NON PREOCCUPATEVI DI QUEL CHE DIRETE

parte prima

di Mattia


parte prima
parte seconda





Ripreso da SI SI NO NO, anno XLVII, n° 18, del 31 ottobre 2021

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Introduzione

Nel capitolo X del Vangelo secondo San Matteo, Gesù, dopo aver scelto i dodici Apostoli (vv. 1–4), dà loro alcune istruzioni per la loro prima missione in Galilea (vv. 5–15) e, infine, consegna loro alcune belle raccomandazioni per la missione che dovranno svolgere nel mondo intero (anche tra i Pagani) dopo la Pentecoste (vv. 16–23).

Queste ultime raccomandazioni (X, 16–23) sono molto attuali nella presente “ora di tenebre” (Lc., XXII, 53) che il mondo intero sta attraversando. Perciò cercherò di approfondirne il significato alla luce della Tradizione patristica e scolastica.

Innanzitutto Gesù dice ai suoi Apostoli che li manderà “come pecore in mezzo ai lupi” e raccomanda loro di essere “prudenti come i serpenti, ma semplici come le colombe” (v. 16). Questo versetto sarà il tema che tratterò per primo nel presente articolo.

Poi il Salvatore annuncia loro le persecuzioni cui andranno incontro (vv. 17–18).

Tuttavia, rivela e insegna (non solo a loro ma anche a noi tutti) che quando saremo posti nelle mani dei nostri persecutori: «Non vi mettete in pena del che o del come abbiate a parlare…» (vv. 19–20).

Insomma, gli Apostoli devono sapere che essi «si troveranno esposti a mille pericoli, come pecore in mezzo ai lupi; quindi devono usare ogni circospezione al fine di non compromettere la loro predicazione, ed essere prudenti come il serpente, che è riguardato come il simbolo della prudenza. Però, la prudenza necessaria per sfuggire alle insidie e scampare ai pericoli deve essere congiunta colla semplicità simboleggiata nella colomba, altrimenti sarebbe furbizia carnale. La semplicità che devono possedere gli Apostoli è quella di non dare ai malvagi motivo di nuocere e di non vendicarsi montando in orgoglio» (MARCO SALES, Commento al Vangelo secondo San Matteo, Proceno, Effedieffe, II ed., 2015, p. 66, nota n. 16).

La Tradizione patristica:

SAN GIOVANNI CRISOSTOMO

Gesù, inviando i suoi Discepoli all’apostolato (Mt., X, 16), li fornisce del potere di fare miracoli per confermare la loro predicazione, ma, nel tempo stesso, preannunzia loro i mali cui andranno incontro, in modo da prepararli alla lunga guerra che stanno per intraprendere contro il demonio, il mondo e la carne (san GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al Vangelo di San Matteo, Discorso XXXIII, tr. it., Roma, Città Nuova, 1966, II vol., p. 113).

Tuttavia Gesù dice loro che essi dovranno andare a combattere, ma «mostrando la mitezza degli agnelli, sebbene li mandi in mezzo ai lupi; però comanda loro di avere anche la semplicità delle colombe» (ibidem, p. 114).

Perché Gesù raccomanda loro la dolcezza dell’agnello e la semplicità della colomba, mandandoli in mezzo ai lupi? San Giovanni Crisostomo risponde che il Signore lo fa per manifestare la sua potenza «cosicché gli agnelli, pur trovandosi in mezzo ai lupi ed essendo dilaniati dai loro morsi crudeli, non solo non saranno annientati, ma li vinceranno e li convertiranno» (Ivi).

Insomma, il Vangelo vuole insegnarci che gli Apostoli pur essendo solo dodici e in mezzo a un mondo di lupi malvagi, hanno vinto non per la loro forza e capacità, ma per la loro mansuetudine e umiltà che li ha resi docili strumenti nelle mani dell’onnipotenza divina. L’aiuto di Dio soccorre chi si abbassa e si umilia, non chi s’innalza e si inorgoglisce; in breve soccorre l’agnello mansueto e piccolo (ossia umile) e non il lupo forte e orgoglioso.

Infatti, Gesù «porta al pascolo gli agnelli e non i lupi e, se tu con il tuo orgoglio gli impedisci di manifestare la sua onnipotenza, Egli ti lascerà solo e se ne andrà da te; invece, se tu – pur essendo dilaniato dai tuoi nemici – ti dimostrerai umile e mansueto, allora tutto il merito della vittoria sarà attribuito chiaramente a Dio» (Ivi).

Perciò il Vangelo ci esorta in questo versetto a non intralciare l’opera di Dio con il nostro orgoglio, che oscurerebbe la luce della sua vittoria.

Gesù rincuora i suoi Discepoli e tutti i Cristiani che vivranno sino alla fine del mondo, dicendo: «Non turbatevi per il fatto che, pur mandandovi tra i lupi, io vi ordino di essere come agnelli e come colombe. Avrei potuto agire diversamente e risparmiarvi ogni sofferenza; avrei potuto rendervi più forti dei leoni, ma conviene che avvenga così, poiché ciò farà risplendere maggiormente la vostra umiltà e proclamerà anche il mio potere» (Ibid., p. 115).

Lo stesso concetto lo esprime anche san Paolo: «Ti basta la mia grazia, perché la mia potenza trionfa nella debolezza» (II Cor., XII, 9); così Gesù nel Vangelo ci avverte che  Lui ha voluto che noi diventassimo miti e umili come gli agnelli e che non dobbiamo abbatterci se Egli ci invia “come agnelli in mezzo ai lupi”; infatti, Egli sa certissimamente che i Cristiani saranno invincibili soprattutto grazie alla loro umiltà e mansuetudine ed è per questo che ci dice: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete la pace per le vostre anime!» (Mt., XI, 29).

San Giovanni Crisostomo aggiunge, tuttavia, un’osservazione molto importante: «Volendo Gesù, che i suoi Apostoli e Discepoli compiano qualcosa anche da se stessi, poiché occorre cooperare con la grazia divina per ottenere la corona da Dio dopo aver legittimamente combattuto (II Tim., II, 5), aggiunge: “Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”» (Ib., p. 116).

Ora, potremmo obiettare: Che cosa potrebbe fare la nostra prudenza quando ci troveremo come agnelli in mezzo ai lupi oppure come colombe in mezzo agli avvoltoi?

Attenzione! Gesù ci raccomanda la prudenza del serpente, che se lascia scoperto il suo corpo, tuttavia nasconde e ripara la sua testa, che sola è vulnerabile e mortale. Infatti, se calpesto il corpo del serpente e non gli schiaccio il capo, egli non solo resta in vita, ma si volta e mi morde.

Il Crisostomo legge in maniera anche allegorica e spirituale questa raccomandazione di Gesù, spiegando che come il serpente salva la testa anche se lascia scoperto il corpo e la coda, così il Cristiano deve salvare la fede e l’anima e per esse deve abbandonare anche i suoi beni materiali, il corpo e persino la vita stessa materiale. Infatti, il Signore ci ha insegnato: «Non temete chi uccide il corpo, ma chi uccide l’anima e poi la getta nella Geenna!» (Mt., X, 28).

Se vediamo gli esempi che ci hanno lasciato i primi Discepoli di Gesù, vediamo come costoro non solo furono semplici come colombe, ma ebbero la prudenza del serpente. Infatti, «quando i Giudei si levavano furiosi contro di essi e aguzzavano i loro denti per sbranarli, gli Apostoli non solo imitarono la dolcezza delle colombe, ma risposero con prudente fermezza alle loro ingiunzioni. Perciò, quando i Giudei li accusavano di non aver obbedito agli ordini solenni del Sinedrio di non predicare il nome di Gesù (Atti, V, 28), gli Apostoli, che avrebbero potuto fare miracoli strepitosi, risposero con prudente mitezza e senza rancore o risentimento: “Giudicate voi stessi se sia giusto ubbidire a voi anziché a Dio” (Atti, IV, 19) e in ciò mostravano la dolcezza della colomba; mentre quando risposero: “Noi non possiamo tacere le cose che abbiamo viste e udite” (Atti, IV, 20) da Gesù e su Gesù, mostrarono la prudenza del serpente.

Perciò, quando i cattivi pastori ci dicono: “Tu, non devi celebrare la Messa degli Apostoli! Tu, devi dare l’Eucarestia sulle mani! Tu, devi accettare il vaccino, anche se contiene feti abortiti! Tu, devi adorare la Pachamama!”. Noi, semplici come colombe, dobbiamo rispondere che “non possiamo disobbedire a Dio per obbedire agli uomini” (cfr. Atti, IV, 9), fossero anche i Sommi Sacerdoti del Vecchio o del Nuovo Testamento, poiché san Paolo ci ha insegnato: «Anche se un angelo del cielo o noi stessi v’insegnassimo un Vangelo diverso da quello di Gesù, sia anatema!» (Gal., I, 8).

Nel medesimo momento, cercando di essere prudenti come serpenti, dobbiamo anche rispondere loro: “Non possiamo tacere quanto Gesù ci ha rivelato!” (cfr. Atti, IV, 20). Infatti, la “suprema legge della Chiesa è la salvezza delle anime”, non è il mantenimento dell’incardinazione. Ora, se è lecito e doveroso cercare di mantenere l’incardinazione; tuttavia, sarebbe inopportuno “insegnare un Vangelo diverso da quello di Cristo” (cfr. Gal., I, 8), “ubbidire ai (cattivi) Pastori disobbedendo a Dio” (cfr. Atti, IV, 19) e “tacere quel che Gesù ci ha rivelato” (cfr. Atti, IV, 20). Di fronte a un ordine illecito e peccaminoso non si può e non si deve obbedire. Quest’adagio è stato sempre applicato nella storia dell’umanità (anche al Processo di Norimberga del 1946).

Soffrendo otterremo la vittoria, ma anche facendo valere le ragioni della nostra fede, “senza la quale è impossibile piacere a Dio” (Ebr., XI, 6).


SAN GIROLAMO

Nel suo Commento al Vangelo di Matteo (tr. it., Roma, Città Nuova, 1969, p. 86) san Girolamo scrive che Gesù (in Matteo X, 16) insegna ai suoi Apostoli a «sfuggire alle insidie con la prudenza, mentre con la semplicità a non far male a nessuno. Inoltre, qui viene portata come esempio l’astuzia del serpente, il quale con tutto il suo corpo nasconde e ripara il suo capo, e così protegge la sua parte più delicata e vulnerabile, in cui risiede la vita. Il Signore ci insegna, così, a custodire da ogni pericolo pure noi, con altrettanta prudenza, il Capo del nostro Corpo Mistico, che è Gesù Cristo. Infine, la semplicità della colomba è dimostrata dal fatto che sotto tale forma si manifesta lo Spirito Santo, il quale ci rende “simili ai bambini, quanto alla malizia” (I Cor., XIV, 20)».


ANONIMO AUTORE DI “OPUS IMPERFECTUM IN MATTHAEUM”


Il Commento incompleto su Matteo era stato attribuito comunemente a san Giovanni Crisostomo, ma più recentemente si ritiene che esso sia stato scritto da un Vescovo di rito greco dell’inizio del V secolo della Chiesa.

In esso l’Autore spiega che Gesù invia i suoi Apostoli «“come pecore” in mezzo ai loro nemici i quali sono “lupi” nel senso pieno della parola e non vengono presentati da Gesù “come lupi”. Infatti, il “come” sta per significare che anche l’uomo di Dio, sebbene sia buono (pecora) o meglio abbia un po’ di bontà, ha sempre in sé qualcosa di malvagio inerente alla natura umana decaduta, ossia alla “carne” con le tre concupiscenze, poiché è pur sempre un uomo pure se buono; perciò è definito “come agnello” per il bene che Dio gli ha dato, ma in maniera limitata e finita. Insomma ha un po’ di bontà e non è la Bontà stessa sussistente. Invece, il nemico di Dio, è detto “lupo” semplicemente, poiché in quanto nemico del Signore non è per nulla buono, quindi non è “come un lupo”, ma è lupo e basta» (ANONIMO, Opus imperfectum in Matthaeum, omelia 24).

Infine, in un’epoca di antropolatria come la nostra, è bella e utile la considerazione che l’Anonimo autore dell’Opera incompleta su Matteo svolge riguardo alla tanto decantata “dignità dell’uomo” quando scrive: «L’uomo è il male peggiore rispetto a ogni altro male. Infatti, se lo vorrai paragonare alle bestie, lo troverai peggiore. La bestia, pur se crudele, tuttavia è priva di ragione; perciò l’uomo può facilmente evitare la sua crudeltà. Invece, l’uomo è non solo crudele ma è anche dotato di ragione, perciò più difficilmente ci si può sottrarre alla sua malvagità. Se paragoni il serpente all’uomo, troverai peggiore l’uomo; poiché il serpente pure se astuto, ha tuttavia timore dell’uomo e dunque lo morde solo se sta per essere schiacciato; altrimenti fugge. Invece, l’uomo ha l’astuzia del serpente, ma non ne ha il timore; perciò, se gli si presenta l’occasione assale con ferocia e non per difesa. Insomma, ogni animale ha in sé un solo male che gli è specifico (la serpe morde chi sta per schiacciarla), ma l’uomo li possiede tutti» (Omelia 24).


S. CIRILLO D’ALESSANDRIA

Il Santo alessandrino spiega che Gesù c’insegna a essere prudenti, ossia a «predicare i misteri della vera religione apertamente, ma senza ignorare la malvagità dei cattivi e così ad allontanarci da questi e a non esporci sconsideratamente alla sofferenza. Perciò, porta ad esempio il serpente, insegnando che i Cristiani debbono essere pronti a mettersi in salvo, se qualcuno li assale per nuocere loro. Tuttavia, il Redentore porta anche l’esempio delle colombe, poiché come l’uccello, scampato il pericolo, ritorna al suo nido abituale; così i Cristiani non devono allontanarsi totalmente dai persecutori, ma essi dopo che la persecuzione sia cessata, devono tornare a edificare e ad ammonire i mondani. Infine, Gesù stesso ci ha dato l’esempio, perché, perseguitato dai Giudei, si è allontanato da loro, ma poi è tornato a predicare in mezzo a essi» (CIRILLO D’ALESSANDRIA, Frammento 117).

La Tradizione scolastica

SAN TOMMASO D’AQUINO

L’Angelico scrive che Gesù stesso mandò i suoi Apostoli in mezzo ai pericoli. Il Salvatore l’ha rivelato e l’ha detto esplicitamente affinché quest’invio “come pecore in mezzo ai lupi” degli Apostoli «non venisse imputato all’ignoranza di Gesù oppure alla sua impotenza, quasi che Egli non fosse capace di proteggerli. Inoltre, lo disse loro apertamente affinché essi non credessero di essere stati ingannati, mentre erano stati preavvisati. Poi paragona gli Apostoli alle pecore per la mansuetudine e umiltà che avrebbero dovuto avere; mentre paragona i persecutori ai lupi per la rapacità» (S. TOMMASO D’AQUINO, Commento al Vangelo secondo Matteo, tr. it., Bologna, ESD, 2018, I vol., p. 789).

Nella Santa Scrittura lo stesso Gesù è paragonato a una pecorella: “Come una pecora sarà condotto al macello” (Is., LIII, 7), così pure i suoi discepoli: “Noi il suo popolo e il gregge del suo pascolo” (Sal., XCIV, 7).

Poi san Tommaso si chiede «perché Dio ha voluto metterli in questo modo in mezzo ai pericoli? Ciò fu per la manifestazione della sua onnipotenza, poiché se avesse mandato degli uomini forti e armati, la vittoria sarebbe stata imputata non alla potenza di Dio, ma alla violenza di Gesù e degli Apostoli; per questo mandò dei poveri, inermi e disprezzati. Infatti, fu una cosa veramente grande che attraverso costoro, tanti si siano convertiti al Signore» (Ivi).

Il paragone con il serpente (che è prudente per non ricevere i mali) e la colomba (che è semplice per non arrecare mali agli altri) viene spiegato così dall’Angelico: «Gesù vuole che essi abbiano la prudenza del serpente, il quale vuol sempre difendere il suo capo ossia la sua testa fisica. Ora, il Capo morale è Cristo, che deve essere rispettato, amato e conservato o non perduto. Tuttavia, la prudenza del serpente che non si fa uccidere non è paragonabile alla falsità o alla bassa furbizia che dice una cosa con la bocca e ne porta un’altra nel cuore (Sal., XXVII, 3). […]. Dopo aver paragonato i suoi Apostoli alla pecora perché non mormora, non si inalbera e non nuoce ad altri; qui li paragona pure alla colomba, perché non ha l’ira nel cuore» (Ibid., p. 789–791).

Conclusione

A queste lezioni, il nostro Redentore aggiunge anche un insegnamento che ci sarà di grande aiuto e consolazione, soprattutto in questi tempi bui: «Quando vi avranno trascinati davanti ai loro tribunali, non vi affannate di come parlerete e di quel che direte; poiché in quel momento, vi sarà detto quel che dovrete rispondere; non essendo voi a parlare, ma lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (Mt., X, 19–20).

Ma, questa consolantissima istruzione la vedremo in un prossimo articolo. Infatti, «Ogni giorno porta la sua pena» (Mt., VI, 34). Perciò, solo quando saremo posti nelle mani dei nostri persecutori ci sarà suggerito da Dio quel che dovremo dire; dunque, non ci mettiamo in pena anticipatamente del che o del come abbiamo a parlare (X, 19–20).





novembre 2021

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