Dante e San Tommaso


di Don Curzio Nitoglia




 



Introduzione

Padre Kenelm Foster nell’Enciclopedia dantesca edita da Treccani (1970 - 1978) ha scritto un articolo molto interessante intitolato Tommaso d’Aquino, santo (che si può trovare anche su internet), in cui sviscera i rapporti intercorsi tra Dante e la dottrina di san Tommaso d’Aquino.

Il padre domenicano (1910–1986), gran conoscitore di Dante e di san Tommaso, scrive «È certo che san Tommaso (d’ora in poi T.) esercitò una profonda influenza sul pensiero di Dante (d’ora in poi D.), ma definire la natura e l’ampiezza di tale influenza è questione non facile e molto dibattuta».

Per cui nell’affrontare questo tema occorre lasciare ogni pretesa di avere delle certezze assolute e bisogna accontentarsi di ipotesi o al massimo di probabilità.


Le prime polemiche attorno al tomismo

Padre Forster, giustamente, mette in luce il fatto che «gran parte della vita di D. (1265–1321) coincide col primo e, forse, più turbolento periodo della storia del tomismo, il mezzo secolo, cioè, che va dalla morte di T. (1225–1274) alla sua canonizzazione (1323), in cui il tomismo […], suscitò una quantità di controversie e di opposizioni».

D. iniziò a studiare filosofia dopo il 1290, frequentando sia le scuole dei religiosi domenicani sia quelle dei francescani, che allora si disputavano animatamente sulla questione dell’ortodossia del tomismo. D. non rimase edificato dall’animosità delle dispute; mentre – al contrario – vide in T. un modello di prudenza, riverenza, discernimento, capacità di distinguere, che non trascese mai nella polemica violenta o troppo accesa.


Il Convivio (1303-1308) e la Monarchia (1310-1313)

D. aveva avuto una giovinezza movimentata, aveva anche frequentato i circoli dell’amor cortese con Guido Guinizelli (1230 – 1276) e Guido Cavalcanti (1255–1300). Tuttavia, dopo la morte di Beatrice (1291 – 1295 circa), la donna da lui amata, D. lasciò le idee dell’amor cortese, e ricorse a Beatrice come a un’anima santa che potesse intercedere per lui presso Dio per aiutarlo a raggiungere il Paradiso.

Fu allora che iniziò a studiare filosofia, frequentando i corsi organizzati dai domenicani di Santa Maria Novella e dei francescani di Santa Croce, per poter arrivare a conoscere la verità. Tuttavia, non era ancora arrivato alla sua piena maturazione. Infatti, le opere che produsse sùbito dopo la morte di Beatrice (1291–1295) furono il Convivio (1303–1308) e il De Monarchia (1310–1313), in cui si ritrovano alcuni errori propri dell’averroismo. 

Nel Convivio D. è ancora prigioniero degli errori metafisicamente averroistici e politicamente “ghibellini”. Infatti, insegna la teoria del doppio fine per l’uomo, con una duplice beatitudine: la prima terrena, assicurata dalla filosofia e dall’Impero; la seconda eterna o spirituale, assicurata dalla teologia e dal Papato.

Nel De Monarchia (1310–1313) D. – che allora si trovava in esilio, per gli scontri da lui avuti con Bonifacio VIII suo acerrimo nemico – asseriva che solo l’Imperatore potesse ridare la tranquillità alle città italiane, mentre il Papa doveva occuparsi soltanto delle questioni strettamente spirituali.

Tuttavia questa dottrina, che si allontana da quella comunemente insegnata dalla Chiesa, venne insegnata a D. da fra Remigio de’ Girolami (1247–1319), un domenicano discepolo di T. che insegnava nello studio di Santa Maria Novella a Firenze a che era stato influenzato in ciò più da Sigieri che da T. (cfr. S. GENTILI, «Remigio de’ Girolami» in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, 2001, vol. 56).  

Attenzione! D. non è un laicista che nega la fede, tuttavia, ne fa un fenomeno puramente privato e intimo di ogni singolo uomo. Infatti, da un punto di vista averroistico, secondo lui, l’uomo avrebbe potuto raggiungere già su questa terra la beatitudine perfetta per mezzo della ragione. Egli, ciò nonostante, ammette che la teologia e il Papato potessero dare all’uomo la beatitudine eterna, che allora il Poeta separava e quasi contrapponeva a quella temporale.  

Invece, T. distingue fede e ragione, natura e grazia, Papato e Impero, ma per unirli; per l’Aquinate, la natura non è distrutta dalla grazia, ma è presupposta e perfezionata da essa. La ragione è distinta dalla fede, ma quest’ultima non è contraria alla ragione, anzi essa se ne serve per confutare chi nega la Rivelazione, per approfondire lo studio della teologia, per rendere ragione dei suoi princìpi. Per il tomismo è una contraddizione ammettere due fini dell’uomo: infatti, se v’è un fine temporale e uno spirituale, il primo è solo intermedio ed è ordinato al secondo come al suo fine remoto e ultimo.

Infine, D. sostiene che l’Imperatore riceve il suo potere da Dio direttamente e non tramite il Papa, come invece insegna la dottrina cattolica e T. particolarmente.

Tuttavia, se si definisce D. “ghibellino” lo si deve intendere come esaltatore del puro potere politico del solo Imperatore, che è anche sacro e perciò capace da sé di dare all’uomo la felicità naturale e mai come un laicista o un precursore del Cavour. Infatti, D. esalta l’Impero e, soprattutto, ha come ideale quello romano e non vuole uno Stato liberale e laicista, indifferente in materia religiosa; la religione non è negata da D., anche se è separata nettamente dalla sfera temporale, che di per sé può rendere l’uomo pienamente felice in questa terra proprio perché sacra.

La Divina Commedia (1310-1320)

Lasciando da parte ogni pretesa di avere delle certezze assolute e accontentandoci di probabilità, mi sembra lecito opinare che nella Commedia (1310–1320) si assiste a un ribaltamento delle tesi del Convivio e Monarchia.  

Infatti, D. dopo il fallimento dell’impresa dell’Imperatore Arrigo VII in Italia (1310 – 1313), si convinse che il solo Impero non bastava a dare la felicità all’uomo e che occorreva riporre in Dio la propria speranza. La sua vita attorno al 1310 iniziò a cambiare radicalmente, vi fu allora la “seconda conversione”, dopo la prima che era stata imperfetta sùbito dopo la morte di Beatrice (1291 – 1295) e lo aveva portato alla filosofia averroistica con la composizione del Convivio (1303–1308) e della Monarchia (1310 -1013). 

Perciò, D. fa una sorta di lungo “esame di coscienza”, passando con la confessione dei peccati con l’Inferno, purificandosi di essi con il Purgatorio per poter finalmente entrare in Paradiso.

Nella Commedia D. si distacca dalle tesi averroistiche delle due opere precedenti; infatti, mentre D. sta per uscire dal Purgatorio ed entrare in Paradiso si presenta Matilde di Canossa (l’alleata di san Gregorio VII contro l’Imperatore Enrico IV) ad accogliere D. che lascia Virgilio. Insomma la vecchia infatuazione di D. per l’Impero come fine bastante da se stesso a rendere felice l’uomo, è sorpassata nella Divina Commedia

Inoltre, bisogna sempre tener bene a mente che la Commedia non è un trattato di metafisica o di teologia, ma un Poema e che D. non è un filosofo né un teologo di professione anche se fu un amante della filosofia e della teologia, ma un poeta, anzi il Poeta.

D. poeticamente ci fa capire che esce dal peccato (Inferno) non più con le sue sole forze, ma con l’aiuto di Virgilio, che simboleggia la ragione e la virtù umana potenzialmente ben sviluppata ma prima dell’Incarnazione del Verbo; perciò ancora imperfetta.
Infatti, Virgilio dovrà cedere il passo a Beatrice ossia alla fede, alla teologia, alla Rivelazione. La felicità alla quale l’uomo – secondo D. nei due trattati averroistici – poteva arrivare con la sola natura, ragione e filosofia, ora ha bisogno di Beatrice e a questa felicità Virgilio non può avere accesso. 

Infine, non si può attribuire a D. tutto ciò che dicono i suoi personaggi. Innanzitutto, le anime che egli, non ancora ben purgato, incontra nell’Inferno possono esprimere i loro pensieri di anime dannate o quelli di un D. ancora peccatore che sta piangendo i suoi peccati e sta facendo un lungo “esame di coscienza” (per questo motivo può provare una certa pietà per Francesca); eventualmente le anime che egli incontra in Paradiso, ben convertito e purgato, possono essere portavoce del pensiero oramai pienamente rappacificato di D. (cfr. B. NARDI, Saggi di filosofia dantesca, Firenze, 1967).  


Il vescovo di Parigi condanna san Tommaso

Nel 1270 il vescovo di Parigi, Stefano Tempier, condannò 13 proposizioni averroistiche, poi nel 1277 egli giunse alla condanna di 219 errori, «una quindicina dei quali sono riconoscibili come tomisti»  (K. Foster). In queste due condanne venne colpito anche Sigieri da Brabante.

Certamente «D. non fu un anti/tomista», ma «non cercò neppure di essere considerato un tomista troppo esclusivo» (Foster).

Una cosa occorre tenere ben in mente nell’affrontare la questione dei rapporti tra D. e il tomismo: D. non era un filosofo, né un teologo di professione, era un poeta che aveva iniziato a studiare filosofia nel 1290 per cercare la verità e «non c’è da supporre che quando prese a interessarsi di T. egli avesse grande dimestichezza con i dibattiti teologici tra i frati» (Foster).

Inoltre «non dobbiamo supporre in D. una capacità di distinguere le varie scuole del tempo col rigore degli storici moderni; perciò seguire su una determinata questione sant’Alberto Magno, non significava per D. allontanarsi da T.» (Foster). La stessa opinione potrebbe valere per Sigieri, che fu condannato come T. nel 1270 e 1277, si rifugiò a Viterbo appellandosi al Papa nel 1277 ma venne ucciso dal suo segretario, probabilmente impazzito, nel 1280.

Le sue opere vanno dal 1265 al 1276. Perciò D., che non era un filosofo di professione, avrebbe potuto non aver le idee chiare su Sigieri.

«Ciò che D. desiderava sopra ogni cosa, in quel momento, erano la verità e la sapienza, ovunque fosse dato di trovarle» (Foster).
D. si era convertito e voleva approfondire le ragioni della sua fede. Inoltre, le dispute che si erano aperte e scatenate tra frati francescani contro domenicani (e viceversa) non lo avevano certamente ben impressionato, tanto più se si tiene a mente il suo dramma personale (l’esilio dal 1301 sino alla sua morte, causato dalle sue incomprensioni con papa Bonifacio VIII, pontefice di perfetta dottrina ma di carattere difficile come lo stesso D.).

Benedetto XV, nella sua Enciclica In praeclara summorum del 30 aprile 1921, per il sesto centenario della morte di Dante, basandosi sul dramma vissuto da Dante ne scusa le intemperanze e scrive: «È vero che pronunciò invettive (...) offensive contro i Papi (...) ma si deve perdonare a un uomo agitato dai flutti di enormi sfortune, se si lasciò sfuggire dal cuore ulcerato qualche giudizio che sembra aver passato il  segno». 

Tornando alla filosofia studiata da D., come dilettante filosofo, in quei tempi, occorre ricordare che il maestro per antonomasia era Aristotele e gli interpreti dello Stagirita più brillanti erano i padri domenicani, tra cui eccelleva T.

D. aveva iniziato con Cicerone e Boezio e attorno al 1290 si accostò ad Aristotele interpretato da T.

Ora «alla fine del Duecento, nel momento in cui D. stava iniziandosi (1) alla filosofia con uno studio accurato di Aristotele, le due grandi autorità riconosciute in questo campo erano Averroè e T. e quest’ultimo godeva di una reputazione forse superiore a quella del filosofo arabo (cfr. C. FABRO, in Enciclopedia Cattolica, vol. XII, col. 265 – 266)» (Foster).


Dante e Sigieri da Brabante

Padre Foster (Religion and Philosophy in D., in The Mind of D., a cura di U. LIMENTANI, Cambridge, 1965) vede nei canti X e XII del Paradiso – in cui D. presenta T. che elogia san Francesco d’Assisi assieme a Sigieri da Brabante (1240–1280 (2) ) che era stato un suo antagonista alla Sorbona, poiché forse schieratosi apertamente con l’averroismo – un tentativo di riconciliazione tra i francescani e i domenicani, tra fede e ragione.  

Infatti «la rappresentazione dantesca», come scrive padre Foster «presuppone il mezzo secolo di discordie dottrinali che avevano preceduto la composizione dei canti X – XII del Paradiso».

Ora sulla figura di Sigieri, come ammette lo stesso Foster, tra gli studiosi di storia della filosofia medievale non c’è accordo. Infatti, per il domenicano Pierre Mandonnet (1858 – 1936), Sigieri era un averroista puro e semplice e dunque un eretico; invece per monsignor Fernand Van Steenberghen (1904 – 1993) egli era solo un aristotelico, che interpretava lo Stagirita sia alla luce di Averroè, sia a quella di Proclo, Alberto Magno e T.; perciò Sigieri – secondo Van Steenberghen – non era un eretico ma aveva lavorato soltanto per l’autonomia della filosofia nel campo della ragione. Infine, Bruno Nardi e Etienne Gilson hanno adottato una posizione intermedia (cfr. B. NARDI, in Enciclopedia Cattolica, vol. XI, col. 560 – 562; E. GILSON, D. et la philosophie, Parigi, 1953, III ed.)».

Ora, sia Alberto Magno che T. avevano sostenuto una netta distinzione (non contrapposizione) tra filosofia (che si serve della retta ragione) e teologia (che si fonda sulla fede) e in ciò non erano discordi con Sigieri; mentre, soprattutto T. aveva avversato l’elemento averroistico forse sostenuto da Sigieri e specialmente la dottrina dell’unità dell’intelletto possibile. Invece, per quanto riguarda la sua dottrina della distinzione tra filosofia e teologia T. era distante da san Bonaventura e dal vescovo di Parigi Stefano Tempier ma era vicino a Sigieri.
Dal canto suo, D. per la questione dei rapporti tra filosofia e teologia era piuttosto vicino a T. e dunque a Sigieri e secondo Foster anche questa sarebbe una ragione per la quale avrebbe fatto parlare Sigieri a favore di san Francesco (Paradiso, X, 133).

Ora se due studiosi di storia della filosofia medievale e filosofi/teologi di professione come padre Mandonnet e monsignor Van Steenberghen hanno avuto due opinioni radicalmente contrarie su Sigieri (al quale il primo ha dedicato tre anni di studi per scrivere un libro su di esso, facendone un eretico averroista, mentre il secondo addirittura undici anni, facendone un filo/tomista), circa seicento anni dopo la sua condanna; D. che era un sommo Poeta ma un semplice studente di filosofia, che per di più scriveva il suo Poema (1307 – 1320) sùbito dopo le vicende che videro coinvolto il Sigieri e T. (1277) non poteva essere scusato dell’aver messo Sigieri in Paradiso?


La formazione filosofica di Dante e il tomismo

Per quanto riguarda la formazione filosofica di D. padre Foster ammette che «poco sappiamo sulle circostanze esterne dei contatti di D. con il tomismo. L’allusione di Cv II, XII, 7 ci permette solo di congetturare che il suo desiderio per una cultura filosofica anche se non professionista dovette porlo in contatto con i domenicani di Santa Maria Novella, dove si tenevano regolari letture di filosofia aperte, sembra, anche ai laici». Insomma, siamo in presenza di congetture e non di certezze assolute e di un desiderio di D. di farsi una cultura filosofica e per nulla di una sua conoscenza professionale della filosofia tomistica

Perciò «sarebbe avventato presumere in D. una vasta conoscenza delle opere di T. (eccetto forse i commenti ad Aristotele). […]. È molto probabile che la conoscenza diretta dei commenti aristotelici di T. da parte di D. sia stata più estesa che non quella delle altre opere dell’Aquinate» (Foster).

Innanzitutto D. studiò e conobbe Aristotele grazie ai commentari di T.; infatti, le citazioni dantesche di Aristotele sono spesso più vicine al testo dei commenti di T. che non al testo dello Stagirita.

Tuttavia, ogni lettore di Paradiso X – XIII converrà con Gilson che «non si può dubitare del fatto che D. ammirò e amò profondamente T. ma ammirò e amò anche Aristotele, Virgilio, Boezio. Cos’è» si chiede padre Foster «che caratterizza la considerazione di D. per T.?».

Innanzitutto D. studiò e conobbe Aristotele grazie ai commentari di T.; infatti, le citazioni dantesche di Aristotele sono spesso più vicine al testo dei commenti di T. che non al testo dello Stagirita.


San Tommaso e la sua capacità di distinguere

In secondo luogo T. fu per D. anche un maestro di metodo di studio e di apprendimento della verità.

Foster scrive: «D. vide in T.  un supremo modello di discrezione […], cioè l’abilità di conoscere l’ordine di una cosa all’altra, in modo da saper “discernere” e operare distinzioni».
Ora questa capacità di discernere o riuscire a comprendere, di saper distinguere un’affermazione da un’altra spesso manca a noi che facciamo di Dante o un Santo o un averroista, un esoterista, un cavouriano.

Padre Foster, molto esperto di tomismo e profondo conoscitore di D., ci spiega come il Poeta mettesse in guardia dal pericolo della «presunzione con la conseguente irriverenza [mancanza di rispetto, ndr] o tracotanza».


Tommaso modello di vita cristiana

Insomma D., arrivato alla soglia della conversione e della ricerca della verità, rifuggiva «i presuntuosi sul piano intellettuale, i troppo sicuri di sé, i vanagloriosi, i precipitosi nel giudicare su questioni che oltrepassano le loro capacità o che richiedono uno studio lungo e accurato» (Foster).

In breve D. prende la figura morale e intellettuale di T. «a simbolo e a ideale di “discernimento”, di un uso della ragione che fosse conforme alla natura e ai limiti di essa».

Nei canti X – XIII del Paradiso la figura di T. è chiaramente presentata da D. come un esempio. Egli «è il buon frate T.» quale D. vide a ammirò e quale si augurò che vedessero e ammirassero i suoi lettori.

Insomma il fatto che D. abbia presentato Sigieri in Paradiso celebrato da T., non è letto da Foster come una professione ereticale di averroismo da parte del Poeta, ma soltanto come un voler mostrare che la teologia o la fede (T.) e la filosofia o la ragione (Sigieri) potessero avere buoni rapporti di subordinazione della seconda alla prima, per quel procedimento umano che è il raziocinare con la raccomandazione di operare distinzioni.


I “duo ultima”


Nel De Monarchia (1310-1313) D. affronta in maniera averroistico/ghibellina questo tema, in cui studia la questione del fine temporale e delle cause seconde. Infatti, Dio resta quasi in secondo piano tranne quando si tratta di rilevare che Egli dà direttamente l’autorità all’imperatore, senza che essa passi attraverso il Sommo Pontefice.
Anche nel Convivio (1303-1308) D. aveva affrontato questa problematica. Secondo D. l’uomo, avendo un’anima immortale e un corpo mortale, i quali sono coessenziali alla natura umana, è assieme mortale e immortale, perciò ha due fini ultimi (“duo ultima”).

L’autorità dell’Imperatore lo aiuta, in quanto essere mortale, a raggiungere il suo fine naturale o temporale. Perciò «qui, per D., l’uomo, in quanto essere mortale, ha un suo fine strettamente naturale e umano e che umani saranno anche i mezzi con cui raggiungerlo» (Foster).

Questa non è la tesi tomista e neppure cattolica, basta leggere il De regimine principum  di T. (I, 14).

Il fine naturale dell’uomo è subordinato a quello spirituale, tra natura e grazia c’è distinzione ma in cooperazione subordinata dei fini; ossia di quello temporale che è il fine prossimo e deve aiutare l’uomo a conseguire il fine ultimo soprannaturale, che è quello remoto. Per T. il fine ultimo remoto dell’uomo anche come animale sociale o politico è la visione beatifica di Dio. Per questo motivo i domenicani allievi dei T. (per esempio Guido Vernani da Rimini, De reprobatione Monarchiae) attaccarono la Monarchia dantesca e a ragione.

Ora, il problema che ci interessa qui è quello di sapere se anche nella Divina Commedia (1310-1320) D. abbia insegnato questa tesi averroistico/ghibellina sui rapporti tra ordine temporale e spirituale oppure se ne fosse allontanato per aderire alla tesi cattolica come fu insegnata anche da T. 

Secondo Bruno Nardi (D. e la cultura medievale, Bari, 1942; ID., Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli, 1966) la Commedia differisce per quanto riguarda il tema della politica e dei rapporti tra Papato e Impero sia dal Convivio che dalla Monarchia.
Invece secondo padre Foster la differenza tra le due opere giovanili e la Commedia è solo una questione di tono ma non di sostanza (The Life of St. Thomas: Biographical Documents, 1959).

Tuttavia il medesimo Foster spiega che «quanto al mutamento d’impostazione mentale e di atteggiamento nella Commedia, basterà riferirci al ruolo di Virgilio nel poema, totalmente determinato dall’intervento soprannaturale di Beatrice in aiuto di D. e totalmente diretto alla salvezza soprannaturale di quest’ultimo. Nella prospettiva della Commedia l’intero significato della vita terrena  consiste nella volontà mediante cui l’uomo, su questa terra, decide di volgersi verso la vita eterna».

Mi sembra che la differenza tra la Commedia e le due opere giovanili non sia soltanto una questione di tono, ma rappresenti una prospettiva essenzialmente diversa, poiché nel poema dantesco si fa esplicitamente del Cielo il fine ultimo remoto dell’uomo, al quale ogni cosa è ordinata e subordinata.

Conclusione

Lungi dal voler santificare D. si deve tener per fermo che egli fu sostanzialmente un poeta, che in quanto tale si servì anche della filosofia e delle teologia, senza averne una conoscenza specialistica.

La Commedia sostanzialmente ricalca la dottrina della Chiesa sui novissimi: ossia l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso.

Vi possono essere dei punti di dubbia interpretazione riguardo a qualche versetto o personaggio del Poema (sui quali i critici ancora stanno disputando), ma la sostanza di esso ricalca l’itinerario che porta l’anima a Dio.

Per terminare mi piace citate Benedetto XV, che nell’Enciclica In praeclara (30 aprile 1921), spiega:

«Nella gloriosa stirpe dei geni, che (...) fanno onore al cattolicesimo (...) particolarmente nel campo delle lettere (...) occupa un posto particolare Dante Alighieri (...). Nella Divina Commedia (...) sono esaltate, la SS. Trinità, la Redenzione (...) compiuta dal Verbo di Dio (...), l’immensa bontà e la generosità della Vergine Maria, (...) la beatitudine Celeste degli eletti; infine, tra paradiso e inferno, il purgatorio: la dimora delle anime, che una volta consumato il periodo dell’espiazione, vedono schiudersi il Cielo davanti a loro (...). Egli chiama la Chiesa “la tenerissima madre”».


NOTE

1 - Anche padre Cornelio Fabro presenta D. come un dilettante nello studio della filosofia.
2 - Sigieri studiò alla Sorbona tra il 1255 e il 1257, poi insegnò presso la medesima università, ma incappò nella condanna dell’averroismo lanciata dal vescovo di Parigi Etienne Tempier nel 1270 e 1277. Nel 1277 gli fu proibito l’insegnamento e fu convocato dall’inquisitore di Francia Simon du Val, per fuggire all’inquisizione Sigieri si rifugiò a Orvieto, che allora era residenza del papa Martino V e si appellò alla sua sentenza. Rimase a Orvieto in attesa della sentenza papale ma fu pugnalato dal suo segretario, probabilmente divenuto folle e fu ucciso. Le interpretazioni di Siegieri sono assai discordanti anche in ambiente cattolico e persino tomista. Per esempio padre Pierre Mandonnet (Siger de Brabant et l’averroisme latin au XIIme siècle, 2 voll., 1908-1911) lo riteneva un eretico, formalmente averroista; invece monsignor Fernand Van Steenberghen (Siger de Brabant d’après ses oeuvres inédites, 2 voll., 1931-1942) non lo riteneva né averroista né eretico, vedendo addirittura nelle sue opera un’evoluzione gradualmente progressiva verso il tomismo. Bruno Nardi ed Etienne Gilson si discostarono dallo Steenberghen, tuttavia non aderirono neppure alla tesi di Mandonnet. Le sue opere sono databili dal 1265 al 1276. Quello che è certo è che il suo pensiero sia stato fortemente aristotelico, non senza influenze platonizzanti, averroiste, di Proclo e di Alberto Magno. Sigieri studiando filosofia si lascia guidare dalla ragione naturale e non dalla fede. Inoltre non si è mai occupato di teologia. Se lo paragoniamo a T. su questo punto dobbiamo constatare l’identità di metodo nel distinguere tra ragione e fede senza contrapporle, mentre circa l’oggetto delle loro ricerche la differenza è enorme poiché T. si è occupato di filosofia come ancella della teologia, pur essendo da lei distinta. Tuttavia, è del tutto lecito studiare solo la filosofia, senza negare la validità della teologia. 










novembre 2022
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