Gesuiti che difendono, malamente,
il Papa gesuita

di Giacomo Devoto





Ci è stato segnalato un curioso articolo tratto dalla rivista dei Gesuiti statunitensi “America”, intitolato “Non è un pontificato divisivo”, tradotto in italiano e pubblicato dal sito dehoniano “settimana news”
http://www.settimananews.it/liturgia/non-un-pontificato-divisivo/

L’articolo è curioso per il contrasto manifesto tra il tema svolto e i dati citati e utilizzati per svolgerlo.
Esso parte dal motu proprio Traditionis custodes di Papa Francesco e dalle reazioni che ha suscitato.
Nel suo complesso esso è abbastanza mediocre e non varrebbe la pena soffermarvisi; tuttavia, nel leggerlo abbiamo notato diverse imprecisioni e altrettante distorsioni, che appaiono volute.

Dato l’argomento trattato ci è sembrato opportuno esporre alcune considerazioni, per rendere ad ognuno il suo.

L’autore dell’articolo fa risalire la responsabilità del motu proprio di Papa Francesco al motu proprio di Papa Benedetto XVI, il Summorum pontificum, sostenendo che quest’ultimo Papa avrebbe “creato una situazione che non era mai esistita prima, in cui due forme del Rito Romano (una riformata, una no) sarebbero state liberamente praticate allo stesso tempo in tutta la Chiesa.

Ora, nonostante sia stato proprio Benedetto XVI a parlare di “forme”, l’autore pare non si renda conto che un rito liturgico non può assolutamente comportare una o più forme. Il rito, di per sé, è al tempo stesso la forma, l’unica forma possibile e praticabile. La stessa Chiesa parla di “forma” per la validità del sacramento, insieme alla materia e all’intenzione, intendendo per “forma” il rito stesso nella sua formulazione e nella sua modalità di amministrazione. 

L’autore considera anche che Benedetto XVI ha svincolato i sacerdoti che volessero celebrare col Messale del 1962 dall’autorizzazione del proprio Vescovo.

Ora, non vi è dubbio che Benedetto XVI sembra avere introdotto una innovazione, ma non si tiene conto che all’origine di questa vi è il divieto imposto da Paolo VI all’uso dei libri liturgici in vigore prima e durante il concilio Vaticano II. Se quindi vi è stata una anomalia, di essa è responsabile Paolo VI.
A questo proposito è opportuno ricordare che il nuovo rito della Messa fu voluto da Paolo VI, indipendentemente da quanto contenuto nei documenti del Vaticano II. La costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium non parla affatto di abolizione del rito in vigore (del 1962) e della creazione di un rito nuovo.
Come se non bastasse, l’autore, nello svolgere il suo argomento, fa finta di non conoscere la Bolla Quo primum tempore di San Pio V, che è il documento base del Messale in vigore dal 1570 al 1969, anno in cui fu promulgata la nuova Messa di Paolo VI.
Nella Bolla Quo primum tempore, è detto testualmente:
«Anzi, in virtú dell'Autorità Apostolica, Noi concediamo, a tutti i sacerdoti, a tenore della presente, l’Indulto perpetuo di poter seguire, in modo generale, in qualunque Chiesa, senza scrupolo veruno di coscienza o pericolo di incorrere in alcuna pena, giudizio o censura, questo stesso Messale, di cui dunque avranno la piena facoltà di servirsi liberamente e lecitamente: cosí che Prelati, Amministratori, Canonici, Cappellani e tutti gli altri Sacerdoti secolari, qualunque sia il loro grado, o i Regolari, a qualunque Ordine appartengano, non siano tenuti a celebrare la Messa in maniera differente da quella che Noi abbiamo prescritta, né, d'altra parte, possano venir costretti e spinti da alcuno a cambiare questo Messale» (n. VII).

Questo significa che Benedetto XVI non ha introdotto alcuna innovazione, fu Paolo VI a violare il disposto del suo predecessore; nonostante nella stessa Bolla Quo primum tempore, è detto testualmente:
«Nessuno dunque, e in nessun modo, si permetta con temerario ardimento di violare e trasgredire questo Nostro documento: facoltà, statuto, ordinamento, mandato, precetto, concessione, indulto, dichiarazione, volontà, decreto e inibizione. Che se qualcuno avrà l'audacia di attentarvi, sappia che incorrerà nell'indignazione di Dio onnipotente e dei suoi beati Apostoli Pietro e Paolo» (n. XII).

Ed è bene ribadire che non fu il Vaticano II a decretare con la sua autorità la creazione di un nuovo Messale, ma fu la temerarietà di Paolo VI, che volle un nuovo Messale totalmente diverso dal precedente, il quale non solo contava quattrocento anni, ma risaliva agli Apostoli.

Le  distorsioni continuano. L’autore afferma che Benedetto XVII, col permettere l’uso del Messale del 1962, avesse l’intenzione di realizzare “un mezzo per riconciliare i tradizionalisti con l’autorità papale”, e “volesse vedere la maggiore disponibilità del rito più antico innescare una “riforma della riforma”, in cui il rito pre-Vaticano II avrebbe influenzato il rito post-Vaticano II sia nella teologia sia nella pratica”.

Qui l’autore non si rende conto che sta affermando che esisteva una teologia e una pratica del rito “pre-Vaticano II” e altrettante del rito “post-Vaticano II”.
Questa affermazione, in realtà, confessa che si trattava – e si tratta – di due riti diversi quanto all’essenziale: due teologie equivalgono a due diverse concezioni del culto che la Chiesa rende a Dio e, in ultima analisi, equivalgono a due Chiese diverse, a due religioni diverse; e se il rito “pre-Vaticano II” aveva la forza di “influenzare” il rito “post-Vaticano II”, è evidente che la sua teologia e la sua pratica – cioè la sua formulazione – erano di uno spessore liturgico e teologico superiore a quelle del nuovo rito.
Questa considerazione dell’autore, però non gli permette di dedurne che il nuovo rito è talmente manchevole da poter essere considerato una sorta di sottoprodotto liturgico. Ma l’autore non è interessato a dedurre logicamente le conseguenze delle sue considerazioni: egli deve svolgere una tesi preconcetta e non gli importa di inciampare malamente.

Ma – dice l’autore – l’esperimento di Benedetto XVI fallì: né la Fraternità San Pio X si riconciliò, né gli Istituti in comunione con Roma che usavano esclusivamente il “vecchio rito” smisero di “criticare aspramente la riforma”.
Lo afferma – l’autore – senza però porsi la più elementare delle domande: come mai tutti costoro continuavano – e continuano - a criticare la riforma e il Vaticano II?
Noi suggeriamo due possibili risposte: o costoro sono rinchiusi nel loro ingiustificato partito preso o hanno fondati motivi per manifestare le loro critiche.
Noi non sappiamo con quale risposta converrebbe l’autore, ma riteniamo che molto probabilmente egli seguirebbe la prima; dimostrando così di non avere alcun interesse a cogliere, anche in parte, i fondati motivi dei critici della riforma e del Vaticano II. Eppure sono passati quasi sessant’anni, in cui gli studi seri sul Concilio e sulla nuova Messa si sono moltiplicati: ma l’autore sembra non interessarsi ad essi, proprio perché egli ha una sua tesi preconcetta che non permette possa essere messa in dubbio da studi seri.

Ma l’autore sembra non conoscere il significato di studi seri, lo si evince da frasi come questa: “Non si può ignorare la letteratura proveniente da blog tradizionalisti, siti web e altri luoghi di pubblicazione che ha cercato di minare la riforma liturgica uscita dal Vaticano II e ricicla falsità su come essa ha preso forma”.
Questa frase rivela che l’autore ritiene cosa ordinaria scrivere cose distorte.
“La letteratura” dei “tradizionalisti” ha cercato di minare… e ricicla falsità.
Ora, i tradizionalisti non “cercano di minare la riforma liturgica”, essi la criticano per la sua evidente lontananza dalla dottrina cattolica sulla Messa; e nel criticarla si attengono alla realtà: la riforma fu diretta da un prelato che risultò essere massone e fu quindi allontanato da Roma; la riforma fu realizzata col concorso di pastori protestanti, notoriamente contrari alla Messa cattolica, al suo concetto di rinnovamento incruento del Sacrificio del Golgota, al suo fondamento della presenza reale di Nostro Signore sull’altare a seguito della consacrazione.
Fu lo stesso Paolo VI a far suo il termine “cena del Signore” per designare la nuova Messa, a imitazione di Lutero.
Queste non sono falsità, basta andare a leggere, non i blog dei tradizionalisti, ma i documenti pubblicati dalla Chiesa ufficiale dopo la promulgazione della nuova Messa. Ma evidentemente l’autore o non li ha mai letti o li ha letti e li ha condivisi, salvo poi far finta di dimenticarli per poter accusare di “falsità” i tradizionalisti.
E dire che si tratta di un articolo pubblicato dai Gesuiti, che però dimostrano chiaramente di aver rinunciato agli insegnamenti del loro fondatore.

Passiamo adesso ad un vecchio e logoro luogo comune che l’autore fa proprio credendo di dare forza al suo discorso, e non accorgendosi che invece lo indebolisce.
Anche se alcuni sono presi da argomenti in opposizione al Vaticano II, ci sono altri che preferiscono i riti più antichi semplicemente per ragioni estetiche e personali, non perché rifiutano il Concilio o considerano la liturgia riformata come non ortodossa”.

“Ragioni estetiche”, ecco il luogo comune che da anni viene ripetuto a pappagallo senza mai preoccuparsi di spiegarlo.
Se la Messa tradizionale fosse esteticamente più attraente per i paramenti usati dal celebrante o per l’uso del latino che darebbe un’aura di eleganza, bisognerebbe dire che i tradizionalisti sono dei ragazzotti infatuati, ma non è così, e lo spiega lo stesso autore anche in forma dubitativa: “Forse sono stati attratti dai vecchi riti per la loro enfasi sulla cerimonia e la riverenza, il silenzio e l’adorazione”.

Sembra incredibile, ma per l’autore “riverenza, silenzio e adorazione” sembrano essere una particolarità dei “vecchi riti”, come se non si trattasse del culto che la Chiesa rende a Dio e quindi come se questi tre elementi non dovessero far parte di ogni Messa, anche della nuova.
L’autore riconosce implicitamente che la cerimonia del nuovo rito non suscita alcuna attrazione, che in esso non vi è “riverenza”, né “silenzio”, né “adorazione”; ed ha ragione, anche perché lo ha sicuramente sperimentato.
Ma allora, che roba è questo nuovo rito? Di certo non è una Messa, visto che manca di riverenza, e dobbiamo dedurne che questa manchi, non solo nei fedeli, ma anche nel celebrante.
Che Messa è se non vi è neanche quel silenzio che aiuta i fedeli a rivolgersi a Dio?
Che Messa è se manca l’adorazione e cioè se manca l’elemento essenziale che rende Messa la Messa?
La verità è che il nuovo rito non intende rendere culto a Dio – con riverenza, in silenzio e in adorazione -, ma intende rendere culto all’uomo – con la semplice buona educazione, le chiassose manifestazioni di gaudio umano, e il mero rispetto formale che è il massimo che l’uomo possa tributare all’uomo.
E poi si dice che è esagerato chiedere di abolire questo nuovo rito che è tutto tranne che una Messa!
Ma si rende conto l’autore di quello che scrive?

Quale “atmosfera riverente”, quale “senso dell’alterità di Dio”- sottolinea l’autore -: tutte cose da poco, che ci vuole niente per realizzare:
Se il latino e il canto gregoriano sono ciò che è richiesto per soddisfare il desiderio di un’atmosfera più riverente alla messa o un senso dell'“alterità” di Dio, è facile immaginare come questo possa essere realizzato”.

E come?
Posto che “abbiamo molta esperienza nell’ospitare una diversità di stili nella liturgia parrocchiale”, basta trasformare i centri di Messa che “ospitano la forma straordinaria” in centri ove “la liturgia riformata viene celebrata in latino, con il canto gregoriano”.
Tutto qui!

Il problema per i tradizionalisti – dice l’autore – è ascoltare il latino e cantare il gregoriano. Egli tralascia quello che lui stesso ha appena detto – riverenza, silenzio, adorazione – e non si rende conto che il vero problema è la dottrina, è la teologia della Messa, è il bisogno di entrare in chiesa e sentirsi di trovarsi nella casa del Signore, col mondo lasciato dietro la porta. E’ la presa di coscienza di trovarsi in un luogo in cui si congiungono la liturgia della terra con la liturgia del Cielo per rendere gloria a Dio. E’ la consapevolezza che al momento della celebrazione della Messa – quella vera – gli Angeli scendono fino all’altare ad accompagnare lo stesso Cristo Nostro Signore che si rende realmente presente in corpo, anima e divinità al momento  della consacrazione.
L’autore, però, sembra non conoscere queste cose, preso com’è dal culto dell’uomo che ha sostituito il culto di Dio. Egli conosce invece “una diversità di stili” nella celebrazione della “liturgia parrocchiale”; diversità di stili nei quali vorrebbe far rientrare lo stile dell’uso del latino e del canto gregoriano. Insomma, una ulteriore variazione sul tema della nuova Messa, adusa ad ogni umana invenzione.
Noi siamo pratici – sembra dire l’autore – nel celebrare la Messa come ci pare, quindi possiamo anche celebrarla in latino e col canto gregoriano. Una considerazione che fa capire qual è per lui il senso della Messa cattolica.

Ora, non possiamo esimerci dal considerare che tutte queste considerazioni dell’autore sembrano essere state tratte, pari pari, dalla teologia protestante, che rigetta in toto la Messa cattolica, il Papa e la Chiesa cattolica.
Non intendiamo dire che l’autore è un protestante, ma ragiona come un protestante, e non è un caso che sia un cattolico moderno cultore della nuova Messa. E’ questo uno dei frutti del Vaticano II.

Per finire, diciamo che, alla luce di quanto scritto dalla rivista dei Gesuiti, che abbiamo appena visto, i cultori della Messa tradizionale, con la sua connessa dottrina e la sua pratica millenaria, hanno il dovere di persistere nella loro vocazione e di diffonderla tra tutti i fedeli, per la maggior Gloria di Dio e la salvezza eterna delle loro anime.
Hanno il dovere di aprire sempre nuovi centri di Messa in cui si celebra solo la Messa tradizionale e in cui si insegna solo il vecchio Catechismo della Chiesa cattolica, il Catechismo di San Pio X. E se non riescono ad aprire nuovi centri di Messa perché col suo motu proprio Traditionis custodes Papa Francesco lo ha vietato, si rivolgano alla Fraternità San Pio X: servendosi delle sue cappelle e industriandosi per costituirne delle nuove.




ottobre 2021

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