Come la fede del credente
diventa una dotta disquisizione

di Giovanni Servodio


Il 17 ottobre del 2006, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti emanò una circolare (Prot. N. 467/05/L) con la quale si chiedeva ai “Presidenti delle Conferenze Episcopali Nazionali” di usare l’espressione «per molti» nel canone della Messa tradotto in lingua volgare, al posto della più diffusa traduzione «per tutti». La richiesta, basata sul testo latino dell’edizione tipica del Messale, «pro multis», veniva spiegata sulla base di diverse considerazioni, tra le quali (punto e): «L'espressione “per molti”, pur restando aperta all'inclusione di ogni persona umana, riflette anche il fatto che la salvezza non è data meccanicamente: senza che la si voglia, o vi si partecipi; al contrario: il credente è invitato ad accettare nella fede il dono che gli è offerto, e a ricevere la vita soprannaturale che è data  a coloro che partecipano  a questo mistero e lo vivono nella loro esistenza affinché siano annoverati fra i “molti” ai quali il testo si riferisce».
A questo fine, la circolare chiedeva alle Conferenze Episcopali di «iniziare presso i fedeli, nei prossimi uno o due anni, la catechesi necessaria su questo  argomento, al fine di prepararli  all’introduzione di una precisa traduzione in lingua volgare della formula pro multis ( e cioè “per molti”) nella prossima traduzione del Messale Romano che i Vescovi e la Santa Sede approveranno per i loro paesi».

Sulla questione scrivemmo a suo tempo una nota alla quale rimandiamo, soprattutto per sottolineare una sottile contraddizione contenuta nella circolare in questione.
A partire dal Vaticano II, le Conferenze Episcopali tradussero tutte il “pro multis” del testo latino dell’edizione tipica del Messale, con “per tutti”, in ossequio all’allora diffuso convincimento che Nostro Signore fosse venuto ad operare la Redenzione “per tutti gli uomini”. La stessa circolare ricorda infatti (al punto 2) «In effetti,  la formulazione “per tutti” corrisponderebbe senza alcun dubbio ad una corretta interpretazione dell'intenzione del Signore espressa nel testo. È un dogma di fede che Cristo è morto sulla Croce per tutti gli uomini e le donne». Tale convincimento, benché si richiamasse a certe giustificazioni esegetiche su una migliore lettura dei testi, di fatto scaturiva dall’idea moderna che il Figlio di Dio non poteva essere venuto a incarnarsi solo per alcuni, pochi o molti che fossero, bensì per tutti gli uomini, nel senso che tutti gli uomini sarebbero stati toccati dalla Sua azione salvifica. È sulla base di quest’idea della realizzata salvezza universale che i vescovi di tutto il mondo tradussero il “pro multis” latino col “per tutti” in volgare. Ed è sempre sulla base di questo convincimento che si svolse la catechesi dal 1965 al 2006.
La domanda che ci ponevamo allora era questa: come potranno i vescovi realizzare una nuova catechesi per giustificare il ritorno al “per molti” dopo 40 anni di insegnamento contrario?
La Congregazione chiedeva di attuare questa nuova “necessaria” catechesi “preparatoria”, “nei prossimi uno o due anni”.
Dal 2006 sono passati sette anni: né è stata realizzata questa catechesi, né nel Canone della Messa è stata usata la nuova traduzione “per molti”. Anzi, si sa per certo che i vescovi sono divisi sull’attuazione di questa disposizione della Congregazione, ovviamente non perché non riescono a mettersi d’accordo sulla corretta interpretazione dei testi, ma perché non sono d’accordo sul significato dottrinale del “pro multis”. Cioè non sono d’accordo su quanto scrive la Congregazione nella circolare: «la salvezza non è data meccanicamente: senza che la si voglia, o vi si partecipi»; per tanti di essi la salvezza è un fatto automatico: il Signore è venuto, si è immolato per la salvezza degli uomini… ergo tutti gli uomini si salvano. Non sono d’accordo, quindi, sull’insegnamento di Cristo, sulla funzione della Chiesa, sul vero significato della Redenzione, sulla reale portata della salvezza operata da Cristo. Il che non è certo cosa da poco, tanto da potersi inevitabilmente dedurre che ci sono tanti vescovi che non sono cattolici o che quantomeno sono cattolici “a modo loro” e non secondo “intenzione della Chiesa”.
Quarantasette anni dalla fine del Vaticano II e il cattolicesimo è sempre più lacerato, nelle persone dei suoi pastori, da convincimenti contrapposti: tra ortodossia ed eresia.

In questo contesto si inserisce la lettera che, il 14 aprile scorso, il Sommo Pontefice Benedetto XVI ha inviato all’Arcivescovo di Friburgo e Presidente della Conferenza Episcopale tedesca, Mons. Robert Zollitsch.

Il Papa esordisce dicendo: «Incombe, a quanto pare, il pericolo che per la pubblicazione della nuova edizione del “Gotteslob” [libro dei canti e preghiere], attesa in tempi brevi, alcune parti dell’area di lingua tedesca vogliano mantenere la traduzione “per tutti”, anche qualora la Conferenza Episcopale tedesca convenisse a scrivere “per molti”, così come richiesto dalla Santa Sede».
Preoccupato per questa eventualità, il Papa decide di scrivere a tutti i vescovi tedeschi «al fine di prevenire una tale divisione nel luogo più intimo della nostra preghiera».
Questa motivazione ci induce a porre una domanda: è davvero così inammissibile una “tale divisione nel luogo più intimo della nostra preghiera”?
L’interrogativo non è ozioso, poiché è risaputo che da 47 anni la preghiera eucaristica viene recitata ad libidum in tutte le chiese del mondo, così che per 47 anni i fedeli hanno vissuto non una “divisione”, ma una vera e propria confusione, peraltro con l’avallo di Roma e delle Conferenze Episcopali. Sembra davvero strano che il Papa si preoccupi adesso di un’eventuale “divisione” in terra germanica. Tranne che non si debba pensare che la reale preoccupazione del Papa si fondi sul diverso uso di “per tutti” o “per molti”, come peraltro dovrebbe essere in questa lettera. Ma in questo caso nasce una seconda domanda: ci si preoccupa che tutti recitino allo stesso modo per una questione di forma, perché ci sia una uniformità di linguaggio? Oppure la preoccupazione riguarda la sostanziale differenza che c’è tra il “per tutti” e il “per molti?

In questo secondo caso è importante che si comprenda la portata di questa differenza, che essendo di ordine essenziale tocca la fede stessa e l’insegnamento dottrinale della Chiesa. Il richiamo del 2006 della Congregazione per il Culto Divino e questa lettera del Papa, fanno intendere chiaramente che si tratta di un problema di dottrina, tanto più che la liturgia è uno degli elementi primari per la catechesi dei fedeli, senza contare che qui stiamo parlando della preghiera della Consacrazione, cioè di quella preghiera che “realizza” la transustanziazione, il centro vitale della vita della Chiesa e l’elemento portante di tutta la fede cattolica.
Ora, una differenza sostanziale su questo punto cardine della liturgia e della dottrina, implica necessariamente una differenza di fede. Da questo punto di vista, qual è l’espressione corretta? Qual è l’espressione che corrisponde alla fede ortodossa e quale quella che corrisponde ad una fede eterodossa? Qual è l’espressione vera e quale quella falsa?
Tutte domande che possono essere risolte solo con l’affermazione che entrambe queste espressioni sarebbero corrette, vere, ortodosse.
Ma allora perché la Santa Sede continua ad insistere sulla necessità di correggere il “per tutti” con “per molti”?
Se questo accade e se il Papa stesso sente il bisogno di scrivere ai vescovi tedeschi è evidente che una delle due espressioni è errata, ed esattamente è errata l’espressione “per tutti”.

Eppure in 47 anni la si è usata dappertutto, così da compiere la Consacrazione con una formula errata. Si sarà trattato di Consacrazioni errate, cioè invalide?
Nessuna forzatura, poiché se è vero, com’è vero e come dice il Catechismo di San Pio X, che per fare un sacramento sono necessari la materia, la forma e l’intenzione del ministro, in questo caso la forma errata non può non influire sulla validità del sacramento.
Non ce lo chiediamo, lo affermiamo; e lo affermiamo non in base a interi volumi di dottrina liturgica, ma semplicemente in base al buon senso. Certo che si possono citare interi trattati, ma è ancor più certo che la pratica della fede cattolica esclude che le considerazioni dotte, siano esse teologiche o liturgiche, possano annullare il buon senso. In questo caso, se una espressione chiave della formula della Consacrazione, “nel luogo più intimo della nostra preghiera”, come dice il Papa, è errata, può derivarne solo una Consacrazione errata, e una Consacrazione errata, logicamente e inevitabilmente, non è una Consacrazione.
Se poi si volesse obiettare che non può trattarsi di Consacrazione invalida per il fatto che il celebrante usa un libro liturgico approvato dall’Autorità, ne deriverebbe che, purché approvato dell’Autorità, ogni errore smetterebbe di essere un errore e diventerebbe magicamente una cosa corretta. Solo che in questo caso il buon senso si rifiuta doppiamente di assentire, poiché non può accettare che l’Autorità possa sancire la correttezza dell’errore. L’unica cosa accettabile, in questo caso, è che sia l’Autorità ad essere in errore, come si dimostra peraltro con questa questione del “pro multis”, un errore che oggi la stessa Autorità riconosce come tale e chiede che venga corretto.

Ma c’è un altro aspetto di questa questione che complica tutto.
Il Papa, in questa lettera, ricorda che «Negli anni sessanta, quando bisognava tradurre in tedesco… il Messale Romano, esisteva un consenso esegetico sul fatto che la parola “i molti”, “molti” in Isaia 53,11s, fosse una forma di espressione ebraica per indicare la totalità, “tutti”. […] Questo consenso esegetico, nel frattempo, si è sgretolato; esso non esiste più. […] Con questo si evidenzia una cosa molto importante: la resa di “pro multis” con “per tutti” non era affatto una semplice traduzione, bensì un’interpretazione, che sicuramente era e rimane fondata, ma tuttavia è già un’interpretazione ed è più di una traduzione».

Questa spiegazione del Papa, pur essendo basata su considerazioni importanti dal punto di vista accademico, introduce un problema enorme, che attiene alla stessa autorità della Chiesa, alla sua funzione magisteriale e al loro permanere nel tempo.
Il Papa dice, in termini giustificativi, che per 47 anni la Chiesa, per mano dei suoi vescovi, ha usato per la consacrazione una formula errata perché “esisteva un consenso esegetico”, cioè perché il magistero episcopale e papale è andato a rimorchio di una “interpretazione” del momento, azzerando un testo, e la relativa interpretazione, usato dalla Chiesa per quasi 2000 anni.
Questa considerazione accademica “giustificativa” è di una gravità enorme, poiché sancisce la soggiacenza della dottrina e della liturgia cattoliche alle mode del momento, dandola, non solo per possibile, ma perfino per giustificata. Tanto più che il Papa precisa che tale “interpretazione” nel frattempo si è sgretolata “non esiste più”. Così che oggi si dovrebbe tornare al “per molti”.

E il Papa svolge tutta un’argomentazione sulla compresenza nei libri sacri di traduzione e interpretazione, spiegando che sono entrambe giustificate poiché è necessario che questi libri diventino comprensibili per l’uomo di oggi e perdano quella lontananza che li caratterizzava un tempo.
«Da un lato, la parola sacra deve presentarsi il più possibile come essa è, anche nella sua estraneità e con le domande che porta in sé; dall’altro lato, è alla Chiesa che è affidato il compito dell’interpretazione, affinché – nei limiti della nostra attuale comprensione – ci raggiunga quel messaggio che il Signore ci ha destinato. Neppure la traduzione più accurata può sostituire l’interpretazione: rientra nella struttura della rivelazione il fatto che la Parola di Dio sia letta nella comunità interpretante della Chiesa, e che fedeltà e attualizzazione siano legate reciprocamente».

Cosa significa questa precisazione? Significa che pur dovendosi mantenere il valore letterale del testo, esso dev’essere interpretato sulla base della comprensione della “comunità della Chiesa”. Cosa questa che sembra contraddire la necessità di ritornare al “per molti”, salvo che non si debba ritenere che l’interpretazione attuale della “comunità della Chiesa”, abbandonato il “per tutti”, sia tornata al “per molti”.
Insomma una sorta di dottrina fluttuante sull’onda del flusso interpretativo del momento. Una cosa che francamente riduce la dottrina e la liturgia cattoliche ad una mera opinione umana, tanto cangiante per quanto mutevole è il continuo fluire della vita dell’uomo.

Tuttavia, per meglio giustificare la necessità del ritorno al “per molti”, il Papa svolge un ulteriore ragionamento, concludendo che «Il rispetto reverenziale per la parola stessa di Gesù è la ragione della formulazione della Preghiera Eucaristica. Ma allora noi ci chiediamo: perché mai Gesù stesso ha detto così? La ragione vera e propria consiste nel fatto che, con questo, Gesù si è fatto riconoscere come il Servo di Dio di Isaia 53, ha dimostrato di essere quella figura che la parola del profeta stava aspettando. Rispetto reverenziale della Chiesa per la parola di Gesù, fedeltà di Gesù alla parola della “Scrittura”: questa doppia fedeltà è la ragione concreta della formulazione “per molti”. In questa catena di fedeltà reverenziale, noi ci inseriamo con la traduzione letterale delle parole della Scrittura».

Con esso il Papa afferma che come Gesù dimostrò un “rispetto reverenziale” per la lettera della Scrittura, dicendo “per molti”, così oggi la Chiesa vuole dimostrare lo stesso “rispetto reverenziale” per la lettera della parola di Gesù. Una sorta di rispetto esteriore e formale che non lascia dubbi sulla sua debolissima consistenza.
Pur in presenza dell’articolato ragionamento del Papa, non si riesce a comprendere veramente, dal punto di vista sostanziale, quale sia la necessità del ritorno “per molti”, poiché non è possibile ritrovare questa sostanzialità in alcuna parte della lettera.
Intendiamo dire che in tutta la lettera, neanche quando il Papa suggerisce ai vescovi tedeschi tre elementi guida per la nuova necessaria catechesi, non v’è un solo posto in cui si spieghi la necessità di far comprendere ai fedeli che il “per molti” usato da Gesù ha un valore dottrinale esattamente corrispondente al suo significato letterale, come tale ripreso e ripetuto dalla Chiesa per 2000 anni: Gesù è venuto a portare la salvezza nel mondo, offrendo a tutti gli uomini i mezzi per ottenerla, ma questa Sua salvezza passa per l’assenso dell’uomo, che non è detto sia scontato, così che dal punto di vista della pratica della fede Gesù è venuto solo per “tutti” quelli che, secondo le sue parole, si pentiranno, avranno fede in Lui e non peccheranno più. Sono questi i “molti” di cui parla Gesù in relazione ai “tutti” che non necessariamente si salveranno per la Sua Redenzione.

Questo è quanto la Chiesa ha sempre insegnato, bastava che il Papa lo ricordasse, ed allora tutte le complesse argomentazioni sarebbero state un utile corollario per una verità semplice e facilissima da comprendere. E allora non sarebbero serviti neanche rilievi come questo: «Noi siamo molti e rappresentiamo tutti. Così ambedue le parole “molti” e “tutti” vanno insieme e si relazionano l’una all’altra nella responsabilità e nella promessa».
Rilievo che chiude la lettera e che, anch’esso, complica piuttosto che facilitare, tanto più che questa ultima complicazione sembra essere fatta apposta per riaprire una interminabile disquisizione circa la necessità dell’uso di “molti”, o di “tutti”, o di entrambi contemporaneamente e quindi irrealisticamente.

Partito da una necessità liturgico dottrinale, il Papa finisce col lasciare aperto il dibattito su tale necessità, confermando il persistere nel magistero di quella tendenza tutta moderna che non intende mai affermare nulla di definitivo, poiché è necessario lasciare sempre spazio al cambiamento e all’ulteriore confronto tra tesi e anti-tesi, motivo portante della moderna filosofia soggettivista che ha pervaso tutto l’insegnamento della Chiesa a partire dal Vaticano II.






maggio 2012

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