la Rivelazione non è, ma è; l’atto interiore della coscienza (ma c’è anche un atto esteriore della coscienza?) è anche comunicazione divina al destinatario: di che cosa? di nulla, perché tale comunicazione assume un contenuto solo quando glielo dà l’attività magisteriale della Chiesa sotto forma di “proposizioni concettuali”. Conveniamone tutti e mettiamoci il cuore in pace, questo del Vaticano II, così come ci è stato così autorevolmente spiegato, è davvero un bel progresso dogmatico!
12 -  È vero che la dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa indica il fondamento di essa nella divina Rivelazione e nella dignità della persona umana. La conclusione che ne vien tratta, suffragata dall’idea di fondo che nel Concilio tutto è infallibile, identifica nella libertà religiosa una verità prossima alla fede. Se invece d’affidarsi alla supposta infallibilità qualcuno s’affida alla verifica delle fonti e della documentazione addotta, scoprirà che nessun elemento portato a riprova della detta fondazione biblica è pertinente. È una verifica che il sottoscritto ha già fatto e che sarà di pubblico dominio nel volume, ormai quasi pronto, Alle radici d’un equivoco. Decade, perciò, miseramente la proposta di verità prossima alla fede.
13 -  La visione conciliare che sorregge queste parole sarà dettata dall’entusiasmo, ma non dalla realtà dei fatti, che è questa: “Anche la Chiesa ha le sue assemblee legislative ordinarie e straordinarie, parziali e universali: esse sono i concili, assemblee di Vescovi della Chiesa Cattolica, convocati per discutere i più gravi problemi di dottrina o di disciplina cristiane”, PALAZZINI P., Introduzione a PALAZZINI P.-MORELLI G. (a c.di), Dizionario dei Concili, Istit. Giovanni XXIII, P.U.L., Roma 1963, p. XI. Poiché il Vaticano II fu animato non dall’intento di metter a fuoco “i problemi di dottrina o di disciplina cristiane”, ma da “spirito d’integrazione, d’assunzione e di conciliazione”, non ne deriverà il risultato rimproverato dai lefebvriani d’un cristianesimo che integra in sé il secolo, che ne assume la forma mentis e si concilia con i suoi errori?
14 -  È l’ennesimo appello all’infallibilità pregiudiziale del Concilio ch’è la voce dello Spirito Santo. Punto e basta. I grandi teologi che hanno discettato in ogni tempo se un Concilio ecumenico possa sbagliare hanno perso ed hanno fatto perder del tempo prezioso. Per fortuna c’è oggi questo nuovo campione del pensiero teologico cattolico il quale sa rimetter le cose a posto.

Mons. Brunero Gherardini


febbraio 2012