Commento

al discorso di Benedetto XVI
del 14 febbraio 2013

di Giovanni Servodio


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Ed eccoci al discorso d’addio di Benedetto XVI, quello al clero romano del 14 febbraio. Un discorso che per certi versi sorprende, poiché era più facile pensare che il Papa uscente ricordasse ai chierici, di Roma e del mondo, qual è l’imperativo proprio della loro vocazione: perseverate in Dio sempre, per la salvezza delle anime: è per questo che siete stati vocati e siete stati ordinati dalla Chiesa!

Vogliamo insegnare al Papa? Assolutamente no! Ma abbiamo sempre pensato che il compito, il dovere del Papa si riassumesse nel comando di Cristo: «tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc. 22, 32).
Questo discorso, invece, è di tutt’altro tenore: come dice lo stesso Papa, «Per oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare un grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto penso ad una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho visto

Questa frase, che è un’introduzione e insieme un programma, denuncia il fatto che la grande preoccupazione del Papa uscente non è tanto ribadire la consegna della fedeltà a Cristo, quanto piuttosto ricordare l’esperienza del Vaticano II che, a questo punto, si rivela essere il vero imperativo di Ratzinger-Benedetto XVI, un imperativo che comprenderà pure, nella sua più intima intenzione, la volontà di servire il Signore, ma di servirLo a partire dal Vaticano II e non a partire da Cristo stesso.

Questa primaria preoccupazione, a sua volta, rivela la sua formazione mentale, la sua istanza teologico-dottrinale, e di conseguenza la sua azione, sia come Pontefice, sia come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Cosa questa che porta a considerare un elemento trascurato da molti: Joseph Ratzinger non dirige la Chiesa dal 19 aprile 2005, giorno della sua elevazione al Soglio Pontificio, bensì dal 25 novembre 1981, giorno della sua nomina a Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, voluta da Giovanni Paolo II tre anni dopo la sua elezione; è risaputo infatti che Joseph Ratzinger non è stato solo il guardiano della dottrina per conto di Papa Wojtyla, ma colui che ha dettato l’indirizzo teologico e dottrinale dell’intero pontificato di questo Papa. Questo bisogna sempre tenerlo presente, se si vuole davvero comprendere la reale portata di quello che in questi giorni è stato presentato come l’“opposizione al Papa”, quasi si trattasse di un accidenti capitato fra capo e collo ad un papa che non se lo aspettava.

Ora, questa “piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II” non può essere considerata, come dice il Papa uscente, un’improvvisazione sostitutiva di “un grande, vero discorso”, ma dev’essere considerata esattamente per quello che è: un vero e proprio discorso programmatico rivolto al prossimo conclave e quindi al prossimo papa, appositamente pensato, preparato e pronunciato. Una sorta di “testamento spirituale”, da cui si evincono due cose importanti: qual è stata la vera linea direttrice del suo pontificato e quale dovrebbe essere, secondo lui, la strada che il nuovo Papa dovrebbe percorrere nel futuro. Cose entrambe centrate su un aspetto rilevantissimo della sua “piccola chiacchierata”: l’animus, lo spirito, l’essenza del concilio Vaticano II.
Mentre sembra ricordare aneddoti, particolari e piccoli fatti importanti, in realtà il Papa uscente presenta in maniera più leggera, meno impegnativa e quindi più facilmente assimilabile, qual è stato il vero senso del Vaticano II.

E da questo punto di vista, questo discorso ha qualcosa di provvidenziale, poiché per la sua articolazione e per gli importanti elementi che contiene, si rivela essere di una lodevole chiarezza, tale che ci sembra opportuno ringraziare Benedetto XVI per aver dissipato tanti equivoci e chiarito tante controversie sulla valenza più o meno tradizionale o più o meno modernista del concilio Vaticano II.

Il primo “aneddoto” introduce propriamente lo scopo di questa “piccola chiacchierata”: Giovanni XXIII elogia il cardinale Frings per le sue idee sul “concilio e il mondo del pensiero moderno”. Ma chi era il cardinale Frings, oltre al prelato che volle al suo fianco il giovane teologo Joseph Ratzinger? Egli fu colui che introdusse la rivoluzione nel Concilio fin da subito… ergo, suggerisce il Papa uscente, non di rivoluzione si trattò, ma del genio pastorale del cardinale, che Giovanni XXIII colse come manna dal cielo.
Perché questa introduzione edificante? Per meglio presentare il vero spirito del Concilio, che poggiava su un presupposto che il Papa uscente delinea così: «si sentiva che la Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro … speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi».
A dispetto di ogni discorso dotto sulla continuità con la Tradizione, qui il Papa uscente fissa un principio essenziale, principio che oltre ad essere di altri (si sentiva… speravamo) è propriamente il suo, sia del giovane teologo Joseph Ratzinger, “perito ufficiale del Concilio”, sia del maturo cardinale Ratzinger divenuto ieri Papa Benedetto XVI ed oggi Papa uscente. «Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa». Che tradotto in parole povere, per una “piccola chiacchierata”, significa che bisognava fare una Chiesa nuova, che mettesse fine al passato, a “tutto” il passato, operando una svolta epocale “portatrice del futuro”.

Ora, occorre notare come il Papa uscente ripeta più di una volta il richiamo al futuro, al domani, al progresso, riferendoli alla Chiesa non in termini soprannaturali, ma in termini meramente temporali e mondani. «E sapevamo che la relazione tra la Chiesa e il periodo moderno, fin dall’inizio, era un po’ contrastante, cominciando con l’errore della Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo inizio sbagliato e di trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso.»
Non un cenno al vero futuro del credente, alla vitam venturi saeculi, non una parola sulla suprema legge della Chiesa, la salus animarum. Qui la preoccupazione primaria del Papa uscente, presentata come la preoccupazione primaria dei Padri del Concilio, è «l’unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso». Un’istanza irrefrenabile che sembra scaturire dalle logge massoniche o dai circoli mondialisti del nuovo ordine mondiale, e che qui viene offerta come l’istanza fondante della più grande assise della Chiesa: un concilio ecumenico, nonché suggerita e implicitamente raccomandata come l’istanza sacrosanta di tutta la Chiesa di oggi e di domani: “aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso”.

Fu per questo che Dio Padre volle l’Incarnazione del Figlio per opera dello Spirito Santo, la Sua Morte in Croce per mano dell’uomo, la Sua Resurrezione?
Certo che no! E tuttavia, ha ragione da vendere, il Papa uscente, perché fu proprio questo il Vaticano II: l’espressione di istanze mondane che miravano a scopi da raggiungere in comune col mondo. E qui potremmo citare interi passi dei Vangeli dove si raccomanda di fuggire il mondo, ma ne citiamo uno solo, riferito proprio a Pietro: «Lungi da me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt. 16, 23); e diciamo a Pietro, il primo Papa, perché è proprio cinque versetti prima che Simone riceve la solenne investitura: «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa» (Mt. 16, 18).

Per raggiungere questo scopo, dice il Papa uscente, bisognava partire da un’azione di forza, da condurre contro l’Autorità e il Magistero della Chiesa, che si erano preoccupati, essi, di approntare gli schemi da discutere al Concilio. «Eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e anche di volontà di fare la nostra parte».
Come?
«Il Papa ci ha convocati per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa. Così vogliamo assumere questo nostro ruolo», avrebbe detto il cardinale Frings, accompagnato dal giovane perito Ratzinger.
«Noi vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri candidati», avrebbero detto i Padri conciliari.
E qui, il Papa uscente ci tiene a precisare: «Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari», il che significa che la coscienza e il senso di responsabilità dei vescovi e dei cardinali convocati in Concilio, portavano costoro a rifiutare quanto predisposto dal Papa regnante, per provvedere motu proprio all’impostazione del Concilio.
I vescovi erano riuniti in Concilio, il Concilio era formalmente aperto: furono ispirati dallo Spirito Santo? Fu lo Spirito Santo che li indusse a rigettare le disposizioni del Papa e delle Congregazioni? E il Papa, in quel momento, era a sua volta ispirato ed assistito dallo Spirito Santo?

Questo, il Papa uscente non lo spiega, né lo accenna, dice solo che si trattò di «un’esperienza dell’universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi dall’alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del Successore di Pietro.»

Frase importantissima che, al di là dell’inevitabile “naturalmente”, afferma un altro principio ritenuto sacrosanto, da valere per ieri, per oggi e per domani: la Chiesa cresce e va avanti “insieme”, rigettando gli “imperativi dall’alto”.
Non c’era modo migliore per affermare che il Vaticano II, fin dall’inizio, fu condotto dai Padri conciliari sulla base di un principio democratico dei più moderni: quello che non riconosce alcun “alto” e che identifica l’esistenza e i destini del mondo, in questo caso della Chiesa, con la sommatoria delle volontà scaturenti dalle singole coscienze personali, in questo caso dei vescovi.
Idem come sopra: … furono ispirati dallo Spirito Santo? … sembrerebbe di no! Visto che si trattava di vescovi che si rifiutavano di «ricevere semplicemente imperativi dall’alto», si rifiutavano cioè di riconoscere una qualche autorità al di fuori di loro stessi. È evidente che nel Vaticano II, quell’influenza dello Spirito Santo che accompagna i lavori di un concilio, fu orgogliosamente respinta dai Padri conciliari, in quanto “imperativo dall’alto”.

È questo l’insegnamento che lascia oggi il Papa uscente ai preti della sua diocesi, e a tutta la Chiesa, a valere per il futuro. E con questo sono serviti tutti gli assertori dell’infallibilità del Concilio in quanto ispirato dallo Spirito Santo.

Ed una volta rifiutato, quasi sdegnosamente, l’“imperativo dall’alto”, come si mossero gli autoreferenziali Padri conciliari?
«I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta “alleanza renana”. E, nella prima parte del Concilio, erano loro che indicavano la strada; poi si è velocemente allargata l’attività e tutti sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio».
Ancora uno strepitoso esempio della più elementare e moderna democrazia. L’“alleanza renana”, sulla base dell’esigenza di rigettare ogni “imperativo dall’alto”, si fa promotrice e battistrada, si sostituisce all’“alto” e induce tutti i liberi e coscienziosi vescovi, inorriditi all’idea di dover seguire “l’alto”, a muoversi “orizzontalmente” e a seguire dal basso l’“alleanza renana”.
E poi c’è qualcuno che ha da fare appunti dotti, quando si ricorda che il Vaticano II si è svolto e si è pronunciato sulla base di concezioni e procedure che si riscontrano nei più banali e più puerili consessi democratici mondani.
Altro che assistenza dello Spirito Santo!
Tranne che non si volesse sostenere, cosa che il Papa uscente qui evita prudentemente di fare, che l’“alleanza renana” fosse essa stessa assistita dallo Spirito Santo, quasi in esclusiva, sia per le sue concezioni, sia perché guidasse e facesse da battistrada agli altri Padri conciliari.

E qual era questa strada? Innanzi tutto, dice Ratzinger-Benedetto XVI, quella di dar vita alla “creatività del Concilio”, un’istanza che conferma come l’“alleanza renana” prima e tutti i Padri conciliari poi, si predisposero non a ribadire l’insegnamento tradizionale della Chiesa, ma a crearne uno nuovo, secondo uno dei più comuni dettami del sentire e dell’agire moderni: la creatività umana; attraverso la quale realizzare il rinnovamento della Chiesa, passando per il rinnovamento della liturgia, dell’ecclesiologia, della parola di Dio, della Rivelazione e dell’ecumenismo, in una parola di “tutto”.

Vediamoli uno la volta, come li presenta il Papa uscente.

La liturgia

C’erano, egli dice, «quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare».

Chi avesse dei dubbi sulla valenza “accademica” dell’ex Benedetto XVI, rilegga attentamente questa frase e colga quell’incredibile sofisma che permette di affermare contemporaneamente due cose contraddittorie. C’erano “due” liturgie, si presume una buona “che celebrava secondo il Messale” e una che non era una liturgia, ma una semplice preghiera, recitata “nella Messa”, dunque impropria, dunque scorretta, dunque cattiva. Però, sia la liturgia buona, sia la cattiva sapevano “sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare”… cioè erano una sola liturgia, quantomeno nel sentire dei chierici e dei fedeli, nel sentire cum Ecclesia.

Guardatevi dai dotti e dai sapienti, dice il Vangelo (cfr. Mt. 11, 25) e San Paolo ricorda: «Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: “Egli prende i sapienti per mezzo della loro astuzia”; e ancora: “Il Signore sa che i disegni dei sapienti sono vani”» (I Cor. 3, 18-20).

Questo ritornello, su cui si è basata la riforma liturgica del Vaticano II, vorrebbe sostenere che per venti secoli i fedeli cattolici non avrebbero partecipato alla liturgia della Chiesa, mentre «Dopo la Prima Guerra Mondiale… era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse “Et cum spiritu tuo” eccetera».
Quindi, se solo “dopo la Prima Guerra Mondiale”, grazie al “movimento liturgico”, era stata “riscoperta… la bellezza, la profondità, la ricchezza… spirituale del Messale”… è ovvio dedurre che fino al 1918 tutto questo era rimasto “coperto” e i cattolici, per 19 secoli, avevano conosciuto solo una liturgia sciatta, brutta, superficiale, povera, così che c’è da chiedersi come essa abbia potuto suscitare schiere di santi ed eserciti di ferventi devoti, tutti assidui frequentatori di tale incredibile liturgia.

E il Papa uscente non scherza, parla seriamente, perché ricorda che il Vaticano II ha fatto sì che si instaurasse «realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia».

Che dire? Che oltre alle diverse inesattezze presenti in questa frase, per puntualizzare le quali occorrerebbe un apposito articolo, bisognerebbe chiedere al Papa uscente se è mai stato in una qualunque parrocchia che pratica la liturgia “riscoperta, rinnovata” e se ha mai saputo dello svuotamento delle chiese, della loro chiusura, del conseguente accorpamento delle parrocchie, nonché della quasi esaurita richiesta di aspiranti alla vita sacerdotale e religiosa, e se tutto questo, per caso, abbia a che fare, anche solo un po’, con la nuova liturgia “riscoperta, rinnovata” e con i preti che la celebrano e i vescovi che la sostengono e i papi che la esaltano.
Soprattutto se si tiene conto del fatto che qui egli dice «che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. “Operi Dei nihil praeponatur”: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio».

Strano che qui si voglia far credere che il Concilio abbia voluto trattare in primis della liturgia, dell’opera di Dio, per farne la “suprema regola”, perché basta leggere una qualsiasi storia del Concilio per sapere che la Costituzione sulla liturgia, Sacrosanctum Concilium, venne adottata alla fine della seconda sessione, il 4 dicembre 1963, dopo che se ne era discusso dall’ottobre al dicembre 1962 e dopo che erano stati rimandati quattro schemi dottrinali sui quali si era bisticciato: sulle fonti della Rivelazione, sulla salvaguardia del deposito della Fede, sulla morale cristiana e su castità, matrimonio, famiglia e verginità.
In effetti, lo schema sulla liturgia venne adottato per primo, non per affermare il primato dell’adorazione, dell’opus Dei, ma per comodità: per la sua più immediata rispondenza con gli orientamenti e le strategie progressiste dell’“alleanza renana”.
Evidentemente, qui il Papa uscente non intende ricordare i fatti, ma solo presentare in maniera edulcorata la sua verità sul Concilio: quella di un consesso che avrebbe avuto come “suprema regola”, non l’opus hominis, come si è capito da tempo, ma l’opus Dei.

E il Papa uscente precisa che con questa Costituzione sulla liturgia, “primo atto sostanziale”, si è parlato su Dio e si è aperta «tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e del Sangue di Cristo».
Concetto che rivela la vera indole di Ratzinger-Benedetto XVI che, pur avanzando delle riserve di metodo sulla pratica della liturgia moderna, conferma, nel merito, la vulgata della “liturgia comunitaria”, celebrata insieme dai chierici e dai laici, dove non ci sono più “due liturgie”, ma una sola, che non è quella della Chiesa, ma quella dell’assemblea.

È proprio per convincimenti come questi che Benedetto XVI non è riuscito a realizzare certi aggiustamenti nella liturgia riformata, quella da lui chiamata “ordinaria”, non perché è stato contrastato dai vescovi, come si usa dire impropriamente, ma perché è lui stesso ad essere convinto che la liturgia è un’azione “comune” che non può accettare “imperativi dall’alto”. Chi non l’avesse ancora capito e si fosse soffermato a giuocare con le dotte elaborazioni di Joseph Ratzinger, con questo discorso, rivolto al colto e all’incolto, soprattutto a quest’ultimo, adesso è servito.

E per spiegare quale fosse “la profondità” e quali “le linee essenziali” della concezione liturgica del Concilio, il Papa uscente le enumera.
«soprattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione».
Cosa che rivela che, secondo la “profondità” del Concilio, la liturgia non deve più mettere al centro la riattualizzazione del Sacrificio della Croce, dell’azione espiatoria di Cristo per la soddisfazione dovuta a Dio Padre offeso dal peccato dell’uomo, no!, la liturgia moderna deve mettere “essenzialmente” al centro la Risurrezione, e siccome la Risurrezione non è esattamente il Sacrificio, ma lo presuppone solamente, anche la liturgia moderna il Sacrificio lo presuppone solamente, ma non lo rinnova sull’altare.

Tanto è vero che il Papa uscente specifica che la Domenica è: «incontro con il Risorto, che rinnova la Creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio».
Tale che il Sacrificio, non solo non c’entra niente, ma non serve a niente, poiché il vero scopo del Risorto sarebbe, non tanto “togliere i peccati del mondo”, quanto “creare un mondo che è risposta all’amore di Dio”; demolendo così tutto l’insegnamento liturgico della Chiesa di sempre e dando  fondamento e giustificazione sia alle istanze da nuovo ordine mondiale avanzate ultimamente dal Vaticano, sia alle iniziative ecumeniche sostenute dal cardinale Ratzinger con Giovanni Paolo II, e da Benedetto XVI rinnovate ed ampliate.

Ma c’è dell’altro, dice il Papa uscente: “l’intelligibilità” e la “partecipazione attiva”.
L’intelligibilità che in maniera incomprensibile si baserebbe sul fatto che «i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili», così che per essere realizzata, questa intelligibilità, è necessaria la «formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere».
Si legga attentamente: va perseguita l’intelligibilità di testi di per sé non intelligibili, realizzando ancora una volta la conciliazione dei contrari, e questo lo si fa con la “formazione permanente”, cioè con l’omiletica e la catechesi, il cui scopo ultimo, improvvisamente, non è più l’intelligibilità, come si poteva erroneamente supporre, ma l’ingresso nella “profondità del mistero”, realizzata dal “cristiano” che così giungerà a comprendere.

Più che una spiegazione, a noi sembra un bel pasticcio. Intanto perché omiletica e catechesi non le ha inventate il Vaticano II, così che non si vede la necessità della liturgia rinnovata, e poi perché a tutto potrà aspirare il cristiano, tranne che a penetrare il mistero e giungere a comprendere.
Cosa c’è da comprendere nel mistero, se non che si tratti di un mistero, appunto?

La verità è, e il Papa uscente dovrebbe saperlo meglio di tanti altri, che la liturgia riformata ha realizzato l’intellettualizzazione della fede, trasformandola, per un verso in una sorta di esercizio personale e per l’altro in una continua ricerca mentale atta a giustificarlo: non più preghiera della Chiesa a cui partecipano i fedeli sulla base della loro specifica funzione, ma preghiera dei fedeli che ognuno attua alla sua maniera con la moderna partecipazione.
Partecipazione che, è detto, «è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo». Cioè, partecipazione comunitaria, comunione, unico mezzo per entrare in comunione con Cristo. Non più la grazia che informa il singolo fedele in forza della sua apertura del cuore e lo trasforma da peccatore a redento, ogni giorno, ogni momento della sua vita, fino all’ultimo momento di essa, pena la morte eterna, no!, ma la comunità che è l’unica che permette al singolo di pervenire alla comunione con Cristo, condizione speculare della comunione con gli uomini.

La Chiesa

E dopo della liturgia, il Vaticano II si è occupato della Chiesa.
Cosa che il Papa uscente presenta come il completamento del Vaticano I, con la definizione di una nuova ecclesiologia che fosse il completamento di quella del Vaticano I.
E il Vaticano II se n’è occupato tenuto conto che «Veniva ritrovato, soprattutto, il concetto, che era previsto anche dal Vaticano I, del Corpo Mistico di Cristo. Si voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale - anche questo -, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto l’Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un completamento dell’ecclesiologia del Vaticano I».
Così che il Vaticano II arriva a concretizzare quella «scoperta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo contesto è cresciuta la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero “noi” dei credenti, insieme con l’”Io” di Cristo, è la Chiesa; ognuno di noi, non “un noi”, un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo “noi siamo Chiesa” esige proprio il mio inserimento nel grande “noi” dei credenti di tutti i tempi e luoghi

E si rimane stupefatti di fronte alla maestria con la quale il Papa uscente, in forza della sua profonda cultura teologica che non si smette di elogiare in ogni occasione, accosti impropriamente la concezione cattolica del Corpo Mistico di Cristo con quell’altra anticattolica concezione sintetizzata nell’espressione “noi siamo Chiesa”. La prima discendente dalla visione eminentemente soprannaturale della Sposa di Cristo, la seconda risalente dai bassifondi della naturalità. La prima articolata organicamente a imitazione dell’ordine soprannaturale, la seconda disarticolata caoticamente a imitazione del disordine naturale che modernamente si racchiude nell’idea di democrazia.

Ora, per chi non avesse avuto modo di leggere l’enciclica di Pio XII, Mystici Corporis Christi, e perché si possa fare il necessario confronto e il dovuto distinguo, riportiamo almeno un passo di questa enciclica:
«Inoltre, come nella natura delle cose il corpo non è costituito da una qualsiasi congerie  di membra,  ma deve essere  fornito di organi,  ossia di membra  che non  abbiano  tutte il  medesimo compito,  ma  siano debitamente coordinate; così  la Chiesa,  per questo specialmente  deve chiamarsi corpo, perché risulta  da una  retta disposizione e  coerente unione di  membra fra loro  diverse. Né  altrimenti l'Apostolo  descrive la  Chiesa, quando  dice: “Come in  un sol corpo abbiamo molte membra, e non  tutte le membra hanno la stessa azione,  così siamo  molti un sol  corpo in Cristo, e  membra gli uni degli  altri” (Rom. XII,  4). Non bisogna  però credere che  questa organica struttura della  Chiesa sia costituita dai soli gradi della Gerarchia e, ad essi limitata,  consti unicamente di persone  carismatiche (benché cristiani forniti di  doni prodigiosi  non mancheranno mai alla  Chiesa). Bisogna, sì, ritenere in  ogni modo che quanti usufruiscono  della Sacra Potestà, sono in un tal  Corpo membri primari e  principali, poiché per loro  mezzo, in virtù del mandato  stesso del  Redentore i doni  di dottore, di  re, di sacerdote, diventano  perenni. Ma  giustamente i  Padri della  Chiesa, quando  lodano i ministeri, i  gradi, le  professioni, gli stati,  gli ordini, gli  uffici di questo Corpo, hanno presenti sia coloro che furono iniziati ai sacri Ordini, sia  coloro che,  abbracciati i  consigli evangelici,  conducono o  una vita operosa tra gli uomini o una vita nascosta nel silenzio o una vita che l'una e l'altra  congiunge secondo il proprio istituto;  sia coloro che nel secolo si dedicano  con volontà  fattiva alle opere  di misericordia per  venire in aiuto  alle anime e  ai corpi; e  infine coloro  che son congiunti  in casto matrimonio. Anzi, specialmente nelle  attuali condizioni, i padri e le madri di  famiglia, i  padrini e le  madrine di  Battesimo, e in  particolare quei laici che  collaborano con la Gerarchia  ecclesiastica nel dilatare il regno del divin Redentore, tengono nella società  cristiana un posto d'onore, per quanto  spesso nascosto, e  anch'essi, ispirati  ed aiutati da  Dio, possono ascendere al  vertice della più alta santità,  la quale, secondo le promesse di  Gesù Cristo,  non mancherà  mai nella  Chiesa.»

Da cui si evince che ogni membro del Corpo Mistico è tale sulla base della sua qualificazione e quindi della sua funzione, foss’anche la più infima, e non sulla base del suo essere quantitativamente uno, “anima credente” che “individualmente” sarebbe “elemento costruttivo della Chiesa come tale”, né tampoco sulla base di quell’“ognuno di noi” che si inserisce in un “noi” collettivo che in maniera indifferenziata costituirebbe la Chiesa: “noi siamo Chiesa”.
Qui la concezione organica del Corpo Mistico, costituito, come ricorda San Paolo (Rm. 12, 4-8), allo stesso modo del corpo fisico, perché entrambi discendono dall’ordine divino, lascia il posto alla concezione di agglomerato di membra, dei quali nessuno è organo, così da realizzare un ammasso, piuttosto che un organismo.

Ora, si potrebbe obiettare che in questa esposizione, il papa uscente, proprio citando la Mystici Corporis, per ciò stesso la presupporrebbe, così che non ci sarebbe contraddizione. Ma l’obiezione è presto superata da due fattori: egli non cita propriamente l’enciclica, la ricorda solamente, mentre spiega a suo modo il senso del Corpo Mistico e quindi della Chiesa; poi, per meglio fare intendere il suo concetto, lo sintetizza con un’espressione, “noi siamo Chiesa”, che per un verso fa il paio con quanto abbiamo detto circa la tensione democratica dei Padri conciliari, e per l’altro verso si ricollega, volutamente, esplicitamente, magisterialmente, con l’organizzazione nata nell’ambito germanofono e ormai diffusa in tutto il mondo, che auspica una Chiesa senza gerarchia e senza dogmi, una Chiesa moderna a immagine e somiglianza degli organismi non governativi dell’ONU, una Chiesa con la totale libertà della coscienza individuale, con la parità totale tra chierici e laici, con i vescovi eletti dal popolo, con l’abolizione del celibato, con le donne preti, con l’adozione della pan-sessualità, e diverse altre amenità del genere.
E dal contesto del periodo in cui è inserita, l’uso di questa espressione (che in tedesco suona: “Wir sind Kirche”, ormai internazionalizzata nell’inglese: “We are Church”), mira chiaramente ad accostare ciò che qui dice il Papa uscente con ciò che là dicono i preti e i laici di “Noi siamo Chiesa”. Benedetto XVI è troppo preparato per essersi lasciato sfuggire, per caso, un richiamo del genere; e se per accidenti si trattasse davvero di un “lapsus”, questo semmai rivelerebbe la componente profonda del suo pensiero, non confessata apertamente, ma segretamente coltivata.

A riprova di quanto appena detto, ecco che il Papa uscente continua a chiarire ricordando che: «per fare questo, è stata trovata la parola “collegialità”, molto discussa, con discussioni accanite, direi, anche un po’ esagerate». Da cui si comprende facilmente come Ratzinger-Benedetto XVI nutra un profondo senso della Chiesa come struttura democratica, ancorché condita con dotte considerazioni teologiche ed ecclesiologiche.
Senso ancor meglio esplicitato dalla seguente considerazione: «negli anni ’50, era già nata un po’ di critica nel concetto di Corpo di Cristo: “mistico” sarebbe troppo spirituale, troppo esclusivo; era stato messo in gioco allora il concetto di “Popolo di Dio”. E il Concilio, giustamente, ha accettato questo elemento…».

Ora, un teologo che fa finta di non sapere che l’espressione “Corpo Mistico” discende direttamente dalla reale natura della Chiesa, che è una creazione divina e non è un’elaborazione umana; che dimentica che la Chiesa ha un’essenziale natura spirituale, ancorché manifesta con elementi materiali e umani che traggono la loro legittimità e il loro vero senso dalla prima; un teologo così, o è impreparato o è interessato. E dovendosi escludere la mancanza di preparazione tecnica, se non altro quantitativa, si è costretti a concludere che questo teologo è interessato a presentare le cose in un certo modo per poter concludere: «Ed il Concilio ha deciso di creare una costruzione trinitaria dell’ecclesiologia: Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo
Dove appare evidente il senso capovolto della natura della Chiesa: Popolo di Dio (Padre) come elemento fondante, Corpo di Cristo come elemento scaturente dal primo, Tempio dello Spirito Santo come corollario dei primi due. L’idea, cioè, che la Chiesa, in quanto fondata su Dio sarebbe fondata sul popolo, da cui scaturirebbe il suo corpo, non più mistico ovviamente, ma naturale, dove viene ad abitare lo Spirito Santo perché lo riconosce vero così com’è.
Con un sol colpo si azzera la fonte stessa della Chiesa: l’Acqua vitale e il Sangue rigeneratore che sgorgano dal costato di Gesù Cristo Crocifisso. Chiesa che, così generata, riceve dallo Spirito Santo l’assistenza e i mezzi per permettere agli uomini di unirsi a Cristo e così condursi a Dio Padre.
Se vogliamo dirlo con parole diverse, la concezione antropologica di Ratzinger-Benedetto XVI presuppone che la Chiesa ci sia perché ci sono gli uomini che la compongono, così che essa risulterebbe dall’elemento umano, mondano, terreno. La concezione tradizionale, invece, si attiene alla realtà della Chiesa come opera di Dio, offerta come mezzo per la salvezza degli uomini, un’opera che continuerebbe a sussistere indipendentemente dalla loro adesione: perché se anche la Chiesa venisse abbandonata da tutti gli uomini, non per questo finirebbe di esistere: essendo la sua causa prima il Cielo e non la terra.

La Rivelazione

E dopo la liturgia e la Chiesa, il Vaticano II ha affrontato la Rivelazione, soprattutto perché bisognava risolvere il problema della “relazione tra Scrittura e Tradizione”.
Ora, è inutile citare qui i documenti del Vaticano I e di Trento, che avevano definito tale relazione, perché la preoccupazione del Vaticano II era basata proprio sul disconoscimento e il superamento delle definizioni dei Concilii precedenti, infatti, dice il Papa uscente: «gli esegeti (che chiedevano “una maggiore libertà”) … si sentivano un po’ – diciamo – in una situazione di inferiorità nei confronti dei protestanti, che facevano le grandi scoperte, mentre i cattolici si sentivano un po’ “handicappati” dalla necessità di sottomettersi al Magistero».
Da dove si evince che il Vaticano II è stato anche voluto e mosso per invidia nei confronti dei protestanti, “che facevano le grandi scoperte”, che scoprivano cioè che Gesù Cristo non è risorto, che la Madonna non era Vergine, che la transustanziazione non esiste, e via così… una scoperta dopo l’altra.
Giustamente, dice Ratzinger-Benedetto XVI, bisognava superare questa condizione da “handicappati”, bisognava raggiungere e possibilmente superare i protestanti… come fossimo in un mercato dove ognuno cerca di vendere il proprio prodotto battendo la concorrenza sul prezzo… diciamo noi; bisognava liberarsi dall’handicap della sottomissione al Magistero, vera chiave di volta di una costruzione che fosse in grado di condurre i cattolici anche oltre i protestanti e il loro libero esame.

Quali i punti di partenza?
«la Scrittura è la Parola di Dio e la Chiesa sta sotto la Scrittura, obbedisce alla Parola di Dio, e non sta al di sopra della Scrittura».
E la Tradizione?
Un momento… prego… arriviamo anche alla Tradizione, ma per intanto il Papa uscente precisa che «tuttavia, la Scrittura è Scrittura soltanto perché c’è la Chiesa viva, il suo soggetto vivo; senza il soggetto vivo della Chiesa, la Scrittura è solo un libro e apre, si apre a diverse interpretazioni e non dà un’ultima chiarezza». E questa precisazione perché tra i Padri conciliari «Era nata l’idea che la Scrittura è completa, vi si trova tutto; quindi non si ha bisogno della Tradizione, e perciò il Magistero non ha niente da dire.»

E come poteva essere diversamente visto  che questi Padri conciliari invidiavano i protestanti e si sentivano handicappati?

Ma ecco che provvidenzialmente giunge l’intervento di Paolo VI che, con una frase aggiusta tutto: “non omnis certitudo de veritatibus fidei potest sumi ex Sacra Scriptura”.
E il Papa uscente spiega: «la certezza della Chiesa sulla fede non nasce soltanto da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa illuminato, portato dallo Spirito Santo. Solo così poi la Scrittura parla ed ha tutta la sua autorevolezza».

Spiegazione che introduce un concetto ancora più protestante della “sola scrittura”, concetto che illustra in cosa veramente consista la Tradizione: «l’indispensabilità, la necessità della Chiesa, e così capire che cosa vuol dire Tradizione, il Corpo vivo nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nel quale è nata

Cosa intende qui Ratzinger-Benedetto XVI?

Intende esattamente quello che ha sempre affermato, da trent’anni, e cioè che la Tradizione, come tale e come è sempre stata intesa dalla Chiesa per duemila anni, non esiste. Non esiste la Tradizione, l’insegnamento che Nostro Signore ha trasmesso oralmente agli Apostoli, come fonte della Rivelazione. Perché la Tradizione non è questo, non è l’insegnamento orale di Nostro Signore, non è l’altra fonte della Rivelazione insieme alla Scrittura: la Tradizione è «il Corpo vivo nel quale vive dagli inizi questa parola», quel corpo vivo che, “illuminato dallo Spirito Santo”, permette alla Scrittura di parlare e di avere “tutta la sua autorevolezza”. Perché, dice ancora Ratzinger-Benedetto XVI, «solo se vive il soggetto vivo al quale ha parlato e parla Dio, possiamo interpretare bene la Sacra Scrittura.»

Con il che, non solo si ribadisce che la Rivelazione sarebbe fondata sulla “sola Scrittura”, come dicono i protestanti, ma per interpretare bene questa Scrittura occorre l’elaborazione che di essa fa il “corpo vivo” della Chiesa, occorre cioè la luce dell’esperienza religiosa, tale che la giusta comprensione della Scrittura è quella che scaturisce dalla interpretazione soggettiva del corpo vivo, interpretazione che si fonda sull’insieme delle esperienze individuali e di gruppo che è portato a sperimentare il famoso “popolo di Dio”.

E si badi bene, qui non si tratta neanche più del Magistero, come qualcuno potrebbe erroneamente dedurre e come qualcun altro cercherà di spiegare per riparare a questa palese eterodossia del Papa uscente, no! - perché il Magistero, in questa ottica, non è più niente, se non il mero ratificatore dell’esperienza che della Scrittura fa il “popolo di Dio”, in coerenza con quanto sostenuto prima: la necessità di superare l’handicap dell’incombenza del Magistero.
Si fissano così due cose: una, che per Tradizione si deve intendere il prodotto dell’esperienza soggettiva del “corpo vivo”, due, che in tal modo questa moderna “tradizione” non può essere che “vivente”, cioè continuamente cangiante per quanto sarà cangiante tale esperienza soggettiva.

Per essere onesti, queste eterodossie non sono affatto nuove, Ratzinger-Benedetto XVI le ha presentate, spiegate e approfondite nei suoi “testi”, così che non desta alcuna meraviglia il leggerle ancora qui. Piuttosto, tutti coloro che si sono sbracciati ad accusare di eccessi i lavori di diversi studiosi, come per esempio Mons. Brunero Gherardini e S. Ecc. Mons. Bernard Tissier de Mallerais [qui e qui], oggi sono serviti, oggi che il Papa uscente le ripropone come suo “testamento spirituale” e conferma che quegli autori avevano semplicemente ragione.

Ma andiamo oltre.

L’ecumenismo

«era ovvio – soprattutto dopo le “passioni” dei cristiani nel tempo del nazismo – che i cristiani potessero trovare l’unità, almeno cercare l’unità»
A proposito di esegesi… come evitare di leggere questa frase come una sorta di elogio implicito del nazismo?
In effetti, il nazismo non c’entra niente con quello che si dice in seguito, ma se viene menzionato come elemento determinante, qui e poi dopo, è inevitabile concludere che è proprio in forza delle “passioni” vissute “nel tempo del nazismo” che i cristiani possono trovare l’unità o almeno provarci… meno male che nazismo fu!

Questo per quanto riguarda l’ecumenismo intercristiano, per il quale, dice il Papa uscente, “siamo ancora in questo cammino”.

Ma c’era anche l’ecumenismo interreligioso. Per l’uno e per l’altro, chi era arrivato in Concilio con tutto già pronto?
«Ora, con questi temi, l’”alleanza renana” – per così dire – aveva fatto il suo lavoro», dice il Papa uscente, cosa che implica, ovviamente, che, non solo fosse già pronto anche il “perito conciliare” don Joseph Ratzinger, ma che, prima ancora che a Roma, in Vaticano, il Concilio si era già svolto lungo le rive del Reno: in Vaticano ci si limitò a svolgere i compiti che avevano già preparato i vescovi renani, come peraltro eloquentemente ricordato da uno dei primi commentatori del Concilio, il padre Ralph Wiltgen, nel suo diario del Concilio: Il Reno si getta nel Tevere.

E uno degli imperativi del Concilio fu l’accordo con gli Ebrei.

«Dall’inizio erano presenti i nostri amici ebrei, che hanno detto, soprattutto a noi tedeschi, ma non solo a noi, che dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo nazista, del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola sull’Antico Testamento, sul popolo ebraico. Hanno detto: anche se è chiaro che la Chiesa non è responsabile della Shoah, erano cristiani, in gran parte, coloro che hanno commesso quei crimini; dobbiamo approfondire e rinnovare la coscienza cristiana, anche se sappiamo bene che i veri credenti sempre hanno resistito contro queste cose. E così era chiaro che la relazione con il mondo dell’antico Popolo di Dio dovesse essere oggetto di riflessione».
Una descrizione francamente impressionante: 2540 Padri conciliari, venuti da ogni parte del mondo per discutere della ricaduta morale sui cattolici dei crimini commessi dai nazisti contro questo e quello, Ebrei compresi. 2540 vescovi e cardinali che, sensibili alle sollecitazioni degli Ebrei, ne aspettano i consigli per fare le cose per bene e non dispiacere al popolo ebraico. 2540 prelati cattolici che, in Vaticano, ricevono un mandato preciso: «dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo nazista, del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola sull’Antico Testamento, sul popolo ebraico. … e rinnovare la coscienza cristiana

E meno male che  il Papa d’allora, Pio XII, se l’era scampata per un pelo, forse per una distrazione, perché, sentito questo, c’era il rischio che fosse processato anche lui a Norimberga.
Comunque sia, «era chiaro che la relazione con il mondo dell’antico Popolo di Dio dovesse essere oggetto di riflessione», dice il Papa uscente, e sicuramente questo era molto più chiaro all’“alleanza renana” e soprattutto ai tedeschi, ancora sotto il peso del loro non sempre giustificato complesso di colpa per le malefatte dei nazisti.

Nacque così Nostra Aetate, che però non parlò solo degli Ebrei, perché, come dissero i vescovi dei paesi arabi, a detta di Ratzinger-Benedetto XVI: «un’indicazione veramente teologica sul popolo ebraico è buona, è necessaria, ma se parlate di questo, parlate anche dell’Islam; solo così siamo in equilibrio; anche l’Islam è una grande sfida e la Chiesa deve chiarire anche la sua relazione con l’Islam».
E inevitabilmente, dovendo occuparsi di ebrei e musulmani, sarebbe sembrato davvero ineducato che i 2540 vescovi e cardinali cattolici non si occupassero anche di buddisti, di induisti e… di tutti gli altri. Perché è vero che c’è un solo Dio, «Ma c’è l’esperienza religiosa, con una certa luce umana della creazione, e quindi è necessario e possibile entrare in dialogo, e così aprirsi l’uno all’altro e aprire tutti alla pace di Dio, di tutti i suoi figli, di tutta la sua famiglia».
Illuminazione incredibile, questa della “certa luce umana della creazione” che rende “necessario e possibile” il dialogo tra il vero Dio e i falsi dei e i demoni, perché tutti i figli di Dio, tutta la famiglia umana viva in pace. Illuminazione che permette legittimamente di anteporre il benessere della “famiglia umana” ai diritti di Dio, la moderna aspirazione pacifista dell’uomo al primo comandamento di Dio.

E in questa ottica, inevitabilmente, non si poteva non approfittare del Concilio per affrontare «i temi della responsabilità per la costruzione di questo mondo, della società, responsabilità per il futuro di questo mondo e speranza escatologica, responsabilità etica del cristiano, dove trova le sue guide; e poi libertà religiosa, progresso, e relazione con le altre religioni».
Temi talmente vincolanti e talmente legati al bene della Chiesa e delle anime che i vescovi dicono al Papa: «Noi non possiamo tornare a casa senza avere, nel nostro bagaglio, una dichiarazione sulla libertà religiosa votata dal Concilio». Mentre tutti prendono coscienza che bisognava analizzare «molto bene il problema tra escatologia cristiana e progresso mondano, tra responsabilità per la società di domani e responsabilità del cristiano davanti all’eternità».

Fu così che nacquero Dignitatis Humanae e Gaudium et spes, con le quali il Vaticano II «ha anche rinnovato l’etica cristiana, le fondamenta». Documenti che, insieme a Nostra Aetate, costituiscono «una trilogia molto importante, la cui importanza si è mostrata solo nel corso dei decenni, e ancora stiamo lavorando per capire meglio questo insieme tra unicità della Rivelazione di Dio, unicità dell’unico Dio incarnato in Cristo, e la molteplicità delle religioni, con le quali cerchiamo la pace e anche il cuore aperto per la luce dello Spirito Santo, che illumina e guida a Cristo».

Questo passaggio del discorso del Papa uscente fa comprendere come l’entusiasmo del giovane “perito conciliare” Joseph Ratzinger continui a scaldare il cuore dell’anziano “papa emerito”, in un afflato travolgente d’amore per il mondo e per il benessere mondano dell’uomo. Sentimento indubbiamente lodevole, se non fosse che la confusione che qui si fa tra progresso umano e destino escatologico dell’uomo, tra il “futuro di questo mondo” e la vitam venturi saeculi, tra le cose della terra e quelle del Cielo, tra la molteplicità dei falsi dei e il vero e unico Dio, tra religione dell’uomo e religione di Dio, fa capire come il Concilio abbia finito col battere strade diverse da quella cattolica, fino a delineare una nuova religione e una nuova Chiesa.
E in questo passaggio si cercherebbero invano gli elementi capaci di condurre a quella continuità, tante volte dichiarata, tra i documenti del Concilio e gli insegnamenti della Chiesa di sempre, si colgono facilmente, invece, parecchi elementi di continuità con i principi dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese, incredibilmente fatti proprii dai Padri conciliari in nome di un deviante e deviato amore per “questo mondo”, il cui principe è il diavolo, il princeps huius mundi di cui il Signore Gesù dice: «ora è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori» (Gv. 12, 31), sentenza che i Padri conciliari e Ratzinger-Benedetto XVI ritenevano e ritengono vada “aggiornata” sulla base di “certa luce umana della creazione”.

Insomma, una vera e propria rivoluzione, un totale sconvolgimento della Chiesa, che richiedeva inevitabilmente che si rinnovasse, cioè si rivoluzionasse, “l’etica cristiana, le fondamenta”… sì “le fondamenta”, dice il Papa uscente, offrendo così, in un piatto d’argento, la vera chiave di lettura della sua ormai stranota formula della “riforma nella continuità”: continuità non con la Tradizione apostolica, ma con la “tradizione vivente” del Vaticano II, con la rivoluzione con la quale il Concilio ha sovvertito l’insegnamento di Nostro Signore, che Egli stesso ha voluto che, per gli Apostoli e i loro successori, giungesse integro fino a noi e fino alla Parusia.

E dopo aver illustrato il contenuto e il senso del Concilio, il Papa uscente si preoccupa di chiarire perché il Concilio, nonostante la sua supposta eccellenza, sia riuscito a produrre solo frutti malvagi.
«c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri.»

Questa sorprendente affermazione rivela tutta la cattiva coscienza di Ratzinger- Benedetto XVI: invece di spiegare seriamente come mai il Concilio non sia stato quella nuova Pentecoste che avrebbe voluto essere, egli mette le mani avanti e si inventa un capro espiatorio tanto inverosimile quanto impossibile.
La scusa è talmente inconsistente, che ci limitiamo a fare solo una piccola considerazione: se il mondo ha percepito il Concilio solo tramite i media, tanto che quello che è arrivato al popolo, in termini di immediata efficienza, è stato il Concilio dei media e non quello dei Padri, si deve giocoforza pensare che i 2540 vescovi e cardinali “del Concilio”, una volta ritornati nelle loro diocesi, abbiano attinto dai media tutto il contenuto del Concilio e come i media lo presentavano, così loro lo hanno ripresentato al popolo. Non c’è altra spiegazione, tranne non riconoscere che questa affermazione del Papa uscente sia semplicemente assurda; cosa confermata dal fatto che i documenti del Magistero conciliare e post conciliare non sono stati emanati dai giornali, ma dai dicasteri vaticani e dai papi, come dettagliatamente spiegato da Brian M. McCall nel suo articolo: Ecco il Vero Concilio Vaticano II ! Signori, in piedi!

E non contento, questo papa emerito insiste e specifica: «E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, … si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa».

Ora, anche a voler ammettere questa supposta onnipresenza, fortemente incisiva, dei media, chiunque si chiede cosa facessero nel frattempo il Papa con i cardinali e con i vescovi, mentre il Concilio dei giornalisti stravolgeva il Concilio dei Padri con un’ermeneutica fuori dalla fede.
La verità è che, per un verso, l’interpretazione del Concilio fuori dalla fede è stata condotta dalla gerarchia, papa in testa, e per l’altro, papi e gerarchia non hanno avuto bisogno di operare alcuna forzatura, magari attingendo dai media, sia perché sapevano bene cosa dicesse il Concilio, sia perché è proprio lo stesso Concilio che ha voluto collocarsi fuori dalla fede cattolica di sempre.

Ed è incredibile che il Papa uscente se ne venga fuori con tale contorta e immaginifica presentazione, dove tra l’altro afferma: «C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici».
È incredibile, perché i “quelli” di cui qui si parla, non potevano essere i giornalisti, salvo i giornalisti in abito talare che scrivevano su Communio, per esempio, ma erano gli stessi vescovi, cardinali e papi che avevano fatto il Concilio.
E se Benedetto XVI “2013”, o chi per lui, trovasse sconveniente questa nostra precisazione, avrebbe solo da chiedere a Benedetto XVI “2005”, che affermava: «Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna».

Nel 2005, l’ermeneutica cattiva era interna alla Chiesa, e solo riscuoteva la simpatia dei mass-media, nel 2013 ecco che tutto si inverte, i cattivi ermeneuti sono i giornalisti che dall’esterno influenzano la Chiesa.
Dobbiamo capziosamente addebitare questi salti mortali all’“ingravescente aetate” o dobbiamo ricordarci che il cardinale Ratzinger non ha mai temuto le contraddizioni, perché è sempre stato convinto che dal supposto apparente contrasto tra tesi e anti-tesi viene sempre fuori una splendida sin-tesi?
Fuori dai sacri palazzi, dove si ha cura, ipocritamente, di non usare espressioni “pesanti”, questo modo di presentare i fatti si chiama “faccia tosta”.

E insiste, il Papa uscente: ai giornalisti «non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento».

Ai giornalisti?

Ma qui la “non cura” per la contraddizione si trasforma in aperta bugia, poiché questa storia della “liturgia della comunità” i cattolici non l’hanno appresa dai giornali, ma dalla viva voce dei vescovi, dagli studi approfonditi pubblicati sulle riviste liturgiche ufficiali della Chiesa, dalle omelie e dalle lettere pastorali; mentre per la concezione della desacralizzazione del sacro basterebbe chiedere, per esempio, a quel valente studioso biblista, da Benedetto XVI incaricato della guida della cultura cattolica e per questo insignito della porpora cardinalizia, e da certuni indicato come futuro papa. Dio ce ne scampi! Meno male che in conclave, chi entra papa quasi sempre esce cardinale!

«Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa.»

Dopo quanto abbiamo detto fin qui, questa chiusa del Papa uscente non merita alcuna ulteriore considerazione, ma ci viene spontanea una domanda semplice semplice:
mentre questo spaventoso disastro si abbatteva sulla liturgia, sulla dottrina, nella Chiesa, con conseguenze catastrofiche per la tenuta della fede e per la salvezza delle anime dei fedeli, dov’erano i vescovi, dov’erano i cardinali, dov’erano i papi, dov’era il cardinale Joseph Ratzinger, per 24 anni Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede? Dov’è stato Ratzinger-Benedetto XVI in questi ultimi otto anni?
Che fa il nesci, Santità, o è la contraddizion ch’il consente?

Chiudiamo con due riflessioni inevitabili.

Lo strano modo in cui, a mo’ di saluto, il Papa uscente chiude questo suo discorso: grazie!
Ma come grazie? Un papa che rivolge ai suoi presbiteri una sorta di lectio magistralis, chiude con: grazie?
E già, … considerato che ormai è il culto dell’uomo che si predilige al culto di Dio, non è più opportuno usare il “Sia lodato Gesù Cristo”, che alla fin fine non c’entra più niente; e non potendo certo usare un novello “sia lodato l’uomo”, perché sarebbe ridicolo, ecco che il Papa… il Papa… chiude con un umanissimo “grazie”, quasi a dare atto a coloro che lo hanno ascoltato, di averlo fatto educatamente e pazientemente, come se si fosse trattato di un rivenditore di saponette.

Se queste sono la forma mentale e la formazione teologica del Papa uscente, come meravigliarsi del fatto che egli abbia dato ascolto alla “sua coscienza”, piuttosto che al “più alto consiglio” e con la “rinuncia” abbia buttato alle ortiche la figura del Vicario di Cristo?

Come abbiamo detto all’inizio, questo discorso del Papa uscente e questo suo gesto di rinuncia, hanno qualcosa di provvidenziale, perché ci è stata data la possibilità di apprendere quale fu il vero spirito del Vaticano II e qual è la reale indole di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.





febbraio 2013

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