DANTE E SAN TOMMASO D’AQUINO

Commento a Don Curzio Nitoglia



di Luciano Pranzetti






Tempo fa, Don Curzio Nitoglia ci trasmise un suo saggio, relativo al rapporto Dante/San Tommaso d’Aquino, chiedendoci un parere. E noi, davanti a simil invito, abbiamo tentato di metter su un commento che fosse degno di comparire a fianco del suo elaborato.
Ora, con sommo piacere, lo leggiamo, esposto su questo sito e tale circostanza ci offre l’occasione di rendere pubblico il nostro parere dopo averlo fatto noto a Don Curzio.

Nel suo saggio egli espone gli studi di Foster e di Nardi, due dantisti di acuta capacità indagativa a cui rendiamo il nostro reverente riconoscimento. Pur tuttavia sia lecito e permesso, anche a noi, semplici filodantiani, cogliere nelle loro opere, qualche passo di debole argomentare perché “quandoque bonus dormitat Homerus”.

Per Foster, come per Nardi, parlare di Dante filosofo/teologo è un’imprecisione stante la sua preminente identità di poeta. Noi crediamo, invece che tale affermazione possa e debba essere capovolta nel senso che il nostro sia da considerare filosofo/teologo che tratta le due scienze in forma metrica così alta e profonda da offrire al mondo un prodotto che, dopo la Bibbia, è uno dei testi più stampati e studiati.
Filosofia, nella sua primaria accezione vuol dire “amore per il sapere” che, per la funzione sua intrinseca fornisce le regole – noetiche, logiche, lessicali – per poter compiere il fine stabilito nella sua etimologia. Intendiamo, con ciò, rappresentare la filosofia quale strumento atto a pervenire alla esatta formulazione di qual che sia il pensiero sopra determinati argomenti, soprattutto quelli che trattano della Divinità.
La filosofia fu definita, nel M. E. “ancilla theologiae” – e a ragione – in quanto la scienza del divino, nei suoi procedimenti esplicativi, adotta forme espressive – grammaticali, sintattiche, retoriche, dialettiche – che sono i costitutivi di base del “corpus philosophicum” e del “cursus loquendi”.
Con simili presupposti, noi affermiamo esservi una geneticità metafisico-teologica che s’innerva nella Divina Commedia proposta in forma poetica.
Le tre cantiche, già nella loro esterna formalità – canti in terzine, terza rima, 100 canti (1+ 33 +33+33) – sono funzionali all’omaggio adorante per la S. S. Trinità (tre Persone uguali e distinte costituenti un solo Dio) vista secondo l’ortodossa dottrina cattolica.
Non si legge canto che non sia diretto o indiretto riferimento a un dogma, che non riporti passi della Scrittura (V. e N. T.) o che non citi autorità patristiche e scolastiche.

Padre Foster ritiene cosa avventata il presumere, nel Poeta, una vasta conoscenza del tomismo. Al contrario: nella nostra organica rassegna sulla contiguità culturale della Commedia ai tre luoghi teologici - Scrittura, Patristica, Scolastica - abbiamo catalogato ben 688 corrispondenze tomistiche, e non semplici e vaghi richiami ma, per lo più, segmenti, porzioni, intere definizioni della Summa Theologiae prese e organate in metro endecasillabo.
Quanto alla conoscenza zoppa delle opere aristoteliche, mediata da Cicerone, da san Tommaso, è questione ovvia: Dante non conosceva il greco.

Dante filosofo e teologo? Sì, perché la D. C. è un trattato di escatologia, tematica che non si affronta se non si possiedono vasta, perspicua e pregiata cultura e pertinenti conoscenze per cui non si dà esposizione dogmatica che non sia sorretta e giustificata da un’armatura verbale di alta e consentanea qualità semantica, sintattica e lessicale.
Si esamini la perfetta conduzione del discorso, (Par. XI – XII – XIII- XXV – XXIV - XXVI – XXVII) in cui emerge la preminenza della teologìa sulla filosofia.
La cosa sarebbe immediata e palese se la D. C.  fosse scritta in prosa ché l’alta, ineguagliata forma poetica, in quanto tale, attira e rapisce l’attenzione del lettore che, ammirato, ristagna nell’analisi linguistica – retorica, lessico, ritmo, musicalità - rimandando al poi l’esame del pensiero teologico. Similmente ci si comporta con I PROMESSI SPOSI di cui si considera più l’ammirevole architettura linguistica che il messaggio etico e sociale. 

Non si è buon teologo se non si è prima un eccellente filosofo. Sant’Agostino, Sant’Anselmo, San Tommaso, Sant’Ireneo, e molti grandi teologi, rappresentano questa condizione tanto è vero che le loro opere sono annesse e studiate anche come testi di filosofia. Dante è un eminente teologo e, per conseguenza, anche un filosofo che, seppur classificabile quale ‘aristotelico’ si può legittimamente considerare un particolare ed originale caposcuola.

Ed eccoci al punto nodale: Dante averroista. Il sospetto che trapela dall’opera di padre Foster scaturisce dal riferimento a Sigieri da Brabante che san Tommaso colloca nella prima duodena ghirlanda non senza dichiararne la motivazione (Par. X, 133/138). Ma per chiarire i termini di questa operazione – apparente ‘crux dantiana’ che è, si badi, condotta, sì, da san Tommaso, ma che, come tutti i personaggi della Commedia, dice e riferisce ciò che è pensiero dell’autore, cioè Dante stesso - dobbiamo risalire all’origine e, cioè, al filosofo Ahmad ibn Rušd, conosciuto in occidente come Averroè. Di costui è nota la vulgata della “doppia verità”, dottrina che si è tentato di cucire non solo su Sigieri ma anche su Dante medesimo, specialmente attraverso le due opere: Convivio e De Monarchia.
Nonostante il sospetto di eresia, Averroè non ritiene la ricerca filosofica in contrapposizione con la scienza religiosa. Egli è convinto che la religione dei filosofi consiste nell’approfondire lo studio di ciò che esiste e questo è il modo migliore di rendere gloria a Dio, conoscere le sue opere per poter maggiormente conoscere Lui. La ricerca filosofica è un cammino lento, difficoltoso – ad astra per aspera – e non è per tutti sicché la religione del filosofo non potrà mai essere la religione del volgo.
Alla filosofia spetta il mondo della speculazione, alla religione quello dell’azione. Due aree non contrapposte o indipendenti, ma complementari e congiunte che, nella funzione dialettica, concorrono a un solo fine: la verità. Il filosofo la cerca nel processo logico, il credente la trova nella tradizione religiosa per cui se ne deduce essere la verità una sola.
Non è, pertanto, corretto, attribuirgli la predetta dottrina della doppia verità che i contemporanei, e larghi settori della cultura moderna, ritennero, e ritengono, l’eminenza del suo pensiero.

Per tali motivi, non ritengo, Dante, un patentato averroista e se lo fu, lo si deve intendere nel senso sopra espresso per Averroè, nunzio di una sola verità.
Ciò che appare corretto oggi, dunque lo fu anche a Dante il quale, nella Monarchia, dopo aver vagato - nel primo e secondo libro - per due sentieri paralleli ma indipendenti, Impero e Papato, conclude, nel terzo, ammettendo e annunciando la legittimità dell’Impero derivata Dio stesso ma un po’ subordinata al Papato concorrendo, in tal modo, ad assolvere ciascuno il proprio compito, il raggiungimento: 1) della felicità in terra per mezzo della filosofia (Imperatore); 2) della felicità eterna per mezzo della teologia (Papa). Contraddizione o non, piuttosto, un processo di crescita successivo alla morte (1313) di Arrigo VII di Lussemburgo e coevo alla stesura della D.C. intrisa di tomismo?

Sigieri? Va da sé che, inconsistente essendo l’accusa di eresia nei confronti di Averroè - e tale già apparsa a San Tommaso e a Dante – il professore del Vico degli Strami, meritasse il Paradiso non soltanto per aver insegnato la dottrina dell’unica verità (Par. X, 137/138) ma per aver sofferto, per questo, false accuse di eresia, l’invidia e le umiliazioni del mondo accademico e, in un contesto di diffusa ostilità, per averci perso la vita.
Tutto ciò era noto a san Tommaso e a Dante.

Un grazie sincero a Don Curzio che ci ha offerto l’occasione di entrare – ritenendoci capaci - in un discorso di alta pregnanza per il quale nutriamo una trepida speme d’esser riusciti a cavar qualcosa di buono e di corretto, a gloria della nostra maggior Musa.

De hoc satis.

Settembre 2022







novembre 2022

AL SOMMARIO ARTICOLI DIVERSI