1988-2012:
24 anni di miglioramenti?

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di Giovanni Servodio

Come spesso accade nelle cose di questo mondo, gli uomini sono portati a considerare gli eventi di cui sono protagonisti sulla base della loro personale esperienza. La cosa è comprensibilmente umana, ma in questo nostro tempo contrassegnato da un sempre maggiore allontanamento da Dio, dall’essenziale, è quasi inevitabile che l’umano finisca col mutarsi nel troppo umano. Così che si verifica che nel considerare le cose del mondo, gli uomini finiscano col perdere di vista la dimensione escatologica dell’esistenza e col ragionare come se il mondo non dovesse finire mai. A questo bisogna aggiungere che oggi, suggestionati come sono dalle moderne fisime fanta-scientifiche, gli uomini sono portati a pensare al futuro secondo una prospettiva di crescita, di miglioramento, dimenticando una delle verità elementari dell’esistenza: ci si ammala e si incomincia a morire appena nati. Ogni esistenza è destinata a deperire e a concludersi proprio in forza della sua nascita, e se nel corso di questa esistenza si realizza inevitabilmente un processo di crescita che va dall’infanzia alla maturità, è altrettanto inevitabile che esso si concluda con la vecchiaia, la decrepitezza e la morte.
Questo è il paradigma di ogni esistenza, sia essa individuale, sia collettiva: crescono, deperiscono e muoiono gli uomini, le nazioni, le civiltà e deperisce e muore anche il mondo. Non v’è nulla di eterno a questo mondo, tutto è destinato ad invecchiare, deperire e morire. È per questo che la sana dottrina cattolica ha sempre insegnato che bisogna prepararsi necessariamente alla morte, in ogni momento dell’esistenza, mediante una vita timorata di Dio e sottomessa ai suoi insegnamenti e ai suoi comandamenti, perché ciò che conta non è la vita di quaggiù, destinata a finire, ma la vita di lassù, che non avrà fine. E questo vale per ogni uomo, per ogni famiglia, per ogni nazione, per ogni Stato, per il mondo intero.
Sta scritto: Vegliate quindi, perché non sapete né il giorno né l’ora (Mt. 25, 13).

Questa esortazione di Nostro Signore è indicativa di un'altra componente che caratterizza l’esistenza e che è legata all’uomo per il suo essere elemento centrale di tutto il creato: Dio ha voluto l’uomo a sua immagine perché nominasse e reggesse tutte le altre creature e tutto il creato. Tale componente è la dimensione spirituale, la sola che permette all’uomo di vivere e di far vivere il collegamento essenziale con Dio, senza il quale il mondo cesserebbe di esistere insieme all’esistenza umana. Dimensione spirituale che permette all’uomo di andare al di là della sua mera esistenza terrena per acquisire la vita eterna al cospetto di Dio: quella vita eterna che è l’unica a potersi chiamare propriamente vita.
Questo fa sì che l’uomo possa invecchiare, deperire e morire come essere terreno, ma insieme possa crescere come essere spirituale, fino alla contemplazione di Dio. Se nell’uomo si affievolisce questa sua dimensione spirituale, inevitabilmente in lui finisce col prevalere la dimensione terrena, che altrettanto inevitabilmente egli sarà portato ad esaltare, perdendo totalmente di vista l’altra componente e il suo stesso destino ultimo: il Cielo. Egli si riduce ad un mero essere terreno, destinato a deperire e a morire senza essere più in grado di elevarsi a Dio.

Se si osserva la storia dell’umanità si coglie con evidenza un percorso che dallo stato paradisiaco dei progenitori, nel quale l’uomo “parlava” con Dio, conduce via via ad un sempre maggiore allontanamento dal divino a partire dal peccato originale. Per rimediare a questo e per ricordare all’uomo il suo vero destino, per permettergli di ristabilire il rapporto col divino, come dice San Paolo: Dio ha parlato agli uomini in molti modi, fino ad arrivare all’incarnazione del suo Figlio Unigenito (cfr. Eb. 1, 1.2), affinché l’uomo non soggiacesse alla parabola discendente, ma seguisse quella ascendente.
Due componenti, quindi, e due parabole apparentemente contrapposte.
La parabola discendente della componente terrena, naturale, che porta al decadimento e alla morte, e la parabola ascendente della componente spirituale, soprannaturale, che porta alla crescita spirituale e alla vita.
Tutta la vita dell’uomo si muove lungo questa doppia direttrice: quale privilegiare?
Qualsiasi uomo sano di mente risponderà: quella che porta alla vita!
E per far questo non serve altro che mantenersi legati all’unica vera religione, quella rivelata da Nostro Signore Gesù Cristo, e seguirne i precetti e gli insegnamenti, che sono i precetti e gli insegnamenti di Dio stesso. E questo implica, logicamente e inevitabilmente, che si trascuri la componente umana, la naturale, non disprezzandola, ma mantenendola in noi al suo giusto posto, il posto subalterno e accidentale che le è proprio, a fronte del posto primario ed essenziale che è proprio della componente spirituale.
È questo che intendeva Dante quando ricordava agli uomini: “Considerate la vostra semenza:
 fatti non foste a viver come bruti,
 ma per seguir virtute e canoscenza” (Inferno, XXVI, 118-120). Dove la semenza è l’immagine e somiglianza di Dio, il viver come bruti è il privilegiare la dimensione naturale, la virtù e la conoscenza sono il mezzo e il fine della vita vera, quella vissuta seconda la dimensione spirituale avendo in vista la contemplazione di Dio.

Questa doppia dimensione dell’esistenza umana è propria di ogni organismo composto da uomini e vivente su questa terra, perfino della Chiesa, che è santa per la sua soprannaturalità, ma è peccatrice per la sua umanità: più la Chiesa, per i suoi uomini, si lascia irretire dalla mera umanità, più si allontana dalla spiritualità e viene meno alla sua funzione traente verso Dio. Non v’è dubbio che la Chiesa goda dell’assistenza dello Spirito Santo, ma tale assistenza non rende automaticamente santi gli uomini di Chiesa, essa ha sempre bisogno della loro cooperazione, perché Dio non agisce nonostante la libera volontà umana, e se questa volontà da “buona”, cioè rettamente rivolta al Cielo, diventa “cattiva”, cioè stoltamente rivolta alla terra, all’uomo, ecco che l’assistenza dello Spirito Santo, pur persistendo, non impedisce che l’uomo la renda inefficace. Si potrebbero fare mille esempi tratti da duemila anni di vita della Chiesa, ma basta ricordare i moniti di Nostro Signore.
Ma quando il Figlio dell'uomo verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc. 18, 8).
È inevitabile che avvengano scandali; ma guai a colui per cui avvengono!” (Lc. 17, 1).

Questi due versetti non sono dei moniti generici rivolti al mondo, che per sua natura sconosce preoccupazioni del genere, ma devono considerarsi come rivolti ai fedeli, alla Chiesa. Se alla Parusia non ci sarà più la fede sulla terra o se di essa rimarrà un piccolo lumicino, è perché la Chiesa, per i suoi uomini, non ha svolto il compito che le era proprio. E se non ha svolto questo compito, producendo scandalo, ci sarà poco di cui meravigliarsi, poiché è inevitabile che avvenga lo scandalo, ma il destino degli uomini che l’hanno provocato è già segnato.
Così che si conferma quanto detto fin qui. Anche la Chiesa, per i suoi uomini, si muove seguendo due tendenze contrapposte: quanto più si accosta all’uomo esaltandone la libertà e la dignità, tanto più si allontana da Dio, favorendo la perdizione dell’uomo. Quanto più segue la mutabilità umana, tanto più si allontana dalla eternità divina. Quanto più predica per la vita terrena, tanto più opera contro la vita eterna. Quanto più pratica la fede nell’uomo, tanto più concorre a sminuire la fede in Dio, fino a ridurre quasi a niente la fede sulla terra.
E non v’è contraddizione tra quanto appena detto e la promessa di Nostro Signore: le porte degli inferi non prevarranno contro di essa (Mt. 16, 18). Poiché il Signore Gesù non parla degli uomini di Chiesa indistintamente, non parla dell’insieme dei suoi discepoli, ma solo della Sua Chiesa: quella composta da coloro che credono in Lui (Cfr. Gv. 17, 20), da coloro che il mondo ha odiati perché sono nel mondo, ma non sono del mondo (cfr. Gv. 17, 14), così che dalla Sua Chiesa sono esclusi coloro che trovano il plauso del mondo, coloro che il mondo comprende, coloro che cercano e trovano l’accordo col mondo, coloro che scambiano l’approvazione di Dio con l’approvazione degli uomini, e tutti costoro sono esclusi indipendentemente dalla loro collocazione nel seno della Chiesa visibile, sia a livello discente sia a livello docente.

È tale parabola discendente che fa comprendere meglio le strane esperienze condotte dagli uomini di Chiesa. Dopo il fruttuoso periodo di crescita, durante il quale gli uomini si raccolsero sempre più numerosi nella Cristianità, sopraggiunse l’inevitabile decadimento, che dura ancora oggi: dall’umanesimo al protestantesimo, dall’assolutismo all’illuminismo, dal progressismo al modernismo, dalla discutibilissima e ancora fortemente discussa esperienza del Vaticano II ai recenti incontri mondiali dove si riuniscono per parlare di pace, e di Dio, i veri credenti, i falsi credenti, i miscredenti e gli indifferenti, come se Dio fosse ormai ridotto ad un oggetto di mera disquisizione umana.
Parabola discendente che, non solo spiega il Vaticano II e il post-concilio, ma chiarisce come il Vaticano II non fu un incidente di percorso, ma il punto d’arrivo di un processo di decadimento e di cedimento che vide coinvolti i vescovi della Chiesa non a titolo accidentale, ma preordinato: vescovi che avevano finito col convincersi che il contrasto implicito fra la fede e il mondo avesse una valenza temporale: valido al tempo di Gesù e magari fino a qualche secolo prima, esso si rivelava non più giustificato e praticabile, perché, secondo loro, la maturazione del mondo portava a ritenere che fosse giunto il tempo di stabilire una fruttuosa collaborazione fra la fede e il mondo. E quanto maturò in seno al Vaticano II, con i suoi documenti, non fu causato dalla cattiva influenza di alcuni teologi rivoluzionari, ma dal convincimento di tanti vescovi e teologi che, sulla base della concezione evolutiva di cui abbiamo detto, erano giunti alla conclusione che il mondo fosse pronto per una proficua collaborazione con la Chiesa, non necessariamente per concorrere al perseguimento della vita eterna nel mondo che verrà, quanto per accontentarsi a raggiungere una vita pacifica e felice in questo mondo di qua. E questi convincimenti erano così radicati e diffusi che inevitabilmente portarono i loro frutti nel post-concilio, realizzando quella che da parte di tanti cattolici tradizionali viene chiamata “crisi della Chiesa”, ma che in realtà è più che una crisi, è un nuovo modo d’essere della Chiesa, è una nuova Chiesa, è la neo-Chiesa del Vaticano II. La riprova di ciò si ha, non solo nelle migliaia di deviazioni dottrinali e liturgiche di cui la Chiesa soffre da quasi 50 anni, ma anche nell’ascesa al Soglio Pontificio di uno di quei teologi che con la loro concezione compromissoria col mondo avevano fortemente contribuito a fare del Vaticano II quello che è.

Come non pensare che se questa in cui ci troviamo non è la fase ultima della decrepitezza che fa subito intravedere la morte, di certo si tratta di uno stato avanzato di vecchiezza e di malattia? La morte potrebbe sopraggiungere da un momento all’altro.

Fatta questa lunga premessa, possiamo tornare alla domanda iniziale.
Il 1988 richiama subito alla mente quella incredibile decisione del Papa che, per la prima volta nella storia della Chiesa, inflisse la scomunica a sei vescovi cattolici a causa del loro voler rimanere legati all’insegnamento bi-millenario della Chiesa di Cristo e del loro rifiuto di voler accettare un qualsiasi accordo col mondo, secondo gli insegnamenti dei Vangeli.
Vero è che l’espediente canonico si richiamava alla disubbidienza, ma proprio questo fa comprendere come il Papa, e con lui gli uomini della neo-Chiesa nata dal Concilio, fossero ormai giunti al punto da privilegiare così tanto la legge ecclesiastica da sottomettergli la stessa legge della fede: sì, si poteva essere fedeli seguaci di Cristo, si poteva considerare come imprescindibile l’ubbidienza alla sue leggi, ma di fronte al dettato della legge ecclesiastica, di per sé più strumento umano che imperativo divino, di fronte a tale strumento, la fedeltà a Cristo, l’ubbidienza alle sue leggi, la preminente esigenza spirituale, dovevano lasciare il posto alla preoccupazione umana. Sei vescovi cattolici condannati dalla neo-Chiesa nata dal Concilio, per la loro supposta “incompleta e contraddittoria nozione di Tradizione”: incompleta perché non teneva conto delle rivoluzionarie novità prodotte dal Concilio in contrasto con l’insegnamento tradizionale, contraddittoria perché continuava a considerare impossibile una qualche conciliazione col mondo, un qualche possibile accordo fra Cristo Crocifisso e la causa della sua crocifissione.
Da allora, si è continuato su questa falsa riga, immaginando che la soluzione non stesse nella correzione di questa condotta ingiustificatamente censoria e palesemente antitradizionale, ma nell’accettazione di essa e delle sue motivazioni: l’accordo col mondo e l’abbassamento della religione al livello meramente umano, la impossibile collaborazione fra il Re del Cielo e della terra e il Principe di questo mondo, e  tutto questo, non più in vista della felicità celeste per l’eterna contemplazione di Dio, ma in vista della pace terrena per il transeunte benessere umano.
La parabola discendente naturale privilegiata rispetto a quella ascendente soprannaturale.
È lungo questa parabola discendente che si sono mossi i 24 anni trascorsi dal 1988 al 2012, durante i quali vi sono stati diversi cambiamenti, ma tutti legati all’inevitabile moto discendente: sono cambiate tante cose, ma sempre sulla stessa falsa riga dell’esaltazione dell’umano, tali da non intaccare minimamente il procedere a ritroso rispetto a Dio, anzi accompagnandolo e confermandolo.

Forse non è inutile ricordare che lo svolgersi degli accadimenti terreni, compresi quelli relativi alla vita terrena della Chiesa, si realizza lungo una linea ondulata, con alti e bassi, con cadute e riprese. Questo andamento è quello che fa dire che la Chiesa ha sempre superato le crisi che ha dovuto affrontare, e che fa capire come dalla soluzione di una crisi, da una ripresa, si sia poi passati alla crisi successiva, con una nuova ripresa, e così via. Ci si dimentica, però, di riflettere sul fatto oggettivo che tale linea ondulata non si snoda lungo una direzione orizzontale, non si avvolge intorno ad una retta orizzontale, ma si snoda e si avvolge lungo una linea inclinata: la stessa linea inclinata che partendo dall’alto, dalla vicinanza con Dio, si dirige verso il basso, verso l’allontanamento da Dio. Così che l’insieme della sinusoide si muove in senso discendente, tale che il punto più in alto dell’ultima ripresa finisce col trovarsi, giocoforza, più in basso della crisi precedente. A questo bisogna aggiungere che, com’è inevitabile in tutti i movimenti discendenti, il moto che si manifesta è tanto più accelerato per quanto si avanzi nella discesa: cosa che spiega perché le crisi sono sempre più gravi, com’è quella attuale.
Chi non tenesse presente questo andamento, verrebbe indotto in errore e sarebbe portato a pensare che la soluzione di una crisi possa corrispondere ad un impossibile ritorno all’indietro, e peggio ancora verrebbe indotto a supporre che dagli stessi uomini di Chiesa che hanno causato il danno possa derivare il rimedio necessario… chissà per quale impossibile metamorfosi!

Giunti al 2012, ci si ritrova con tutte le contraddizioni e gli errori e soprattutto con tutte le illusioni causate dalla falsa prospettiva evolutiva, che induce a credere che si possano cancellare 50 anni di Concilio e di post concilio, 50 anni di deviazioni, 50 anni di decadimento e di allontanamento da Dio, con una semplice inversione di rotta. Falsa prospettiva che fa scambiare timidi aggiustamenti e piccoli accorgimenti correttivi, più di forma che di sostanza, per tentativi di restaurazione. Falsa prospettiva che impedisce di vedere quanto dicevamo prima e cioè che il punto più alto dell’aggiustamento attuale continua a collocarsi ad un livello più basso della precedente deviazione a cui pretende di rimediare.
Non è un problema di buona volontà, è una questione di struttura interiore: gli uomini di Chiesa moderni, pur adoperando tutta la loro buona volontà, non riescono più a rendersi conto di che cosa esattamente porti verso l’alto e di che cosa invece attragga verso il basso, e facilmente confondono le due direzioni perché abbagliati dall’approvazione del mondo, dimentichi come sono che il successo umano è indice dell’insuccesso nei confronti di Dio.
Per esempio: pochi fanno caso al fatto che oggi si abusa della parola “amore” come fosse magica. Partendo dall’insegnamento che: Dio è amore, si pensa di poter proporre la pratica di questo amore attraverso la concezione umana dell’amore, addirittura attraverso la concezione umana “moderna” dell’amore, tutta ancorata alla dimensione naturale. Un amore, quello moderno, scaduto ormai al livello della sensazione viscerale, al mero livello dell’attrazione dell’uomo per l’uomo, un amore che privo dell’amore per Dio, non riesce neanche più a praticare l’amore per il prossimo. Un amore che non trae più verso l’alto, ma trascina ogni giorno di più verso il basso, verso il subumano, se possibile. Questa tendenza, seppure mossa dalla buona volontà, sollecita tanto la componente naturale dell’uomo da muoverlo ad abbandonare la sua componente spirituale, così che l’uomo è incoraggiato non più ad amare il prossimo per amore di Dio, ma, viceversa, ad amare semplicemente “l’altro”, per usare la terminologia corrente, credendo così di realizzare l’unico amore possibile per Dio: un amore di questo mondo per questo mondo che lascia Dio in quel mondo a cui non si aspira più perché pieni dell’amore di sé e “dell’altro”.
Un’altra riprova del decadimento dell’uomo moderno e dell’avvilimento dell’uomo di Chiesa moderno.

Ora, se le cose non fossero giunte ad un livello così basso, oggi non ci sarebbero uomini di Chiesa che, pur essendo convinti della imprescindibile necessità di rimanere fedeli alla Tradizione cattolica, si lasciano irretire dalla sollecitazione naturale dell’amabilità umana fino a scambiare la buona volontà umana con la retta volontà di cui parlano gli Angeli alla nascita del Salvatore. Segno che il moto discendente coinvolge inevitabilmente tutti gli uomini di questo nostro tempo triste e buio. Esattamente come ammonisce Nostro Signore: Non ci credete, perché con segni e portenti inganneranno anche gli eletti, se fosse possibile (Cfr. Mc. 13, 21-23).
Questa tendenza ad accreditare alla buona volontà meramente umana una valenza quasi tradizionale che non potrebbe avere e che non ha, è quella che porta a pensare che la crisi dell’ultimo cinquantennio possa essere reversibile, che la prospettiva che si intravede, e che presto o tardi finirà col realizzarsi, sarebbe una prospettiva di rinnovato ordine tradizionale: se questo è impossibile in termini umani, si dice, non è impossibile in termini divini, ragion per cui l’avvenire ci riserverebbe il ripristino della normalità tradizionale. Si tratta di una tendenza che si è ormai diffusa anche in ambienti tradizionali, fino a toccare quell’ambito tradizionale che può considerarsi il baluardo della resistenza contro lo svilimento della fede, tanto da potersi ritenere che è grazie ad esso che, a Dio piacendo, la fiamma della fede non si spegnerà. Ma la cosa non deve meravigliare, sia perché anche in questo caso si tratta di figli del nostro tempo, sia perché è umanamente comprensibile che i luccichii vaticani possano distogliere gli occhi, e poi le menti e i cuori, dallo scivolamento verso il basso nel quale, checché se dica, si rimane coinvolti tutti.
Resta solo quell’inciso del Vangelo: “se fosse possibile”, a ricordare che Nostro Signore non permetterà che tutti vengano ingannati e preserverà coloro che Lui si è scelto, perché a motivo di essi siano abbreviati i giorni della tribolazione e non tutti gli uomini si perdano (Cfr. Mc. 13, 18-20).

Quando si volesse precisare che considerazioni come queste attengono più ad una fede naturale piuttosto che, come si dovrebbe, ad una fede soprannaturale, sarà opportuno richiamarsi al sano realismo cattolico e ricordare che la penultima crisi della Chiesa fu quella del progressismo e del modernismo, contro i quali si mosse un corpo ecclesiale ben più agguerrito nella fede di quello attuale, e che questo avvenne in un contesto sociale e umano in cui persistevano una percezione e una pratica della fede che, seppure già deboli, erano ben più radicate e serie di quelle attuali. Eppure, dalla crisi del modernismo si passò ad una brevissima stagione di tregua che sfociò ben presto, negli anni ’60, nel Vaticano II, a dimostrazione del fatto che né la fede dei cattolici, né i richiami dei papi, né le preghiere dei consacrati poterono impedire che il processo di decadimento andasse avanti fino a produrre una nuova più devastante crisi: quella che stiamo ancora vivendo.

Se poi si volesse puntualizzare che non siamo più nel 1988 e che in questi anni, fino al 2012, si sono registrati degli apprezzabili miglioramenti, sarà opportuno appellarsi al sano realismo cattolico e ricordare che ben più del blasfemo raduno di Assisi del 1986, oggi è in fase di avanzata realizzazione la diabolica adunanza degli anticattolici, presieduta dal Vaticano e promossa perché i fedeli cattolici apprendano dagli anticristi il modo migliore per comprendere e praticare la fede. Parliamo della equivoca iniziativa del “cortile dei gentili”, dove si gabella per apertura al mondo il passaggio degli uomini di Chiesa dagli stalli delle cattedrali alle stalle dei laboratori ove si producono i virus della dissoluzione.

Se infine si volesse obiettare che, ciò nonostante, negli ultimi 7 anni si sono visti segni di ripresa tradizionale tutt’altro che trascurabili, come il ripristino della S. Messa tradizionale o la remissione della scomunica del 1988 o lo svolgimento di complesse discussioni sulla vera portata del Vaticano II, col relativo  corollario della spontanea apertura di un acceso dibattito sul suo valore magisteriale, allora siamo costretti a ricordare che è proprio dall’esame di questi “aggiustamenti” che si coglie la conferma di quanto dicevamo prima circa l’apparente passo indietro che continua a rivelarsi un ulteriore passo avanti.
La S. Messa tradizionale non è stata recuperata, ma è stata declassata a mero espediente atto a confermare il suo supposto valore relativo rispetto alla deviante Messa moderna.
La scomunica è stata rimessa per ribadire che era stata comminata legittimamente e sacrosantamente a difesa della deviazione modernista attuata dal Vaticano II, tant’è vero che la memoria del due vescovi deceduti non è stata minimamente riabilitata e l’esercizio del ministero dei quattro vescovi viventi è stato impedito e sottoposto perfino a procedure inquisitorie.
Lo svolgimento dei colloqui dottrinali ha permesso di ribadire la incompatibilità fra insegnamenti tradizionali e pretesi insegnamenti moderni, ma con la sottolineatura che questi ultimi non possono essere negletti, per la supposta natura stessa del Magistero che non potrebbe che essere “progressivo”, a conferma che il decadimento è tale che perfino la comprovata incompatibilità tra l’antico e il moderno si pretende che debba comportare, non la sconfessione del moderno, ma la revisione critica dell’antico sulla base del moderno, come d’altronde si è fatto già da tempo sottoponendo perfino i Vangeli alla cosiddetta nuova esegesi.

Pensare che nel bel mezzo di questo processo di inarrestabile decadimento si possa passare da una fase negativa ad una fase positiva capovolgendo la tendenza principale e ripristinando un nuovo ordine tradizionale, significa far mostra di una ingenuità quasi colpevole, significa disconoscere l’insegnamento che ci viene dalla storia della Chiesa in questo mondo, significa perdere di vista l’escatologia dell’esistenza, significa soggiacere alla suggestione progressista dell’evoluzione migliorativa, in ultima analisi significa concorrere, senza rendersene conto, all’accentuazione del detto processo, dimenticando che è inevitabile che lo scandalo ci sia, ma guai a coloro…!

Oggi ci troviamo in una fase accentuata del processo di decadimento e ciò che occorre è una tenuta quanto mai radicale della fede, indipendentemente da come si svolgono le cose della Chiesa ufficiale. Una tenuta che, per quanto difficile da definire e da praticare, per quanto complicata da giustificare in termini comuni, permetta di salvare il salvabile, in ordine alla pratica della fede e al mantenimento dei mezzi soprannaturali per la salvezza delle anime. E per far questo è importante che si giunga a considerare che il perdurare della fede nel mondo fino alla Parusia è cosa che può avvenire, sempre secondo i piani di Dio, anche indipendentemente dalle vicende della Chiesa ufficiale, della neo-Chiesa nata dal Vaticano II. E a chi, a questo punto, ci volesse richiamare ad un maggiore sensus Ecclesiae, rispondiamo, sulla base di quanto dicevamo prima a proposito della reale consistenza della Chiesa di Cristo in questi tempi ultimi, che è proprio il sensus Ecclesiae che ci spinge a considerare che la permanenza della fede e dei mezzi soprannaturali per la salvezza delle anime deve e può continuare a sussistere cum Petro et sub Petro, si necesse obstante Petro (con Pietro e sotto Pietro, se necessario nonostante Pietro).
Espressione che a prima vista potrà apparire eccessiva e ad alcuni perfino scandalosa, ma che trova riscontro negli stessi Vangeli.
Su questo complesso argomento del “destino del magistero petrino” abbiamo già scritto un articolo in tempi non sospetti ed è ad esso che rimandiamo, non potendo ritornarci qui per la complessa articolazione dell’argomento. 
E questa espressione, è bene precisarlo, non ha niente a che vedere col sedevacantismo, di cui oggi in molti, a dritta e a manca, agitano lo spettro a mo’ di monito minaccioso, perché è bene precisare che il voler mantenere la fede anche a costo di prescindere da Pietro, significa propriamente continuare a riconoscere la presenza e la funzione di Pietro, cosa che con tutta evidenza è l’inverso del sedevacantismo che taglia corto sulla problematica e se ne esce con la comoda scappatoia che Pietro non ci sarebbe più, illudendosi così di aver risolto il problema degli errori del Vaticano e del complessivo decadimento della Chiesa: in realtà Pietro c’è ed è il suo esserci che impone, per il bene delle anime, che, se necessario, se egli in qualche modo devia dalla sua funzione, si debba mantenere la fede malgrado Pietro.

Ovviamente, ci sarebbe anche la possibilità che Pietro non abbia affatto deviato dalla sua funzione, che le cose della Chiesa vadano benissimo, che sia in atto una sempre più diffusa pratica dei comandamenti di Nostro Signore, presso i singoli, la famiglie e le nazioni, che l’insegnamento della Chiesa sia il faro che illumina ogni condotta umana privata e pubblica, che la salvezza delle anime sia sempre più ampiamente e seriamente praticata, e che quindi la fede giunga alla Parusia in splendido rigoglio, nonostante i moniti di Nostro Signore. Ebbene, se così fosse, se ci fossimo clamorosamente sbagliati, il presente scritto varrebbe un bel niente e saremmo i primi a chiedere scusa ai nostri lettori per la perdita di tempo.





giugno 2012

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