I vescovi della “continuità” verbale ma non reale

Carlo Colombo




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Nacque a Olginate in provincia di Como il 13 aprile del 1909. Insegnò teologia dogmatica al Seminario di Seveso (Milano), di Venegono (Varese), infine alla Facoltà Teologica Milanese.

Negli anni Cinquanta ebbe dei problemi col S. Uffizio (conditio sine qua non per far carriera negli anni Sessanta), p. Raimondo Spiazzi nella primavera del 1954 in qualità di “visitatore apostolico”, ispezionò i seminari milanesi, i cui professori erano assai progressisti soprattutto in campo politico-sociale, invitavano alla collaborazione tra cristianesimo e socialismo, erano per la maggiore autonomia del temporale dallo spirituale, ossia per la separazione catto-liberale tra Stato e Chiesa. «Carlo Colombo era ritenuto un pioniere di “sinistra” e scriveva sotto pseudonimo (1). Durante il Pontificato di Pio XII era stato inquisito dal S. Uffizio e non era riuscito ad evitare sanzioni. Ancora sotto Giovanni XXIII gli venne impedito di insegnare teologia morale, e solo per le continue pressioni del card. Montini riuscì a diventare consultore della ‘Commissione Dottrinale Preparatoria del Concilio’» (2). Nel 1960 venne nominato da Giovanni XXIII membro della ‘Commissione Teologica Preparatrice del Concilio’, di cui poi diverrà perito. Colombo non ha mai ritrattato le idee per le quali venne condannato nel 1954, ma grazie ad esse è stato nominato “perito del Concilio”. Anche qui come per i teologi del nord-Europa, sospesi dall’insegnamento e condannati dalla Humani generis di Pio XII (12 agosto 1950), non si vede continuità, ma rottura, in quanto il condannato sino a Pio XII è stato promosso e il promosso sino a Pio XII è stato poi sconfessato o addirittura condannato, nel Concilio e nel post-Concilio (3).

Colombo nel 1964 fu consacrato vescovo e svolse sempre di più un’intensa attività di consigliere teologico di Paolo VI. Nel 1969 venne nominato membro della ‘Commissione Teologica Internazionale’. Fu vescovo ausiliario degli arcivescovi di Milano Giovanni Colombo e Carlo Maria Martini. Nel 1991 l’11 febbraio morì all’età di 82 anni.

I periti d’oltralpe durante il Concilio, specialmente nel corso del pontificato di Giovanni XXIII, non capirono subito la personalità di mons. Colombo e - siccome era italiano - tendevano a classificarlo automaticamente come conservatore e filo-romano. Poi, dopo la morte di papa Roncalli e con l’elezione di papa Montini, nel corso dei lavori conciliari si accorsero che egli era il teologo “ufficioso” e “quasi segreto” di Paolo VI (come Bea lo era stato di Roncalli) e si avvalsero della sua mediazione personale e “discreta” presso il Papa per le operazioni più delicate.

Ad esempio «Monsignor Colombo si preoccupò innanzitutto dei vescovi che parevano più angosciati dal pericolo di un allontanamento dalla Tradizione, e per questo avrebbe partecipato ad incontri con rappresentanti dell’ala tradizionalista dell’assise conciliare» (4). Anche qui “nihil sub sole novi”, quel che stupisce è l’ingenuità con cui, ancora oggi, alcuni credono alle buone intenzioni di Benedetto XVI nel colloquiare con gli antimodernisti dopo cinquanta anni di inganni e promesse non mantenute.

Jan Grootaers, professore di ‘Scienze religiose’ all’Università di Lovanio, ci informa che la sua figura era discreta anzi «addirittura schiva [e] fu poco conosciuta dal grande pubblico del Concilio. Essa nascondeva però una fortissima personalità, la cui propensione alla riservatezza andò ulteriormente aumentando quando da consigliere e amico di monsignor Montini divenne improvvisamente, nel 1963, il “teologo personale” – e sotto certi aspetti clandestino – di Paolo VI. Un aspetto di questa “clandestinità” consisteva, ad esempio, nel fatto che mons. Colombo, diversamente dai consiglieri di Curia, veniva ricevuto al di fuori delle udienze ufficiali e senza alcuna forma di pubblicità» (5).

La sua teologia era caratterizzata da un forte orientamento ecumenista, da un’ecclesiologia aperta alla collegialità episcopale, egli era nettamente contrario alla scuola romana di teologia e guardava al nord Europa, ossia alla nouvelle théologie. Durante il Pontificato montiniano divenne ufficiosamente “centrista” o “estremista di centro” (Groaters), vale a dire anticipò (“così fan tutti”) la dottrina dell’ermeneutica della continuità, che è vecchia quanto Paolo VI, il quale già durante il Concilio ed esattamente nel settembre-ottobre del 1964, durante il periodo “buio” - come lo chiamano i novatori - in cui l’offensiva del Coetus Internationalis Patrum e dei cardinali più antimodernisti della Curia romana si fece sentire più fortemente, disse che la collegialità doveva essere letta “in connessione con il Concilio Vaticano I” (il quale invece è l’apoteosi del Primato monarchico del Papa e dunque l’esatto opposto della collegialità episcopale), del quale il Vaticano II è “la continuazione logica” (6).

Inoltre, sempre Paolo VI in quest’ottica dell’apparente continuità il 18 novembre 1965 informò il Concilio che «sarebbe stata introdotta la causa di beatificazione di Pio XII e Giovanni XXIII» (7). Jan Grooaters ci spiega che «una delle maggiori preoccupazioni» Paolo VI «fu la preparazione dei fedeli, ma soprattutto dei preti, alla ricezione del Concilio: più degli altri, egli aveva già allora compreso che il destino del Vaticano II si sarebbe giocato negli sviluppi post-conciliari. […]. Dalla necessità di riformare la Curia romana, di convertirla in qualche modo al Concilio, ma nello stesso tempo di rassicurarla… […]. Gli toccò a volte svolgere un compito di sentinella, tenendo, in alcune circostanze, rapporti più stretti con l’opinione pubblica della Chiesa che con il Concilio e la Curia […] per assicurare il più possibile la continuità richiesta dal post-concilio. […]. Prevedendo le future cause di tensione, Paolo VI volle dare all’attuazione del rinnovamento un ritmo per quanto possibile Uniforme, esortando i ritardatari ad affrettare il passo e moderando l’impazienza di chi voleva troppo precorrere i tempi. […]. Il Papa appariva preoccupato di fare qualche concessione alla corrente minoritaria [anti-modernista], per ottenere nella votazione finale un risultato il più possibile vicino all’unanimità morale. […]. All’inizio del quarto ed ultimo periodo del Concilio (settembre del 1965), si avvertì che l’azione del Papa aveva assunto un carattere più direttivo, parallelamente all’indebolirsi della leadership della corrente maggioritaria. Si disse allora che “gli eroi erano stanchi” e che i vescovi desideravano tornarsene a casa. […]. Si deve a Paolo VI il merito di aver agito in senso “più progressista” di quanto facesse la maggioranza dei vescovi dell’assemblea conciliare. […]. Bisogna riconoscere che uno dei meriti principali di Paolo VI nei confronti del Vaticano II consistette nel preparare le condizioni per una sua attuazione che si prolungasse nel tempo e che fosse quindi conciliabile con il contesto e gli usi di tutta la Chiesa. In conclusione, Paolo VI sembra che abbia soprattutto cercato di tradurre l’evento conciliare in istituzioni» (8).

Hubert Jedin conclude che attuazione del Concilio sarà possibile «soltanto se i suoi [del Vaticano II] decreti saranno accettati come norme non vincolanti e non come punto di partenza per una rivoluzione teologica ed ecclesiastica che condurrebbe all’autodistruzione della Chiesa» (9). Oggi Ratzinger come Colombo, da teologo progressista negli anni Cinquanta-Sessanta, è diventato vescovo e man mano di centro, poi da cardinale di “estremo centro”, sino a sembrare nell’inizio del suo Pontificato un “centro che guarda a destra”.

L’estremismo è la “malattia infantile” del progressismo e modernismo e inoltre è il suo ruolo istituzionale (non le sue convinzioni personali) che lo ha spinto “al largo” o “al centro” come avvenne per Colombo quando da semplice teologo privato diventò il teologo ufficiale del Papa. “Nihil sub sole novi”.

Durante il Concilio fu molto aperto riguardo alla “Libertà religiosa” (Dignitatis humanae), più prudente su “la Rivelazione e la Tradizione” (Dei verbum), per la questione della morale coniugale era addirittura conservatore de jure ma non de facto, mentre sulla collegialità (Lumen gentium) assunse e giocò il ruolo del “centrista” o della “terza forza” (10) che, riuscì a far accettare agli anti-modernisti – tramite la ‘Nota explicativa praevia’ – la collegialità episcopale (11).

Grootaers continua «Ci sembra che gli “interessi” del Papa siano diventati in lui predominanti dopo la promulgazione della Lumen gentium (novembre 1964), quando il teologo Colombo si fece interprete e difensore di quel testo, valorizzando gli aspetti innovatori contenuti nella Costituzione rispetto al Concilio Vaticano I, ma sottolineando anche quelli più legati alla Tradizione [Nota explicativa praevia]» (12).

Ancor prima dell’inizio del Vaticano II, Carlo Colombo era stato uno dei primi teologi italiani di quel tempo ad affrontare lo studio dei rapporti tra il Papa e i vescovi (Episcopato e primato pontificio nella vita della Chiesa, in “La scuola cattolica”, n° 88, 1960, pp. 401-434). Egli «si oppose in modo radicale a quanti difendevano la teoria, da lui ritenuta fallace, del “soggetto unico e indiviso” del potere supremo della Chiesa, sia nel campo papista (Gagnebet), sia in quello collegialista (Rahner e Ratzinger). Egli sostenne invece una posizione “mista”, che riconosceva due soggetti del potere supremo nella Chiesa: il Pontefice romano in quanto Vicario di Cristo per la Chiesa universale, e il Collegio episcopale, di cui il Pontefice fa parte e di cui è capo per volere divino in quanto vescovo di Roma. Questi soggetti, però, non sono nettamente separati, perché il Papa appartiene anche al secondo» (13).

La stessa tattica “cerchiobottista” la ritroviamo nel suo intervento sulla Dichiarazione per “La libertà religiosa”. Prese la parola il 25 settembre 1964 e all’inizio, per imbonire i conservatori, pose alcuni punti fermi: per esempio l’obbligo di ricercare la verità, ma – per tranquillizzare i progressisti – aggiunse che tutti hanno il diritto di seguire la propria coscienza, anche quando essa è erronea ed anche in foro esterno.

Suensens appoggiò la relazione di Colombo, secondo Grooaters a dire di Colombo stesso, Paolo VI aveva appoggiato a voce il testo della sua conferenza (14). Poi, quando si giunse alle votazioni (21 settembre 1965) e il card. Bea col suo teologo mons. Willebrands non riuscivano ad accettare il testo proposto dai moderatori del Concilio «fu Paolo VI ad imporre il testo del quesito da sottoporre ai Padri, e quel testo fu redatto da mons. Colombo.

Infine, quando durante l’ultima fase dell’esame della Dichiarazione la minoranza [Coetus Internationalis Patrum] moltiplicò i suoi attacchi, mons. Colombo svolse un ruolo fondamentale facendo da intermediario tra l’opposizione e il Papa e viceversa» (15).

Per quanto riguarda la morale coniugale egli lavorò per tre anni all’Enciclica Humanae vitae (25 luglio 1968 (16)), ma già nel 1965 quando i Vescovi e teologi olandesi (Alfrink e Schillebeeckx), protestarono contro l’introduzione in Gaudium et spes al n° 47 § 2 della pericope sull’illiceità dei contraccettivi, Colombo «sostenne che era necessario distinguere tra l’applicazione delle norme in materia di morale coniugale, che spetta alla responsabilità dei singoli cristiani, e la determinazione di quelle stesse norme, che rientrano nel dovere di insegnamento della Gerarchia» (17). Vale a dire il Papa insegna una cosa de jure (illiceità dei contraccettivi), ma sono i fedeli de facto ad applicare o meno secondo la loro coscienza il principio insegnato dal magistero pontificio al caso pratico (e quindi possono usare i contraccettivi se lo ritengono giusto).

Si noti l’analogia e al tempo stesso l’inversione di marcia del processo disgregatore della morale naturale e cristiana divenuta “morale della situazione” condannata già da Pio XII (18) : mentre Paolo VI nel 1965 fece discutere i teologi da lui nominati se fosse lecito l’uso degli anticoncezionali, il quale invece era già stato definitivamente e infallibilmente condannato da Pio XI nella Casti connubi, per poi asserire nel 1968 che non era lecito, quando oramai i “buoi erano fuggiti” e quasi tutti li utilizzavano.

Benedetto XVI nel suo libro intervista Luce del mondo (Città del Vaticano, LEV, 2010) prima inizia con l’eccezione e l’ammissione che “l’uso del profilattico è l’inizio di una certa moralità dell’atto”, ma poi del tutto illogicamente ‘s-conclude’ che per la Chiesa non è lecito l’uso dei esso, lasciando il fedele in una grande confusione mentale e nella posizione di poter opinare che l’uso degli anticoncezionali è lecito, anche se non perfettamente ma solo “inizialmente buono”. Questo modo di agire è semplicemente diabolico! “Il vostro parlare sia sì sì no no. Quello che vi è di più viene dal Maligno” (Mt. V, 37). Il loro modo di parlare invece è: sì no, no sì oppure no sì, sì no e quindi viene dal Maligno come insegna il Vangelo.


NOTE

1 -  T. CITRINI, Uno scritto di Carlo Colombo, pubblicato pseudonimo, in “Scuola cattolica”, n° 120, 1992, pp. 278-279.
2 - J. GROOTAERS, cit. p. 86.
3 -  Il caso più eclatante è quello del card. Ottaviani contestato da 1962 al 1965 (si pensi al 30 ottobre del 1962 quando parlava in aula sulla liturgia ed avendo superato i 10 minuti di tempo, il card. Alfrink gli spense il microfono tra gli applausi dei neomodernisti, v. T. OOSTVEEN, Bernard Alfrink vescovo cattolico, Assisi, Cittadella editrice, 1973, p. 76), e, costretto nel 6 gennaio del 1968 alle dimissioni, accettate da Paolo VI, da pro-Prefetto del S. Uffizio, che però egli avanzò dignitosamente con una lettera il 30 dicembre 1967. D’altronde il S. Uffizio era già stato smantellato con il “motu proprio” Integrae servandae il 6 dicembre 1965 due giorni prima della fine del Concilio, “motu proprio” che venne notificato il 4 giugno 1965 tramite la lettera Post litteras apostolicas. Infine il 15 agosto del 1967, con la costituzione Regimini Ecclesiae universae di Paolo VI (secondo i consigli datagli da Frings e Ratzinger l’8 novembre del 1963), fu espressa la nuova fisionomia della Curia romana post-conciliare. Si noti che il card. Ratzinger il 29 ottobre del 1990 per il 100° anniversario della nascita di Ottaviani (morto il 3 agosto 1978) tenne un discorso di commemorazione (pubblicato su L’Osservatore Romano” de 13 dicembre 1990) molto elogiativo di colui che aveva contestato e mandato in pensione. Qualcuno (sì sì no no *) commentò allora che almeno i farisei facevano i monumenti alle vittime dei loro padri e non alle proprie, mentre i neomodernisti, almeno in ciò, superavano gli stessi antichi farisei in perfidia. Inoltre ancora attende una risposta la “Lettera di presentazione del Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae” di Ottaviani e Bacci, la quale chiedeva l’abrogazione della nuova Messa, in quanto nociva per la Fede. Si elogia e si cerca di presentare in continuità la persona e la dottrina del card. Ottaviani, ma non si risponde alle sue obiezioni sulla nuova Messa, sulla libertà religiosa, sulla collegialità, sulle due fonti della Rivelazione, che mettevano in risalto la rottura con il magistero tradizionale di queste nuove dottrine conciliariste. Ora come si fa ad elogiare chi ti ha accusato di eterodossia, senza emendarsi o confutarlo, ma semplicemente presentarlo in armonia “dialettica” con la Tradizione apostolica? Solo tramite la “coincidentia oppositorum” spinoziana. (cfr. E. CAVATERRA, Il Prefetto del Sant’Uffizio. Le opere e i giorni del cardinale Ottaviani, Milano, Mursia, 1990).
4 - J. GROOTAERS, cit. p. 87, nota 5; cfr. L. BETTAZI, Una presenza interessata alle opinioni e al dialogo, in “Terra ambrosiana”, n° 32, 1991, pp. 17-18.
5J. GROOTAERS, cit. p. 85.
6G. ALBERIGO, Breve storia del Concilio Vaticano II, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 128.
7 -  G. ALBERIGO, Breve storia del Concilio Vaticano II, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 148.
8 - J. GROOATERS, cit., pp. 55, 57-59, 64-65.
9H. JEDIN, Breve storia dei Concili, Roma-Brescia, Hreder-Morcelliana, 1978, p. 284.
10Mons. ANTONIO DE CASTRO MAYER chiama “terza forza” un partito di ecclesiastici del XVIII secolo, che svolsero il compito di fornire alla “quinta colonna” giansenista, infiltratasi e nascostasi nel cuore della Chiesa, ma, da Essa poi scoperta e condannata come eretica, la possibilità di restare ancora, con alcuni suoi membri incogniti e coperti dalla “terza forza”, nella Chiesa ed agire nell’ombra senza essere riscoperta da Roma (come farà nel Novecento il modernismo, qualificato da s. Pio X nel “motu proprioSacrorum Antistitum del 1° settembre 1910 “clandestinum foedus” ossia “società segreta”). La “terza forza” non si dichiarava apertamente giansenista, ma proteggeva i giansenisti ed inclinava al giansenismo anche se mitigato, costituendo una specie di “chiesuola dentro la Chiesa”. Essa si avvaleva del falso principio che la pace è il sommo valore e quindi occorreva assicurarla ad ogni costo, anche mantenendo e tollerando per principio dentro la Chiesa gli eretici e non riportandoli alla dottrina integralmente cattolica. La Congregazione dell’Oratorio francese del card. de Berulle fu una fucina di “terza-forzisti”, mons. De Castro Mayer concludeva: «Quanto sono nefaste le conseguenze di una pace da palude. La pace è vera solo se è alimentata dalla verità e dalla retta Fede. In caso contrario è un’apparenza di tranquillità, sotto la quale, la divisione delle dottrine alimenta convulsioni talora vulcaniche». ( in “Cristianità”, n° 1, 1973, pp. 3-4; n° 2, 1973, pp. 3-4). Fu proprio così che il “Papa della Pace” alimentò un’esplosione tsunamica la quale divampò durante il Vaticano II ed ancor oggi non cessa di eruttare errori e blasfemie. Cfr. E. APPOLIS, Entre jansénistes et constitutionnaires: un tiers partì, in “Annales”, n° 2, 1951; ID., Entre jansénistes et zelanti. Le tiers Partì catholique au XVIIIème siècle, Parigi, 1962.
11J. GROOTAERS, cit. p. 88, nota 7.
12 - J. GROOTAERS, cit. p. 89.
13J. GROOTAERS, cit. p. 94.
14 -  J. GROOTAERS, cit. p. 91, nota 15. Cfr. ID., Paolo VI e il rapporto Chiesa-mondo, Brescia, 1991, pp. 90-91.
15 -  J. GROOTAERS, cit. p. 92.
16 - La contestazione e il rifiuto dell’enciclica venne fatta oltre che da Alfrink e l’episcopato olandese, da Suenens e l’episcopato belga, da Döpfner e da König e l’episcopato tedesco, in Italia dal card. Pellegrino di Torino ed infine da Tisserant e Liénart e l’intera Conferenza Episcopale Francese. Paolo VI venne contestato, appena tre anni dopo la chiusura del Vaticano II, proprio da coloro con i quali aveva iniziato, nel 1962, a fare il Concilio in un legame di stretta amicizia intellettuale.
17 -  Lettera del 13 dicembre 1965 di mons. C. Colombo al card. Alfrink e consegnata da quest’ultimo a Grooaters nel 1987, J. GROOATERS, op. cit., p. 101, nota 35.
18 -  Nell’Allocuzione del 23 marzo 1952 e del 18 aprile 1952, in Acta Apostolicae Sedis, n° 44, 1952, pp. 270 ss. e 413 ss.; la morale nuova o della situazione è stata condannata anche dalla Istruzione del S. Uffizio del 2 febbraio 1956.




 
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