ALESSANDRO MANZONI

INNI SACRI


IL NATALE


di Luciano Pranzetti





 




Il silenzio che, da tempo sta, come pesante e torpida coltre, lentamente affievolendo la voce del più grande – post Dante - letterato italiano, e diciamo Alessandro Manzoni, ci induce ad allestire una serie di commenti accosto alle sue composizioni più elevate, più espressive ed ancora, più ferventi: gli INNI SACRI. Il nostro intento è quello di chi è seriamente consapevole della necessità di dare luce a una oscura, buia, tetra epoca che, dimentica dell’opera degli antichi Padri, con insipiente disinvoltura scioglie inni all’effimero.

E non ci riferiamo tanto a una produzione poetica, diciamo laica, la cui cifra marca un totale minimalismo di contenuto e di forma, quanto a un lirismo religioso di mediocre anelito quale si nota nei canti eseguiti, ad esempio, durante la santa Messa.

Ed allora, sicuri e certi di compiere cosa degna e giusta, ci apprestiamo al commento del primo inno sacro, il Natale che, pubblicato sul sito www.unavox.it, può essere oggetto di valutazioni che i lettori possono esprimere sulla nuova rubrica: “La tribuna dei lettori”. La stessa composizione viene pubblicata sul quindicinale antimodernista www.sisinono.


IL NATALE

Composto tra il 15 luglio e il 29 settembre 1813, poi profondamente riveduto. Strofe settenarie doppie, costituite di due parti di sette versi ciascuna: sdruccioli, sciolti il primo e il terzo, piani a rima alterna il secondo e il quarto, a rima baciata il quinto e il sesto, tronco il settimo.

L’inno può considerarsi costruito in tre parti: la prima (strofe 1-8) in funzione preparatoria, in cui l‘autore mette a fuoco la pietosa e bassa condizione umana, successiva al peccato edenico, a cui si contrappone la misericordia divina che, pur di inaccessibile altezza, scenderà porgendo soccorso; la seconda (strofe 9-14) dove l’autore descrive - seguendo il racconto di Luca (2, 6/17) - la nascita di Gesù, la Vergine Madre, il coro angelico, i pastori; la terza (strofe 15-16) che conclude con l’espressione di una finale certezza che quell’umile bambino sarà riconosciuto Re.
Una solenne similitudine, che l’autore prende a prestito da Virgilio (1), apre uno scenario in cui si rappresenta la condizione umana, così come si trova dopo il peccato originale: un masso che, staccatosi dalla cima del monte “per lo scheggiato calle”, precipita nel fondo della vallata e lì rimane inerte, senza speranza di rivedere il sole della vetta a meno che una forza amica non lo riporti in alto. Più realistico paragone – lo stato di profonda immobilità del progenitore e il fragoroso precipitare di un masso a cui segue un silenzio cosmico – non poteva darsi:  un capolavoro retorico.

Fervono, nella prima strofa, due luoghi poetici – la cima di un monte o di un colle e la valle – che esprimono rispettivamente la quota di altitudine quale stato di grazia illuminata e la bassura quale stato di peccato. Sono i due toponimi che Dante inserisce all’inizio della Commedia – la valle oscura / il colle – termini che ben si adattano, nell’inno manzoniano, a descrivere la rovinosa caduta dell’uomo, dopo il peccato di Adamo. Siffatta metafora è motivo per illustrare ed ammirare la paterna misericordia di Dio e il soccorso recato, all’uomo peccatore, dal Figlio stesso di Dio.

Dopo una disamina teologica sull’impotenza dell’umanità, incapace a risollevarsi con le proprie forze - richiamo al passo evangelico: “Senza di me non potete far nulla” (Gv. 15, 5) – l’autore, con versi commossi, vivi seppur sussurrati, descrive l’evento miracoloso della nascita di Cristo con un empito poetico che trasforma la lode celebrativa nel coro degli angeli, in cielo, e in trepida contemplazione dei pastori, in terra. Sei interrogativi puntellano altrettante questioni - le cui risposte sono già di per sé contenute nelle domande - riferite all’impotenza dell’uomo a riparare il danno. Ed infatti, chi poteva rivolgersi all’inaccessibile Signore e dirgli: perdona? Chi poteva stabilire un nuovo patto di amicizia? Chi poteva strappare a Satana la sua preda? Nessuno, tra i “nati all’odio”. Ed ecco che, dopo la giustizia, il Padre con infinita misericordia, manda il salvatore, il Figlio, a Lui coeterno, di cui il poeta dichiara l’immensità tale che nessun tempo può vantarsi di averlo accolto, tale che “del vasto empiro/non ti comprende il giro” (2).

Nelle sette strofe della prima parte (1-8) l’autore dispiega due concetti, meglio, due realtà contrapposte: lo stato di impotenza dell’umanità post lapsum, e l’inaccessibilità del Creatore. Sono versi scolpiti a tutto tondo, con magistrale efficacia, che rendono plasticamente in rilievo le due realtà, versi in cui si manifesta tutta la commossa gratitudine di che il poeta è testimone laddove, all’ottava strofa, conclude questa prima parte col riconoscere la gratuità del soccorso divino e col domandarsi: “E tu degnasti assumere/questa creata argilla? / qual merto suo, qual grazia/a tanto onor sortilla? (3) significando, da una parte, l’amore di Dio per l’uomo – sua creatura – e dall’altra l’importanza che l’uomo stesso riveste agli occhi del suo Creatore. E a tal proposito, viene alla mente la vivace e commossa espressione agostiniana: “O felix culpa quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem!” = o felice colpa, che meritò di avere un tale e così grande Redentore! – paradossale in sé ma che dice bene come il capovolgimento evolutivo, col quale si celebra la colpa originale mutata in fortunata contingenza, la renda motivo di letizia per avere indotto il Figlio ad incarnarsi – condividendone ogni aspetto - nella miseria umana.

Nella seconda parte (9-14) lo scenario cambia sì che, da un discorso di ampio respiro dottrinario, si passa alla fase descrittiva dell’evento in cui il poeta annuncia: la nascita di Gesù ad Efrata (Betlemme) dove la Vergine compie la sua missione materna poi che “grave di tal portato/da cui promise è nato/donde era atteso uscì” (4); Maria che, “soavemente pose” (5) il Figlio in poveri panni, si prostra in adorazione; i cori angelici, i pastori che unici e primi “senza indugiar, cercarono/l’albergo poveretto/. . . videro in panni avvolto/ in un presepe accolto/vagire il Re del ciel” (6).

Nella terza parte (15-16) il poeta si rivolge al Fanciullo e, con paterne, tenere parole, auspica un sereno riposo che turbare “non osin le tempeste/use sull’empia terra/come cavalli in guerra” (7). Il mondo non sa chi nato sia, ma verrà il giorno – conclude l’autore – in cui, a Te che nascesti deposto in una mangiatoia, quel mondo che ti ignora, sarà dato in eredità regale (8). Esso diverrà la Tua Santa, Cattolica, Apostolica e Romana Chiesa fuori della quale non v’è salvezza.

Non si può non concordare con quanti ritengono questo inno sacro l’espressione di una poesia che fluisce su un pacato sviluppo tematico, ben articolato e, soprattutto prodotto di un’alta ispirazione in cui si legano, in vincolo congruente, commozione e dottrina.

Ci si passi la seguente riflessione: un “inno” è tale in quanto espressivo di una forza che lo rende altisonante, cadenzato, consentaneo alla musicalità corale, robusto e, per certi versi, marziale. Gli “Inni Sacri” di Alessandro Manzoni, esprimono, invece la tendenza alla meditazione silenziosa, eppure, l’autore, li ha così denominati. Contraddizione? No, poiché dell’inno essi possiedono una forte tensione al mistero veicolata da una sapiente e fervida semantica con che si ha l’impressione, leggendoli nel silenzio, di un solenne, cosmico “alleluja” che il pio lettore avverte in sé. Effetto che si produce anche quando vengono letti e commentati in pubbliche manifestazioni nelle quali, alla voce del lettore, fa corona il silenzio dei presenti nella cui mente risuonano, amplificati, i versi sacri.

È tempo di Avvento, periodo di preparazione e di attesa durante il quale la comunità cattolica “vive” l’imminente nascita di Gesù meditandone il mistero, nel raccoglimento interiore, nella dimensione del silenzio. Allo scopo di conferire alle prossime festività il vero significato del Natale, eraso completamente da una devastante visione commerciale, proponiamo, da queste colonne, la lettura del Natale manzoniano, da tenersi nelle famiglie, quale antidoto a una progressiva, tossica laicizzazione della tradizione cattolica.



NOTE

1 - Virgilio – Eneide XII, 684/689: “Ac veluti montis saxum de vertice praeceps” = Come un masso che precipita dalla
       vetta del monte.
2 -  I Re, III, 8: “Si enim caelum et caeli caelorun te capere non possunt” = Se, infatti il cielo e tutti i cieli non Ti possono
        contenere.
3 -  Dante – Purgatorio VII, 19: “qual merito o qual grazia mi ti mostra?” – Paradiso, XI, 109: “Quando a Colui ch’a tanto ben sortillo”.
4 -  Dante – Purgatorio, XX, 24: “dove sponesti il tuo portato santo” – Paradiso, XVI, 36: “ s’alleviò di me ond’era grave”.    
5 -  Dante – Purgatorio I, 125: “soavemente ‘l mio maestro pose”.
6  - Vangelo – Luca, 2, 16: “Et venerunt festinantes et invenerunt Mariam et Joseph et infantem positum in praesepio” = E vennero in fretta e trovarono Maria, Giuseppe e il bambino deposto in una mangiatoia.
7 -  Gioele 2, 4: “Quasi aspectus equorum aspectus eorum, et quasi equites sic current” = il loro aspetto era quello di Cavalli e come cavalieri correranno.
8 -  Salmo 2, 8: “Postula a me et tibi dabo gentes hereditatem tuam” = Chiedimi e ti darò in eredità i popoli.








dicembre 2022
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