DANTE E I “FEDELI D’AMORE”

Ovvero: come si inventa una setta.

Parte prima

di Luciano Pranzetti


Alla Parte seconda

       



Il discorso sul tema annunciato non abbisogna di documentazione più o meno abbondante, più o meno qualificata, più o meno probante ché, a darcene ampia disponibilità alla discussione, si presta egregiamente il testo di Luigi Valli, un volumone dal titolo ghiotto, di quelli che fanno fremere i sommozzatori dell’occulto, che tale è “IL LINGUAGGIO SEGRETO DI DANTE E DEI FEDELI D’AMORE”, reso edito per LUNI EDITRICE, 1994. E non sarebbe, quindi, necessario sorbirsi tutte le 685 – diconsi: seicento ottantacinque pagine – dal momento che dopo le prime ventisette, le rimanenti risultano essere o ripetizioni ampliate, zeppe di citazioni per lo più incongrue, o esercizi di contorsionismo dialettico o tesi derivate da ipotesi aeree pencolanti come color che son sospesi.

Ma la nostra curiosità e il dovere professionale, in una con una buona dose di tenacia, ci han permesso di arrivare alla conclusione con una domanda di tipo manzoniano: i Fedeli d’Amore: chi eran costoro?
Non si sa, poiché gli indizî – chiamiamoli così - su cui parte la ricerca dell’arcano stanno in due luoghi letterarî e, cioè, la Vita Nuova di Dante in cui (I, 20) apertamente si legge: “. . . e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire per rima, propuosi di fare uno sonetto, nel quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore” e la Cronica di Giovanni Villani (1308) con al cap. LXXXIX del Libro 8, un indizio che è poco più di un annuncio telegrafico e che così informa: “
Nell’anno appresso MCCLXXXIII del mese di giugno, per la festa di santo Giovanni, essendo la città di Firenze in felice e buono stato di riposo e tranquillo e pacifico stato, e utile per li mercatanti e artefici, e massimamente per gli Guelfi che signoreggiavano la terra, si fece per la contrada di Santa Felicita Oltrarno, onde furono capo e cominciatori quegli della casa de’ Rossi co-lloro vicinanze, una compagnìa e brigata di M uomini o più, tutti vestiti di robe bianche, con uno signore detto dell’Amore. Per la qual brigata non s’intendea se non in giochi, e in sollazzi, e in balli di donne e di cavalieri e di altri popolani, andando per la terra con trombe e diversi stormenti in gioia e allegrezza, e stando in conviti insieme, in desinari e in cene. La qual corte durò presso a due mesi, e fu la più nobile e nominata che mai fosse nella città di Firenze e in Toscana; alla quale vennero di diverse parti molti gentili uomini di corte e giocolari, e tutti furono ricevuti e provveduti onorevolmente”.

Per ciò che riguarda l’indizio dantiano – che costituisce il punto in cui si sono convogliate, e si dipartono, tutte le indagini e le curiosità - la facciamo corta poiché non si vede come da questo si possa far discendere l’esistenza di una setta, o confraternita “iniziatica”, a cui Dante appartenne, secondo l’opinione di alcuni studiosi (1) in qualità di capo. Una congrega impregnata di Templarismo esoterico, contigua alle società Sufi e alla Kabbalà, esperta nella gestione delle tecniche paranormali funzionali al raggiungimento dell’estasi e della fantomatica dissociazione della coscienza dal corpo, supremo stadio in cui l’iniziato percepisce chiara la visione dell’En to Pan = Uno il Tutto, cioè: l’Assoluto. Fastidiose onde cerebrali che, ciclicamente tornano a ronzare quando l’esploratore di turno scopre che la Divina Commedia è il prodotto di un individuo in viaggio astrale, rimpinzato di hashish o di sostanze allucinogene (2). Rispondendo, per tal proposito, all’autrice di simile panzana, le chiedemmo di citare e documentare l’esistenza di alcuni capolavori – pittura, musica, poesìa – concepiti e partoriti durante uno stato di degrado mentale e fisico ché in simile condizione le uniche evidenze, pietose e miserabili, sono un’irrefrenabile incontinenza urinaria e un vaniloquio grommato di bavosa saliva. Non ci pervenne risposta alcuna.

E poi: Dante capo di una confraternita imbevuta di misticismo islamico/ebraico? Un capo di tal fatta dovrebbe conoscere a fondo le dottrine che professa e i riti che amministra del che la nostra maggior Musa già non conosce una parola di greco, figuriamoci dell’idioma arabo ed ebraico. Gli son sufficienti il latino, la Scrittura, la Patristica, la Scolastica, la inconcussa Fede cattolica e la vulgare eloquenzia per donare all’umanità il più alto, profondo e sempre contemporaneo pensiero contenuto nelle terzine della Commedia.
E poi: che razza di Fedele d’Amore sarebbe uno come lui che, niente spirito di corpo e di solidarietà, ficca all’inferno gli amici alchimisti, gli eretici, i poeti provenzali, i ghibellini, i parenti, i suoi insegnanti, i grandi eroi della mitologia e, soprattutto Virgilio, suo duca, signore e maestro!

Gli studiosi che si occupano di queste amenità, dopo aver strologato su Dante impelagato con questi fedeli amorosi, e dissodato l’intero patrimonio poetico del XIII e del XIV sec., candidamente affermano non esservi documenti storici che possano certificare queste scoperte. Tacciano, allora, e non spargano la zizzania nel campo del buon grano che questo, alla mietitura, verrà deposto nel granaio mentre l’altra arderà nel fuoco distruttore.

Ci viene da compatirli, questi Fedeli d’Amore i quali, secondo i sopra detti studiosi, nel comporre un sonetto in lode di Donna X, sembrano doversi sobbarcarsi una quadruplice fatica: formulare mentalmente il messaggio cifrato, trovare le parole anfibologiche adatte – quelle dal doppio senso – cercare la rima e siglare la chiusa con un verso riassuntivo. E non meno da compatire sono quei dragomanni, esegeti, commentatori che si sobbarcano l’estenuante, logorante lavoro di estrarre il senso occulto da componimenti poetici del tipo “Tanto gentile e tanto onesta pare” quando basterebbe leggerlo mentalmente e lentamente, godendo della mirabile chiusa “e par che de la sua labbia si mova/ uno spirito soave pien d’amore/che va dicendo all’anima: sospira!”.
Noi, con tutta la buona volontà e nonostante la nostra familiarità al linguaggio enigmistico, non riusciamo ad estrarre un alcunché di criptico, di allusivo, di doppio senso se non l’espressione mirabile con cui il poeta sublima il suo stupore estatico per l’apparizione di una creatura – la sua donna – che, nel modo di presentarsi, trascende i sensi terreni per farsi sospiro dell’anima.

E non diversamente è da considerare il verso “Questa chiese Lucia in suo dimando/e disse: or ha bisogno il tuo fedele/di te” (Inf. II, 97/99) dove Questa è riferito a Maria SS. la quale si rivolge a Lucia per cui il termine fedele dice della devozione di Dante per questa santa, al netto di qualsivoglia sottinteso codice. Il poeta, infatti, nutre una venerazione particolare per ella da quando, come racconta, affetto da una malattia agli occhi, ne fu guarito – la diamo come probabile - grazie alla sua intercessione. (Convivio, III, IX, 15/16).

Ma poi: ammesso - e non concesso - che codesti Fedeli d’Amore scrivessero in cifra, che cosa fa supporre che il contenuto delle loro liriche fosse complottardo ed eversivo e avesse, perciò, bisogno di una sintassi esteriore per sfuggire all’Inquisizione?
La risposta la dànno gli stessi autori di simili congetture i quali, come abbiam detto poc’anzi, ammettono di non poterle certificare per mancanza di documentazione.
Eppure, c’è ancora chi spreme il cerebro sulla nota terzina “O voi ch’avete li ‘ntelletti sani/mirate la dottrina che s’asconde/sotto ‘l velame de li versi strani” (Inf. IX, 61/63) scorgendovi chissà quale significato recondito o quale avvertimento ai Fedeli d’Amore, di stare, cioè all’erta, quando, invece il Poeta esorta le intelligenze limpide a considerare l’allegoria successiva del Messo celeste, dimostrativa del dominio del Signore Iddio sul territorio infero e che conferma quanto è scritto sulla porta d’ingresso “Giustizia mosse il mio alto Fattore/fecemi la divina potestate/la somma sapïenza e ‘l primo amore” (Inf. III, ). Niente, quindi, di occulto.

Vorremmo suggerire ai tanti cercatori che frugano nei versi dantiani, nella speranza di cogliervi un cenno, una rima, una figura retorica in cui si celino segnali cifrati, parole di passo (3), vorremmo suggerire – dicevamo – la lettura di un testo composto da una squadra di studiosi, coordinata da Umberto Eco, il cui titolo – questo sì enigmatico! – “L’idea deforme (4) - è l’anagramma dei “Fedeli d’amore”, un testo la cui finalità fu, e resta tuttora, quella di smontare e porre in ridicolo la giostra dell’esoterico, dell’occulto, del misterico messa in moto sull’opera di Dante.
Noi aggiungiamo, a questa segnalazione, quanto, secoli or sono, il dotto prelato Marbodo di Rennes (1035 – 1123) ammonendo, scriveva: “Majestatem minuit qui mystica vulgat, nec secreta manent quorum fit conscia turba” (5) – chi divulga sublimi verità ne sminuisce la maestà e non sono più segreti quelli di cui viene a conoscenza la plebaglia.

Ci occupiamo, ora, del passo citato dal Villani, molto brevemente, come segue.
Non sembra la cronaca di un evento turistico, di una festa estiva dove – come e qualmente oggi – convergono cavalieri, gentiluomini, gentildonne, popolani, giocolieri e dove le autorità ci tengono a trattare con garbo e grazia i forestieri – diciamo: i turisti - i cui quattrini affluiscono alla casse pubbliche?
Ma in questa cronaca è nascosto l’arcano, il segreto che tanti intelletti, tanto tempo e tanto inchiostro, ha fatto consumare nella ricerca del profondo, rappresentato da quei mille e più persone vestite di bianco.

Ed ecco allora, Ugo Foscolo, Michelangelo Caetani, Giovanni Pascoli, Gabriel Rossetti impastare il passo della Cronica e scoprire, in tal modo, il nesso che lega il luogo della Vita Nuova in vincolo associativo, cioè, a quel “signore d’Amore” quale prova che assevera i Fedeli d’Amore realtà esistita come setta segreta.
Tutto questo fornendo a Luigi Valli, buon quinto, l’occasione per manifestare entusiasmo, rendere grazie ai quattro per aver aperto il sentiero sotterraneo che porta alla scoperta del “senso occulto” seminato, soprattutto nelle rime della poesìa stilnovistica, consentendogli, così, di avviare l’indagine di specie e concludere la sua breve prefazione prendendosela con la “così detta critica positiva”, quella che “vituperò e derise, boicottò e diffamò l’opera dantesca di questi due grandi italiani (Pascoli e Rossetti), senza compiere su di essa nessun esame serio e onesto” . Ma, poi, per un involontario moto di resipiscenza, quasi a bilanciare il negativo giudizio sulla critica accademica-positiva, dichiara di volere e dovere “in perfetta umiltà di spirito, riconoscere avanti ai giovani e ai lettori spregiudicati, per i quali io scrivo, le gravi deficienze di questa mia opera, nella quale solo una minima parte degli argomenti ho potuto raccogliere; nella quale non mancano certo né ipotesi secondarie da rivedere, né errori da ricorreggere. . .”.
Osserviamo, di leggieri, la strana umiltà del Valli il quale si schermisce di non aver potuto – o saputo? – raccogliere ulteriori argomenti, diversamente altro che 685 pagine! nelle quali galleggiano ipotesi claudicanti ed errori di prospettiva.

E, poiché, Valli pone Rossetti quale punto di partenza per la sua vertiginosa discesa nelle fonde cavità del segreto, a noi sarà agevole, visto l’intero argomento compresso e sintetizzato nelle quindici pagine del capitolo “La Storia dell’idea” – propedeutico alla trattazione analitica – svolgerne l’esame critico con cenni specifici su punti di particolare enfasi.
  
Intanto è da evidenziare la grana culturale del nostro.
Il Rossetti appare a prima vista a chiunque come un pensatore senza freno e senza metodo, che lavorava sopra un materiale non criticato, che mancava assolutamente di ogni rispetto per la cronologia, che ragionava non senza passione d’amore per la tradizione rosacruciana da lui seguita e non senza passione d’odio contro la Chiesa di Roma; ma tutti questi suoi gravi difetti non riuscirono a nascondermi prima l’importanza e poi l’evidenza di una sua idea . . .”.
Insomma, come il lettore nota, non è, il rosacruciano Rossetti, un oracolo dalle cui labbra pendere, al contrario è uno spacciatore di cantafavole discreditato, tra l’altro, da gravi difetti il primo dei quali, l’odio per la Chiesa Cattolica, lo porta a sfrondare Dante del suo essere integerrimo cattolico  – ché questo è lo scopo di tutti gli armeggioni che parlano e scrivono di un Dante iniziato, alchimista, eretico, gnostico/cataro, sodomita, massone ante litteram -  facendolo “ghibellino”, ricalco di quello fuggiasco inventato da Foscolo (6).
Eppure, Valli ne seguirà la rotta che il rosacroce Gabriel gli ha tracciato illuminandola con le sue idee. Vediamone alcune di queste.

SEGUE

NOTE


1 – Renzo Manetti: Dante e i Fedeli d’Amore – Mauro Pagliai Ed. 2018, pag. 136 segg. - Adriana Mazzarella: Alla ricerca di Beatrice. Dante e Jung – Edra 2015, pag. 30 – passim - Maria Soresina: Libertà va cercando. Il catarismo nella Commedia – Moretti & Vitali 2009, pag. 44-45, 55-57, 194 - Bruno Cerchio: L’ermetismo di Dante - Ed. Mediterranee 1988, pag. 24-31 - Renato Guénon: L’esoterismo di Dante – Ed Atanòr 1951, pag. 26
2 – Barbara Reynolds: Dante, la vita e l’opera – Ed. Longanesi 2007, pag. 23
3 – Renato Guénon – op. cit. pag. 15
4 -  Maria Pozzato (a cura): L’idea deforme. Interpretazioni esoteriche di Dante – Ed. Bompiani 1989, numerose pagine.
5 – Marbodo di Rennes: De Lapidibus – Prologus – Ed. Carocci 2006, pag. 38
6  - Ugo Foscolo: Dei sepolcri, 174
 




maggio 2022
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