S. Ecc. Mons. Bernard Tissier de Mallerais
della Fraternità Sacerdotale San Pio X


IL MISTERO DELLA REDENZIONE

SECONDO BENEDETTO XVI


PARTE PRIMA


Questo studio è stato pubblicato sul n° 67 (inverno 2008- 2009) della rivista Le Sel de la Terre - Intelligence de la foi -  Rivista trimestrale di dottrina tomista a servizio della Tradizione
La rivista, curata da Padri Domenicani collegati alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, è una pubblicazione cattolica di scienze religiose e di cultura cristiana, posta  sotto il patronato di San Tommaso d’Aquino, in forza della sicurezza della dottrina e della chiarezza d’espressione del “Dottore Angelico”. Essa si colloca nel quadro della battaglia per la Tradizione iniziata da
Mons. Marcel Lefebvre e si presenta in maniera tale da potersi rivolgere ad ogni cattolico che voglia approfondire la propria fede.


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La traduzione e l'impaginazione sono nostre
Lo studio in formato pdf

(su)
Introduzione

Il mistero della Redenzione è al centro della vita cristiana, poiché il Figlio di Dio si è incarnato per salvarci: «propter nos e propter nostram salutem» (Credo di Nicea-Costantinopoli, IV secolo).
Ora, questo mistero è anche al centro della crisi attuale nella Chiesa. Mentre la Chiesa insegnava tradizionalmente che per beneficiare della Redenzione bisognava far parte della Chiesa cattolica («fuori dalla Chiesa non v’è salvezza»), la Chiesa conciliare, promuovendo l’ecumenismo, ha diffuso l’idea che ci possa salvare in tutte le religioni.
I nostri lettori hanno avuto modo di conoscere la teoria della Redenzione universale del Papa Giovanni Paolo II (vedi le recensioni delle opere del Prof. Dörmann, pubblicate nei numeri 5 (pp. 185-193), 16 (pp. 186-196), 33 (pp. 218-226) e 46 (pp. 191-200): e i quattro articoli su «La strana teologia di Giovanni Paolo II», pubblicati nei numeri 49 (pp. 86-96), 50 (pp. 107-113), 51 (pp. 116-124) e 52 (pp. 94-115).
Che ne pensa il Papa attuale del mistero della Redenzione? Condivide le idee della nuova teologia o promuove un ritorno alla Tradizione? Nel momento in cui sono in fase di pubblicazione le sue opere complete, è opportuno porsi questa domanda.
Le Sel de le terre

(su)
Il mistero della Redenzione

L’ermeneutica, tradizionalmente, è l’arte di interpretare i fatti o i documenti. L’ermeneutica, nella nuova teologia, è una rilettura della fede alla luce della filosofia moderna, esistenzialista e personalista.

Il mistero della redenzione è così riesaminato da Joseph Ratzinger nel suo libro La Foi chrétienne hier et aujoud'hui, pubblicato nel 1968 e ristampato da Benedetto XVI nel 2005 (1). Il Papa vi mantiene l’esattezza delle linee fondamentali di quest’opera.
È questa revisione del mistero della redenzione, operata da Joseph Ratzinger che esamineremo qui.
(su)

Coscienza pagana o coscienza cristiana?

Bisogna ammettere che la Passione di Cristo vista come un’opera di espiazione o di soddisfazione della giustizia divina per i peccati degli uomini, non è di moda. La giustizia divina sembra essere una metafora allo stesso titolo della collera divina (2): non le si deve preferire l’amore gratuito di Dio che, in Gesù Cristo, si dà fino alla fine (Gv. 13, 1)?

La dimostrazione del teologo di Tubinga consta di una tesi, un’antitesi e una sintesi.
- La tesi è che la croce di Cristo non è una espiazione offerta dall’uomo (l’Uomo-Dio) a Dio (Padre), ma l’espressione di un amore radicale che si dà interamente (si prova la tesi mostrando che l’espiazione è contraria al messaggio d’amore che si ritiene sia quello del Nuovo Testamento).
- Ma questa tesi non può porsi senza che le si opponga l’antitesi: lo stesso Nuovo Testamento sostiene infatti l’opera di espiazione di Gesù e la sua offerta in sacrificio a Dio.
- La sintesi consisterà nel reinterpretare l’antitesi, cioè nel purificare l’interpretazione del Nuovo Testamento alla luce della tesi: sulla croce, Cristo si è sostituito sì a noi, peccatori, ma lo scambio consiste semplicemente nel fatto che egli ama per noi. Così la tesi viene ripresa e si arricchisce inglobando l’antitesi.

Presentiamo prima la tesi:

Come abbiamo rilevato poc’anzi, in questo campo la coscienza cristiana è in genere ancora largamente improntata ad una grossolana e irrozzita idea della teologia d’espiazione risalente ad Anselmo di Canterbury, della quale abbiamo esposto le grandi linee in un contesto precedente. Per molti cristiani, e specialmente per quelli che conoscono la fede solo piuttosto da lontano, le cose stanno come se la croce andasse vista inserita in un meccanismo, costituito dal diritto offeso e riparato. Sarebbe la forma in cui la giustizia di Dio infinitamente lesa verrebbe nuovamente placata da un’infinita espiazione.  Sicché la vicenda della croce appare all’uomo come l’espressione di un atteggiamento, che poggia su un esatto conguaglio tra dare e avere; ma nello stesso tempo, si ha la sensazione che questo conguaglio si basi peraltro su un piedistallo fittizio. Di conseguenza, si dà segretamente con la mano sinistra, ciò che poi si toglie solennemente con la destra. Col risultato che la ‘infinita espiazione’ su cui Dio sembra reggersi, si presenta in una luce doppiamente sinistra. Da molti libri di devozione, s’infiltra così nella coscienza proprio l’idea che la fede cristiana nella croce immagini un Dio, la cui spietata giustizia abbia preteso un sacrificio umano, l’immolazione del suo stesso Figlio. Per cui si volgono con terrore le spalle ad una giustizia, la cui tenebrosa ira rende inattendibile il messaggio dell’amore.
Quanto diffusa è un’immagine del genere, altrettanto è sbagliata e falsa. Nella Bibbia, la croce non si presenta affatto come ingranaggio d’un meccanismo di diritto leso; la croce vi compare invece proprio come espressione indicante la radicalità dell’amore che si dona interamente, come un processo in cui uno è ciò che fa, e fa esattamente ciò che è: come palese simbolo di una vita vissuta integralmente per gli altri. Agli occhi di chi osserva attentamente, nella teologia della croce sviluppata dalla Scrittura, si esprime un’autentica rivoluzione rispetto alle idee di espiazione e di redenzione riscontrabili nelle religioni non cristiane della storia; non si può peraltro negare che, nella coscienza cristiana dei tempi successivi, tale rivoluzione si sia di nuovo largamente neutralizzata, e si sia ben di rado riconosciuta in tutta la sua portata. Nelle religioni mondiali, espiazione significa normalmente riparazione e ripristino dei rapporti perturbati esistenti con la divinità, ottenuti tramite azioni propiziatrici degli uomini. Quasi tutte le religioni ruotano attorno al problema dell’espiazione; nascono dalla consapevolezza che l’uomo ha della propria colpa di fronte a Dio, e denotano il tentativo di eliminare questo sentimento di colpa, cancellando il peccato mediante opere d’espiazione offerte a Dio. L’azione espiatrice con la quale gli uomini mirano a conciliarsi e a propiziarsi la divinità, sta al centro della storia delle religioni (3).

Per sostenere la sua tesi, occorre che il teologo di Tubinga preveda le obiezioni: l’espiazione e la conciliazione con Dio mediante l’offerta di sacrifici, non sono al centro della religione del Vecchio Testamento, che fu la vera religione? Ed esse non sono il cuore della più sana psicologia umana? Gesù, non è venuto per compiere questa necessaria espiazione e non per abolirla?
Per rispondere a queste obiezioni, Joseph Ratzinger userà un artificio: negare l’azione dell’uomo esaltando l’azione di Dio, invece di affermarle entrambe. Si noterà che la negazione poggia su un solo testo neo-testamentario (2 Cor. 5, 19):

Nel nuovo testamento invece, la situazione è quasi esattamente l’inversa. Non è l’uomo che si accosta a Dio tributandogli un dono compensatore, ma è Dio che si avvicina all’uomo per accordarglielo.
Per iniziativa stessa della sua potenza amorosa egli restaura il diritto leso, giustificando l’uomo colpevole mediante la sua misericordia creatrice e richiamando alla vita la creatura morta. La sua giustizia è grazia: è giustizia attiva, che raddrizza l’uomo distorto, riportandolo allo stato lineare, giustificandolo. Qui ci troviamo davvero di fronte alla svolta portata dal cristianesimo nella storia delle religioni: il Nuovo Testamento non dice che gli uomini si riconcilino con Dio, come del resto dovremmo attenderci, perché sono essi che hanno sbagliato, non Dio. Ci dice invece che «Dio in Cristo ha riconciliato con sé il mondo» (2 Cor. 5, 19). Ora, ciò è qualcosa di veramente inaudito, qualcosa di assolutamente nuovo: è la base di lancio dell’esistenza cristiana e il centro focale della teologia della croce, sviluppata dal Nuovo Testamento. Dio non aspetta che i colpevoli si facciano avanti, riconciliandosi con lui, ma va loro incontro per primo riabilitandoli. In questo grande evento si vede delinearsi il vero indirizzo orientativo dell’incarnazione, della croce.
Di conseguenza, nel Nuovo Testamento la croce si presenta primariamente come un movimento discendente, dall’alto in basso. Essa non ha affatto l’aspetto d’una prestazione propiziatrice che l’umanità offre allo sdegnato Iddio, bensì quello d’un’espressione di quel folle amore di Dio, che s’abbandona senza riserve all’umiliazione pur di redimere l’uomo; è un suo accostamento a noi, non viceversa. Con questa inversione di rotta nell’idea dell’espiazione, che viene a spostare addirittura l’asse dell’impostazione religiosa in genere, nel cristianesimo anche il culto e l’intera esistenza ricevono un nuovo indirizzo. Nella sfera cristiana, l’adorazione si estrinseca in primo luogo nel ricevere con animo grato l’azione salvifica di Dio. La forma essenziale del culto cristiano si chiama quindi a ragion veduta Eucarestia, cioè rendimento di grazie. In questa cerimonia cultuale, non si offrono a Dio tributi umani, ma si porta invece l’uomo a lasciarsi inondare di doni; noi non glorifichiamo Iddio offrendogli qualcosa di presumibilmente nostro – quasi che ciò non fosse già per principio suo! – bensì facendoci regalare qualcosa di Suo e riconoscendolo così come l’unico Signore (4).

In questa affermazione vi è una parte di verità e un autore non sospetto di modernismo, dom Delatte, trent’anni prima, ha osato esprimerla senza mezzi termini nel suo commento a 2 Cor. 5, 19: «È Dio che in Cristo si riconciliava col mondo»:

Fin dall’origine vi fu separazione e inimicizia fra Dio e l’uomo. L’alleanza primitiva venne spezzata dal peccato del mondo. L’umanità ne aveva coscienza: e mentre il paganesimo si sforzava con dei sacrifici di placare o distogliere la collera divina (5), i Giudei stessi tremavano davanti a Dio: Morte moriemur quoniam vidimus Dominum (Gdc. 13, 22). Non sembrava che la pace fosse possibile, dal momento che l’offensore, per la sua stessa mancanza, si era messo nell’incapacità di soddisfare e di riparare.
Secondo la parola dell’Apostolo, tutto doveva venire da Dio: il progetto, l’iniziativa, il compimento della riconciliazione. Tutto si è compiuto secondo un modo divino: l’offeso viene in aiuto all’offensore, per elevarlo. Poiché Dio era in Cristo per riconciliarsi il mondo, per riconquistarlo al prezzo delle sue sofferenze, per cancellare le mancanze degli uomini e ricondurli alle condizioni dell’amicizia primitiva (6).

In questo modo, dom Delatte si guarda bene dall’omettere la soddisfazione offerta al Padre dall’Uomo-Dio, che paga per gli uomini il prezzo del loro riscatto, cioè le sue sofferenze: qualcosa di umano che l’uomo Gesù Cristo ha offerto a Dio e che gli uomini offriranno nell’Eucarestia.
Di contro, la tesi di Joseph Ratzinger nega l’atto dell’uomo nella redenzione: nella religione di Gesù Cristo l’uomo non fa niente, è Dio che fa tutto. Ecco un semplicismo che è improntato a Lutero e che discende direttamente dalla filosofia di Occam, negatrice dell’azione delle cause seconde sotto l’azione della causa prima. In effetti, se Dio ci dà il suo Cristo, non è perché noi glielo si possa offrire? Questo Cristo è «del nostro», della nostra razza, della nostra carne, proprio perché diventi l’ostia del nostro sacrificio.
(su)

La dialettica hegeliana e il puro amore kantiano

Tuttavia, la negazione presentata con la tesi è così assoluta che genera da se stessa la sua antitesi: essa viene meno da sé e si annienta necessariamente con la sua stessa articolazione, in virtù dello stesso Nuovo Testamento che invoca in maniera unilaterale. Joseph Ratzinger è dunque costretto ad esporre l’antitesi:

Con i rilievi sin qui fatti, non abbiamo però detto ancora tutto. Quando si legga il Nuovo Testamento dal principio alla fine, non è possibile soffocare la domanda se esso non ci presenti l’azione espiativa di Gesù come l’offerta d’un sacrificio al Padre, additandoci la croce come l’olocausto che Cristo in tutta obbedienza esibisce al Padre. In una lunga serie di testi, l’azione di Cristo ci viene indicata nonostante tutto come un movimento ascendente intrapreso dall’umanità verso Dio; sicché sembra proprio tornare alla ribalta tutto quanto abbiamo testé spazzato via dalla scena. Enucleando la sola linea discendente, per altro, non è possibile cogliere integralmente il senso del Nuovo Testamento. E allora, come dobbiamo spiegarci il rapporto intercorrente tra le due linee? Dobbiamo forse escludere l’una a beneficio dell’altra? E qualora lo volessimo davvero fare, quale scala di valori ci autorizzerebbe ad intraprendere tale selezione? E quindi chiaro che in questa direzione non possiamo procedere: finiremmo inevitabilmente per elevare il puro e semplice arbitrio della nostra opinione a parametro per commisurare la fede (7).

In effetti, i testi del Nuovo Testamento a favore dell’antitesti sono schiaccianti. Vediamo innanzi tutto l’insegnamento del primo papa:

Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia. […] Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia. [1 Pt. 1, 18-19: 1 Pt. 2, 24].

E sulla giustizia operata da Cristo sulla sua croce, l’Apostolo dei gentili non la pensa diversamente:

È lui [Dio Padre] infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. (Col. 1, 13-14).

E se fosse necessario, si dovrebbe aggiungere la testimonianza dell’Apostolo dell’amore, il discepolo prediletto da Cristo: per una volta egli non parla solo d’amore, ma di riscatto e di propiziazione:

Il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato. […] se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo [1 Gv. 1, 7; 2, 1-2].

E non si può passare sotto silenzio l’epistola agli Ebrei, che descrive l’azione sacrificale del nostro sommo sacerdote Gesù Cristo, prefigurata dai molteplici sacrifici dell’Antico Testamento, dei quali essa è verità e perfetto compimento:

Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza; […] Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse: Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato. Come in un altro passo dice: Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchìsedek. Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchìsedek [Eb. 5, 1-10].
Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente? [Eb. 9, 13-14].

Se tale è l’antitesi, non distrugge così la tesi? No, risponde la dialettica hegeliana  (8), bisogna operare tra esse una mediazione, la sintesi, per mezzo della quale la tesi viene recuperata arricchita dall’antitesi. E il mezzo per effettuare questa mediazione è l’ermeneutica: un’interpretazione dell’antitesi alla luce della tesi. Ed è questo il lavoro che effettua Joseph Ratzinger, che prosegue così il suo procedimento dialettico:

Per riuscire ad andare avanti su questo terreno, dobbiamo ampliare la nostra domanda, cercando di appurare dove sia situato il punto d’avvio dell’interpretazione neotestamentaria della croce (p. 230).

In breve, gli Apostoli avrebbero interpretato la croce come un sacrificio espiatorio alla maniera di tutto l’apparato sacrificale e dei pensieri «della teologia culturale vetero-testamentaria» (p. 231).  L’epistola agli Ebrei illustra questo tentativo: il sangue dei capri e dei montoni è rimpiazzato dal sangue di Cristo, e come questo sangue di animali non interessa a Dio, a cui appartiene tutto, così non è la materialità del sangue di Cristo, né la sua effusione, che opera la salvezza delle anime: «il libero assenso dell’amore è l’unico elemento che Dio deve attendersi, l’adorazione e il sacrificio che soli siano suscettibili di avere un senso» (p. 231). Infatti, «entrando nel mondo, Cristo dice [a suo Padre]: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora hai detto: Ecco, io vengo… per fare o Dio la tua volontà» (Eb. 10, 5-7).

E Joseph Ratzinger prosegue nella sua sintesi:
Siccome però tutto il culto pre-cristiano poggia sull’idea della sostituzione, della rappresentanza (9), tentando di sostituire l’insostituibile [l’uomo stesso], (…) Essa [l’Epistola agli Ebrei] ha il coraggio di affermare senza riserve questo completo fallimento delle religioni, perché sa come in Cristo l’idea della sostituzione, della supplenza, abbia acquisito un senso integralmente nuovo. (…) Egli [Gesù] (…) attraversando l’atrio della morte è penetrato nell’autentico tempio, ossia alla presenza di Dio stesso, e per sacrificargli non delle cose, sangue di animali o altro, bensì addirittura se stesso (Eb. 9, 11 ss.). (…) donando e sacrificando se stesso. Egli strappò di mano agli uomini le offerte sacrificali, sostituendovi la sua personalità, il suo stesso ‘io’ donato in olocausto (pp. 231-232).

E il prezioso sangue di Gesù Cristo, con il quale egli fa, giustamente, il suo ingresso nel santuario celeste e che purifica «la nostra coscienza dalle opere morte» (Eb. 9, 14), non è esattamente il suo?

Joseph Ratzinger interpreta:
Se tuttavia nel nostro testo si afferma ancora che Gesù ha operato la redenzione col suo sangue (Eb. 9, 12), questo sangue non va inteso come un dono materiale, come un mezzo espiativo da misurarsi quantitativamente, bensì come la pura concretizzazione di quell’amore che ci viene additato come spinto fino all’estremo (Gv. 13, 1) [p. 232].

E lo sforzo di sintesi prosegue, la tesi si ricompone nella sua primitiva forma negativa, arricchendosi dell’antitesi reinterpretata:

Stando così le cose, l’essenza del culto cristiano non sta nell’offerta di cose, e nemmeno in una certa qual loro distruzione, come dal secolo XVI in poi si può leggere sempre più insistentemente nei trattati teorici concernenti il sacrificio della messa, ove si afferma che proprio in questo modo bisogna riconoscere la suprema autorità di Dio sull’universo. Tutti gli sforzi fatti dal pensiero in questo senso sono ormai stati decisamente superati dall’avvento di Cristo, e dall’interpretazione che ce ne dà la Bibbia. Il culto cristiano si concretizza nell’assoluta dedizione dell’amore, quale poteva estrinsecarsi unicamente in colui, nel quale l’amore stesso di Dio si era fatto amore umano; e si esplica nella nuova forma di funzione vicaria [sostituzione] inclusa in questo amore: nel fatto che egli si è incaricato di rappresentarci e noi ci lasciamo impersonare da lui. Esso comporta pure che noi ci decidiamo una buona volta ad accantonare i nostri conati di auto-giustificazione [p. 233].

Dunque, sulla Croce, Cristo non ha offerto realmente il suo corpo e il suo sangue, e neanche la sua vita temporale, Egli ha offerto solo il suo «io» e la sua «persona» o il suo amore. La dialettica hegeliana applicata alla croce, la purifica dalla sua materialità per conservarne solo la forma pura: l’amore, un amore di cui non si sa né come agisce né a chi è destinato. È l’amore kantiano: né materia, né efficienza, né finalità, ma pura forma. La croce dematerializzata e disorientata che lascia sussistere solo l’amore disincarnato. La religione dell’espiazione che si ritrova disintegrata nella religione del puro amore. Dell’offesa e del disordine del peccato, non una parola; delle pene del peccato, non una parola; della riparazione, del merito, della soddisfazione, dell’espiazione di Cristo, non una spiegazione; tutta la dottrina tradizionale contenuta nella Sacra Scrittura e nella Tradizione dei Padri, nella liturgia tradizionale e nel semplice Catechismo del Concilio di Trento, viene trafugata. La misericordia divina è spogliata dalla più dolce delle sue delicatezze: il riscatto dell’uomo peccatore ad opera dello stesso uomo peccatore, grazie a Cristo che l’uomo senza peccato.
(su)

Rigore della giustizia e delicatezza della misericordia divina

Un’umile pagina di un autore spirituale ignorato, contemporaneo di Joseph Ratzinger, alla luce dei Padri della Chiesa riduce a niente la speculazione del teologo di Tubinga:

«Dio ha cura, non solo della nostra salvezza, ma anche del nostro onore. E per un vero accesso d’amore, Egli sacrifica la sua gloria alla nostra, osano dire i Padri. E sceglie la soluzione più gloriosa per noi, la più dolorosa per Lui: la croce. Non verrà come donatore, ma come mendicante, non come creditore, ma come debitore; non verrà per dare, ma per ricevere: ricevere da noi di che pagare la nostra salvezza, così che tale salvezza sia interamente nostra, annientandosi, sprofondando in noi: exinanivit. Raffinatezza di delicatezza e d’amore che di più non si può.
«Egli ha ricevuto da noi ciò che doveva offrire per noi, dice sant’Ambrogio, al fine di riscattarci del nostro e di darci del suo, con una munificenza divina che non era nostra. Lo sapete, è del nostro che ha offerto in sacrificio. Infatti, qual è stata la causa dell’incarnazione se non che la carne che aveva peccato fosse essa stessa lo strumento del suo riscatto?» (10).

Ma Joseph Ratzinger disprezza sant’Ambrogio, sant’Agostino, san Leone Magno, fa la caricatura di sant’Anselmo e non ama san Tommaso d’Aquino (11); così la sua tesi è falsa e anti-tradizionale, la sua antitesi, in realtà, non è nient’altro che la pura Tradizione e la sua sintesi del puro amore è altrettanto falsa e menzognera che la sua tesi. San Tommaso d’Aquino, erede dei Padri, sottolinea, senza bisogno di alcuna dialettica, che la carità è l’anima del sacrificio di Cristo, ma non attenua né la materialità, né il valore espiatorio di questo sacrificio:

Sembra che la passione di Cristo non abbia agito sotto forma di sacrificio.
Rispondo: Il sacrificio propriamente è un'opera compiuta per rendere a Dio l'onore a lui esclusivamente dovuto al fine di placarlo. […] Cristo “nella passione sacrificò se stesso per noi”: e tale azione, cioè l'accettazione volontaria della passione, fu sommamente gradita a Dio, procedendo essa dalla carità. Perciò è evidente che la passione di Cristo fu un vero sacrificio (12).

In nessun posto della sua Summa teologica, san Tommaso mette in dubbio il dovere di soddisfazione dell’uomo verso Dio, per il peccato; egli avanza diverse obiezioni riguardo alla soddisfazione di Cristo, ma l’idea stessa di soddisfazione gli appare talmente tradizionale che non gli passa neanche per la mente di metterla in dubbio o di negarla per questione di metodo e soprattutto di fare di questa negazione la sua tesi. Per san Tommaso, la tesi da difendere e provare è unicamente la soddisfazione di Cristo, e questo fin dalla prima questione del trattato sul Verbo incarnato, che tratta dello scopo stesso dell’incarnazione:

Per la redenzione della natura umana, caduta a causa del peccato, si richiedeva soltanto che l'uomo soddisfacesse per il peccato. Dio infatti non deve esigere dall’uomo l’impossibile; ed essendo più incline a compatire che a punire, come imputò all’uomo l’atto del peccato, gli dovrebbe ascrivere a distruzione del peccato l’atto contrario. Non era dunque necessaria, per redimere la natura umana, l’incarnazione del Verbo di Dio (13).
In tal senso non poteva essere sufficiente la soddisfazione d’un puro uomo, perché tutta la natura umana era stata corrotta dal peccato, né il merito di una o più persone poteva compensare alla pari il danno di tutta la natura. Inoltre, poiché il peccato commesso contro Dio acquista una certa infinità dalla infinità della maestà divina: l’offesa infatti è tanto più grande, quanto più grande è la persona verso cui si manca; era necessario per una soddisfazione adeguata che l’azione del riparatore avesse un’efficacia infinita, quale è appunto l’azione di un uomo-Dio (14).

E il fatto che l’Uomo-Dio abbia soddisfatto pienamente per i peccati, non dispensa il puro uomo dall’aggiungere la sua stessa soddisfazione imperfetta alla perfetta soddisfazione di Cristo:

Può dirsi sufficiente una soddisfazione in maniera imperfetta, ossia relativamente all’accettazione da parte di chi se ne contenta, anche se non è adeguata. In tal senso può essere sufficiente la soddisfazione d’un puro uomo. Tuttavia, poiché ogni cosa imperfetta presuppone la perfezione corrispondente su cui si regge, è dalla soddisfazione di Cristo che prende efficacia la soddisfazione d’ogni puro uomo (15).

L’azione della causa prima non sopprime l’azione delle cause seconde. Queste ultime brevi righe di san Tommaso dissipano a sufficienza l’errore di Occam e di Lutero, dal quale Joseph Ratzinger non è esente, esse sono ricche di tutto il valore della croce nella vita cristiana: un valore propriamente soddisfattorio.
Ma più avanti, nella sua Summa, san Tommaso dedica un intero articolo della sua questione 48 al valore soddisfattorio della passione di Gesù Cristo:

Sembra che la passione di Cristo non abbia causato la nostra salvezza sotto forma di soddisfazione.
Rispondo: Soddisfa pienamente per l’offesa colui che offre all’offeso quanto egli ama in maniera uguale o superiore all’odio che ha per l’offesa subita. Ebbene, Cristo accettando la passione per carità e per obbedienza offrì a Dio un bene superiore a quello richiesto per compensare tutte le offese del genere umano. Primo, per la grandezza della carità con la quale volle soffrire. Secondo, per la nobiltà della sua vita, che era la vita dell’Uomo-Dio, e che egli offriva come soddisfazione. Terzo, per l’universalità delle sue sofferenze e per la grandezza dei dolori accettati, di cui sopra abbiamo parlato. Perciò la passione di Cristo non solo fu sufficiente per i peccati del genere umano, ma addirittura sovrabbondante, secondo le parole di S. Giovanni: «Egli è propiziazione per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1 Gv. 2, 2) (16).

E san Tommaso conficca il chiodo precisando, in linea con i Padri, che questa soddisfazione di Cristo con la sua passione fu ad un tempo opera di giustizia e opera di misericordia, cosa che Joseph Ratzinger passa totalmente sotto silenzio:

La redenzione dell’uomo mediante la passione di Cristo era consona sia alla misericordia che alla giustizia di Dio. Alla giustizia, perché Cristo con la sua passione riparò il peccato del genere umano: e quindi l’uomo fu liberato dalla giustizia di Cristo. Alla misericordia, perché non essendo l’uomo, di per sé, in grado di soddisfare per il peccato di tutta la natura umana, come sopra abbiamo visto [III, q. 1, a. 2, ad 2], Dio gli concesse quale riparatore il proprio Figlio, secondo l’insegnamento paolino: “(Tutti) sono giustificati gratuitamente per la grazia di lui mediante la redenzione in Cristo Gesù, che Dio ha prestabilito quale propiziatore, per via della fede in lui” [Rm. 3, 24]. E ciò fu un atto di maggiore misericordia che il condono dei peccati senza nessuna soddisfazione. Di qui le parole di S. Paolo [Ef. 2, 4-5]]: “Dio, che è ricco di misericordia, per il grande amore che ci portava, mentre eravamo morti per i peccati, in Cristo ci richiamò alla vita” (17).

E a Dio va resa, non solo una soddisfazione corrispondentemente degna per i peccati, ma questa soddisfazione è l’uomo stesso che la deve offrire, riscattandosi da se stesso invece di esserne liberato dalla forza, dalla potenza di Dio. Il vescovo sant’Agostino (De Trinitate, L. 13, cap. 14) e il papa san Leone (Sermoni I e II De Nativitate, «Sources chrétiennes», p. 76-77, 81-83), interpretati da sant’Anselmo di Canterbury, insistono su questa misericordia più abbondante che Dio ha fatto all’uomo col mettergli in mano la soddisfazione da offrirGli: mettendo a sua disposizione il Soddisfattore, uno degli uomini, il Cristo-uomo. È l’uomo stesso che ha la possibilità di riabilitarsi in stretta giustizia, anche se questo è possibile per dono di Dio. Ciò che l’uomo offre a Dio è sempre «de tuis donis ac datis (dei tuoi doni e dei tuoi benefici)». Come la moneta che i bambini mettono nel cestino della questua, anche se l’hanno ricevuta dal portamonete di papà: come se rendessero «solennemente» con la mano destra ciò che hanno misericordiosamente ricevuto nella sinistra. Fu questo che nel giorno dell’Epifania, Gesù Cristo fece capire a santa Matilde, dopo che questa aveva ricevuto la comunione:

Ecco, sposa mia, io ti dono l'oro, ossia il mio divino amore; l'incenso, ossia tutta la mia santità e la mia divozione; infine la mirra, che, è l'amarezza della mia intera Passione. Tutti questi beni ti dono in proprietà, a segno che potrai offrirmeli come un bene che ti appartiene (18).

Ricevere da Dio è la misericordia, dare a Dio è la giustizia. Perché Joseph Ratzinger sfigura la misericordiosa giustizia di Gesù Cristo? Sine affectione, sine misericordia (senza cuore, senza misericordia: Rm. 1, 31)…
Se avesse letto San Tommaso, avrebbe imparato ad unire ciò che oppone:

Ogni opera della divina giustizia, poi, presuppone sempre l’opera della misericordia, ed in essa si fonda. Infatti niente è dovuto a una creatura se non in ragione di qualche perfezione che in essa preesiste o che si considera come anteriore; e se a sua volta tale perfezione è dovuta alla creatura, ciò è in forza di un’altra cosa antecedente. E siccome non si può procedere all’infinito, bisogna arrivare ad un qualche cosa che dipenda unicamente dalla bontà divina che è l’ultimo fine (di tutte le cose). Come se dicessimo che avere le mani è dovuto all’uomo a motivo dell’anima ragionevole; e che gli è dovuta un’anima ragionevole perché uomo, e che è uomo a causa della divina bontà. E così in ogni opera di Dio appare la misericordia, come sua prima radice (I q. 21, a. 4).
(su)

NOTE

1  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, Cerf, 2005 (riedizione senza variazioni della 1a ed. del 1968). Questo libro contiene i corsi del giovane professore di teologia di Tubinga dell’anno 1967 [J. RATZINGER, Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000].
2  - Dio non prova formalmente la passione della collera, perché è puro spirito. Ma produce degli effetti che per noi sono effetto della collera, come per esempio quando punisce.
3  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, Cerf, 2005, pp. 197-198 [J. RATZINGER, Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, pp. 227-228].
4  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, Cerf, 2005, pp. 198-199 [J. RATZINGER, Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, pp. 228-229].
5  - I sacrifici pagani hanno solo distolto il sacrificio dal suo fine propiziatorio per farne un’invocazione al diavolo.
6  - DOM PAUL DELATTE O.S.B., Les Épîtres de saint Paul replacées dans le milieu historique des Actes des Apôtres, T. 1, Marne, Tours, 1938, p. 438.
7  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, Cerf, 2005, p. 199 [J. RATZINGER, Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 230].
8  - Si veda: JACQUES MANTOY, Précis d'histoire de la philosophie, éd. De l’École, 1951, riedizione 1981, § 78.
9  - [Cioè di espiazione per mezzo di una vittima che è sostituita al peccatore, quello che la teologia chiama soddisfazione vicaria e che solo Cristo ha fatto realmente].
10  - G. LACOUAGUE S. J., Notre Dame de nos prières, Mame, 1962, pp. 70-71.
11  - Si veda: CARDINAL RATZINGER, Le Sel de la Terre, Flammarion - Cerf, 1997, p. 60. [JOSEPH RATZINGER, BENEDETTO XVI, Il Sale della Terra, Ed. San Paolo, 2005, pp. 68-69].
12  - III, q. 48, a. 3.
13  - III, q. 1, a. 2., arg. 2.
14  - III, q. 1, a. 2., ad 2. Joseph Ratzinger non cita san Tommaso, ma critica la fonte di san Tommaso, sant’Anselmo, il che è lo stesso, la cui dottrina, vista «nella rozza e grossolana veste in cui l’ha insaccata la coscienza popolare», gli appare come «un crudele meccanismo, per noi sempre più inutilizzabile» (Introduzione al Cristianesimo, p. 183). L’ermeneutica esige dunque la revisione e la riforma della soddisfazione di Cristo.
15  - III, q. 1, a. 2., ad 2.
16  - III, q. 48, a. 2.
17  - III, q. 46, a. 1, ad 3.
18  - SANTA MATILDE, Il Libro della Grazia Speciale, Libro I, cap. VIII.



agosto 2012

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