Le consacrazioni compiute nel 1988
rappresentano un atto di natura scismatica?


di
Don Jean-Michel Gleize, FSSPX

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Articolo secondo


Don Jean-Michel Gleize è professore di apologetica, ecclesiologia e dogma nel seminario San Pio X di Ecône. E’ il principale redattore del Courrier de Rome. Ha partecipato ai colloqui dottrinali fra Roma e la Fraternità dal 2009 al 2011.



       

La benevolenza dimostrata dal Santo Padre alla Fraternità San Pietro tramite una sorta di indulto concesso rispetto a Traditionis custodes, dà ragione a coloro che hanno voluto «conservare la Messa tradizionale nel perimetro visibile della Chiesa»?
E il fatto che la Fraternità San Pio X continui a celebrare questa Messa al di fuori di tale «perimetro visibile», costituisce uno scisma?

1. Il sito «Claves.org» è l’organo ufficiale della Fraternità San Pietro, l’equivalente di ciò che è «La porte Latine» per il Distretto di Francia della Fraternità San Pio X.
Nella rubrica «Teologia», il Padre Louis-Marie de Blignières, della Fraternità San Vincenzo Ferrier, pubblica da poco una serie di «Liberi colloqui sull’estate 1988» Il terzo colloquio, pubblicato sul numero del 18 aprile 2022, è titolato «Perché non abbiamo seguito le consacrazioni».

2. Tutta la spiegazione del Padre domenicano si basa su un solo presupposto: seguire le consacrazioni, cioè approvare l’atto compiuto da Mons. Lefebvre il 30 giugno 1988, sarebbe equivalso a non mantenere la comunione gerarchica con la Santa Sede di Roma.
Da qui tutto ne consegue.

Se le consacrazioni episcopali dell’estate 1988 rappresentano un atto di natura scismatica, è chiaro che i sacerdoti e i fedeli dell’ambito chiamato «Ecclesia Dei» sono nel vero.
Gli altri aspetti del percorso che li ha condotti a cercare di ottenere da Roma un regime di favore per la Tradizione, le loro intenzioni personali, le loro preoccupazioni e le loro pene, sono evidentemente secondarie e accidentali rispetto al presupposto principale.

E naturalmente la valutazione critica della Fraternità San Pio X e la reale motivazione della sua profonda divergenza con il detto ambito non si basa su tali aspetti secondari, ma sul presupposto principale. Tutto il resto sarebbe solo un malinteso.

3. Il Padre de Blignières non si sofferma a dimostrare il suo presupposto. «Ciò che volevamo» - egli scrive – «era chiaro e difficile: conservare la Messa tradizionale nel perimetro visibile della Chiesa, per riprendere una espressione di Jean Madiram, cioè nella comunione gerarchica».

Da quel momento tutto si è svolto – almeno secondo l’intendimento del Padre – come se le consacrazioni episcopali del 30 giugno 1988 avessero procurato solo a loro la messa in pericolo di tale comunione, escludendo Mons. Lefebvre e i suoi fedeli dal perimetro visibile della Chiesa.

Tuttavia, nel numero 1 del motu proprio Ecclesia Dei adflicta, col quale Papa Giovanni Paolo II valuta molto ufficialmente la portata di queste consacrazioni, esse sono presentate dalla Santa Sede come un motivo di tristezza per la Chiesa, per il fatto che esse sanciscono lo scacco di tutti gli sforzi compiuti fino a quel momento dal Papa «per assicurare la piena comunione con la Chiesa della Fraternità Sacerdotale San Pio X».

E’ dunque chiaro che, agli occhi di Giovanni Paolo II, non furono le consacrazioni del 30 giugno 1988 a mettere in pericolo la comunione della Fraternità con la Chiesa. Il problema della «piena comunione» esisteva da prima - «fino a quel momento» - e non furono le consacrazioni compiute da Mons. Lefebvre a suscitare la difficoltà già in atto da tempo.

I numeri seguenti, 3 e 4, dello stesso motu proprio fanno la distinzione tra la portata dell’atto consacratorio preso in sé (n. 3) e i motivi molto più profondi che sono alla radice del dissidio tra la Fraternità e la Santa Sede (n. 4). Nel n. 4 è detto: «la radice di questo atto scismatico è individuabile in una incompleta e contraddittoria nozione di Tradizione».

In quella estate dell’anno di grazia 1988 c’erano due opposte concezioni di Tradizione – dunque di bene comune della Chiesa – che si confrontavano.

4. Tutto dipende allora non dalle consacrazioni, ma dal Vaticano II, cioè dall’ecumenismo, dalla collegialità e dalla libertà religiosa. Sul punto Mons. Lefebvre si è spiegato a sufficienza a più riprese e soprattutto nell’omelia del 30 giugno 1988, in cui rispondeva in anticipo al rimprovero che gli sarebbe stato rivolto due giorni dopo.

«Mi sembra di sentire la voce di tutti quei papi a partire da Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII, San Pio X, Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, che dicono: « …  a partire dal Concilio, ciò che noi abbiamo condannato ecco che le autorità romane l’adottano e lo professano, com’è possibile?

«Noi abbiamo condannato il liberalismo, noi abbiamo condannato il comunismo, il socialismo, il modernismo, il sillonismo, tutti questi errori che noi abbiamo condannato ecco che oggi sono professati, adottati, sostenuti dalle autorità della Chiesa: è possibile?»
 
La «nozione contraddittoria di Tradizione» è dunque imputabile alla Roma attuale, a questa Roma detta «conciliare» per il fatto stesso di richiamarsi al concilio Vaticano II, i cui insegnamenti sono contrari alla Tradizione della Chiesa.

E se questa nozione «contraddittoria» di Tradizione è la radice profonda dello scisma, questo è riconducibile a Roma, a questa Roma attuale che rompe con la Roma di sempre. Lo scisma non potrebbe essere riconducibile a Ecône, che si discosta da questa Roma attuale per rimanere fedele alla Roma di sempre.

Giovanni Paolo II ha un bel dire che: «Non si può rimanere fedeli alla Tradizione rompendo il legame ecclesiale con colui al quale Cristo stesso, nella persona dell’apostolo Pietro, ha affidato il ministero dell’unità nella sua Chiesa»: questo rimprovero è indirizzato a Mons. Lefebvre proprio da colui che è il primo a rompere il famoso legame ecclesiale separandosi dagli insegnamenti dei suoi predecessori.

Come può pretendere infatti di rimanere in comunione con i papi Leone XIII, San Pio X, Pio XI e Pio XII compiendo per due volte (1986 e 2002) la scandalosa cerimonia di Assisi? Lo stesso principio di questa intrapresa ecumenica e interreligiosa è esplicitamente condannato dall’enciclica Mortalium animos del 6 gennaio 1928, appena sessant’anni prima delle consacrazioni di Ecône.

5. Ed allora è facile vanificare l’altro aspetto del rimprovero in cui sarebbe incorso apparentemente Mons. Lefebvre. La sua nozione di Tradizione sarebbe stata «incompleta» perché non avrebbe tenuto sufficientemente conto del «carattere vivente della Tradizione». In realtà, questa Tradizione vivente non esiste. Si tratta di una contraddizione in termini e di una delle invenzioni del concilio Vaticano II, in rottura con tutto il Magistero anteriore della Chiesa.

Il motu proprio crede di poter giustificare questa idea falsa di una Tradizione vivente appoggiandosi al famoso n° 8 della costituzione Dei Verbum, che stabilisce la confusione fra la Tradizione, che è la trasmissione delle verità rivelate da Dio compiuta dal Magistero, e la percezione di queste stesse verità da parte dei fedeli che le ricevono dalla predicazione del Magistero.

Una cosa è la trasmissione, un’altra è la percezione di ciò che è trasmesso. La percezione si realizza sempre meglio: essa effettivamente progredisce prima di tutto grazie alla predicazione del Papa e dei vescovi.

Ma la trasmissione non progredisce nel senso che la Chiesa non possiederebbe ancora in maniera definitiva la pienezza della verità. Con questa concezione evoluzionista della Tradizione vivente, il concilio ha aperto la porta alla «ermeneutica della riforma», teorizzata da Benedetto XVI nel suo discorso del 22 dicembre 2005 [1].

6. Tale è il motivo profondo per il quale la Santa Sede ha condannato Mons. Lefebvre e la sua opera, e per il quale il Padre de Blignières e i suoi discepoli hanno rifiutato di seguire le consacrazioni: la definizione di Tradizione e di Magistero.

Il n° 5 del motu proprio costitutivo della Pontificia Commissione dello stesso nome dichiara infatti che «l’ampiezza e la profondità degli insegnamenti del Concilio Vaticano II richiedono un rinnovato impegno di approfondimento, nel quale si metta in luce la continuità del Concilio con la Tradizione, specialmente nei punti di dottrina che, forse per la loro novità, non sono stati ancora ben compresi da alcuni settori della Chiesa».

E’ dunque l’idea di Tradizione vivente, applicata dal Vaticano II con tutte le sue conseguenze, che impedisce di «seguire le consacrazioni» e che reclama l’adesione dei fedeli e dei sacerdoti a beneficio dei quali il Papa ha voluto stabilire questa nuova Commissione.

7. Questa idea conciliare e modernista della Tradizione vivente è la causa profonda della divisione che  ancora imperversa tra i cattolici della Tradizione. E in definitiva il vero motivo per cui il Padre de Blignières e i suoi amici non hanno voluto seguire le consacrazioni è che non hanno colto tutta la nocività di questa nuova idea, preferendo «conservare la Messa tradizionale» nel perimetro visibile di una obbedienza male intesa.

SEGUE

NOTA

1 – Cfr. l’articolo «Magistero o Tradizione vivente», nel numero di febbraio 2012 del Courrier de Rome.
 


maggio 2022
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