I vescovi della “rottura” sia nelle parole sia nei fatti:

verso Bergoglio e il Vaticano III?


Josef Frings




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È nato il 6 febbraio 1887 à Neuss è morto il 17 dicembre 1978 a Colonia. Rivestì un ruolo molto importante al Concilio Vaticano II ed ebbe come consigliere il futuro Papa Benedetto XVI.

Nella prospettiva del Concilio Vaticano II, Frings aveva pronunciato à Genova una conferenza sotto il titolo “Il Concilio Vaticano II davanti al pensiero moderno”. Siccome Papa Giovanni XXIII aveva in séguito ricevuto il manoscritto della conferenza, fece chiamare Frings in Vaticano per un’udienza.

Frings, non era sicuro che la sua allocuzione fosse piaciuta al Santo Padre; invece, il Papa era rimasto entusiasta di ciò che aveva detto il cardinale e lo accolse con gran cordialità.

Frings nella seduta d’apertura del concilio pronunciò un discorso in latino in cui reclamò una dilazione, affinché i padri conciliari potessero fare conoscenza vicendevole prima di prendere le loro decisioni sulla composizione delle commissioni.

Ciò impedì che il Concilio si svolgesse secondo il piano previsto dalla Curia romana.

Inoltre, Frings pronunciò anche un discorso redatto in gran parte da Joseph Ratzinger, che era il suo consulente (o perito) in teologia per il Concilio.

Questo testo trattava del Sant’Uffizio, Frings, ossia Ratzinger definì come troppo conservatrice la Suprema Congregazione come era stata diretta dal cardinale Ottaviani.

Le conseguenze furono considerevoli; infatti, esse portarono a trasformare radicalmente l’amministrazione del Sant’Uffizio, che divenne la ‘Congregazione per la Dottrina della Fede’, diretta prima da Seper e poi da Ratzinger.

Per quanto riguarda ‘le fonti della Rivelazione’, Frings sostenne la teoria dell’unica fonte: la Scrittura (1), la quale fu votata a maggioranza il 20 novembre 1962, circa un mese dopo l’inizio del Vaticano II (11 ottobre 1962).

Per ‘la collegialità episcopale’ «efficacissimo fu l’intervento del card. Frings, per il quale è legittimo supporre il contributo del suo teologo Ratzinger. Si trattò forse del discorso più incisivo dal punto di vista critico, giacché demoliva lo schema [preparatorio del S. Uffizio]» (2).

Sullo stesso tema della collegialità, Döpfner «debitore delle osservazioni di Rahner» (3), tenne un discorso simile a quello di Frings, anche se meno radicale.

Storico è, pure, lo scontro (8 novembre 1963) che ebbe Frings con Ottaviani sulla collegialità, simile a quello di Bea con il medesimo Ottaviani, il 12 giugno 1962, sulla ‘libertà religiosa’, che indurrà «Paolo VI a chiedere a Jedin, Ratzinger e a Onclin alcuni pareri sulla riforma della Curia» (4).

Ottaviani rispose a Frings che “chi vuol essere una pecora di Cristo deve essere condotto al pascolo da Pietro che è il Pastore, e non sono le pecore [i vescovi] che debbono dirigere Pietro, ma è Pietro che deve guidare le pecore [i vescovi] e gli agnelli [i fedeli]”.

Tuttavia, si deve far bene attenzione a non attribuire l’idea collegialista di Frings-Ratzinger a tutto l’Episcopato tedesco. Infatti, in un resoconto del perito conciliare belga mons. Albert Prignon si legge: «Per quanto riguarda le conferenze episcopali, Döpfner non era d’accordo con Frings al quale successe nel 1965 come presidente della “Conferenza Episcopale Tedesca”, poiché pensava che l’intervento di quest’ultimo in aula era soprattutto dettato dal fatto che Frings era onnipotente in Germania ed era lui a dirigere la ‘Conferenza Episcopale Tedesca’ e non aveva minimamente l’intenzione di veder cambiare il regime perché ciò avrebbe diminuito le sue attribuzioni, la sua autorità o non so cos’altro, ma che in tutti i casi l’intervento di Frings era inconsciamente molto più dovuto a motivi personali che a uno studio approfondito della questione» (5).

La dottrina sulla ‘collegialità’ venne attaccata dalla rivista, diretta da mons. Antonio Piolanti, “Divinitas” n° 1 del 1964 tramite due articoli, di mons. Dino Staffa e di mons. Ugo Emilio Lattanzi (che citava, confutandolo, anche il teologo J. Ratzinger), i quali vennero fatti distribuire in Concilio sotto forma di estratti dal card. Ottaviani.

La Nota explicativa praevia fu dovuta, secondo Alberigo (che cita come fonti mons. Prignon, mons. Suenens, mons. Charue, mons. Gerard Philips e mons. Carlo Colombo) al fatto che «da due mesi a questa parte Paolo VI ha subìto una fortissima pressione da parte dell’estrema destra. Sembra che si sia arrivati al punto di minacciare di far saltare il Concilio nel caso passasse il testo votato sulla Collegialità. Lo si è accusato come dottore privato di inclinare verso l’eresia» (6). Addirittura il card. Arcadio Maria Larraona il 18 ottobre 1964 inviò una lettera a Paolo VI in cui fra l’altro scrisse: «Sarebbe nuovo, inaudito e ben strano che una dottrina [collegialità episcopale], la quale prima del Concilio era tenuta come meno comune, meno probabile, meno seria e meno fondata, passasse improvvisamente […] a divenire più probabile, anzi certa o addirittura matura per essere inserita in una Costituzione conciliare. Questo sarebbe cosa contraria a ogni norma ecclesiastica, sia in campo di definizioni infallibili pontificie sia d’insegnamenti conciliari anche non infallibili. […]. Lo schema [sulla collegialità] cambia il volto della Chiesa, infatti: la Chiesa diventa da monarchica, episcopale e collegiale; e ciò in virtù della consacrazione episcopale. Il Primato papale resta intaccato e svuotato. […]. Il Pontefice romano non è presentato come la Pietra sulla quale poggia tutta la Chiesa di Cristo (gerarchia e fedeli); non è descritto come Vicario in terra di Cristo; non è presentato come colui che, solo, ha il potere delle chiavi. […]. La Gerarchia di Giurisdizione, in quanto distinta dalla Gerarchia di Ordine, viene scardinata. Infatti, se si ammette che la consacrazione episcopale porta con sé le Potestà di Ordine ma anche, per diritto divino, tutte le Potestà di Giurisdizione (magistero e governo) non solo nella Chiesa propria ma anche in quella universale, evidentemente la distinzione oggettiva e reale tra Potere d’Ordine e Potere di Giurisdizione, diventa artificiosa, capricciosa e paurosamente vacillante. E tutto ciò – si badi bene – mentre tutte le fonti, le dichiarazioni dottrinali solenni, tridentine e posteriori, proclamano questa distinzione essere di diritto divino. […] La Chiesa avrebbe vissuto per molti secoli in diretta opposizione al diritto divino […]. Gli ortodossi e in parte i protestanti avrebbero dunque avuto ragione nei loro attacchi contro il Primato» (7).

I progressisti, invece, dettero questa valutazione della “Nota”: essa sarebbe stata «del tutto irrilevante, dato che il Concilio non fu mai chiamato ad esprimersi sulla Nota. […]. Inoltre la Nota non venne messa in discussione né in votazione, ma non venne neppure sottoscritta dal Papa, rimanendo così estranea alle decisioni conciliari vere e proprie» (8).

Sempre sulla ‘collegialità’ K. Rahner, e soprattutto Ratzinger, specificarono «ciò che era necessario per far parte del collegio» dei vescovi, secondo Ratzinger «si fa parte del collegio “vi consecrationis” […]. Non fu raggiunta, invece, l’intesa sulla necessità di ripetere la formula del Vaticano I sul primato del Papa: Salaverri e Maccarrone l’avrebbero inserita nel paragrafo sulle relazioni tra Papa e collegio, mentre Rahner e Ratzinger non aderirono» (9) .

Anzi se «Congar considerava la Nota un aiuto per rassicurare la minoranza e non una parte della votazione sulla costituzione ecclesiologica; quando seppe che alcuni padri volevano votare non placet per protesta contro la Nota, fece appello al loro senso di responsabilità, perché non si aggiungesse altro disagio a quello che il Papa aveva già» (10).

Invece «Ratzinger è favorevole ad azioni dure per ottenere almeno un dibattito libero sulla questione» (11).

Per quanto riguarda la dichiarazione De Judaeis «resta il problema della posizione di Paolo VI: il fatto che egli avesse accolto nella sostanza le proposte di padre Ciappi (12) e del card. Browne non implica di per sé che egli ne condividesse tutte le motivazioni.

Nei mesi successivi Ratzinger confiderà a Congar che il destino della dichiarazione sugli Ebrei era di nuovo incerto perché il Papa “sarebbe convinto della responsabilità collettiva del popolo ebraico nella morte di Cristo” e ciò “creerebbe nuove difficoltà”» (13) .

Durante un’omelia tenuta la Domenica di Passione nella primavera del 1965, Paolo VI pronunciò alcune frasi che richiamavano il ruolo collettivo degli Ebrei nella morte di Cristo (14). Le tesi di Ratzinger e Bea non concordavano e anzi rompevano con la Tradizione unanime dei Padri ecclesiastici e con l’autorità del Dottore Comune o Ufficiale della Chiesa San Tommaso d’Aquino.

Per quanto riguarda ‘le relazioni tra Chiesa e mondo moderno’ «All’inizio è stato difficile. Ratzinger è tornato violentemente alla carica contro il testo [schema preparatorio riformato da vescovi francesi e tedeschi in disaccordo tra loro]. I vescovi francesi hanno replicato che il testo era stato redatto tenendo conto delle domande di gran parte dell’opinione pubblica […], che era importante produrre almeno un testo, sebbene non perfetto, vista la delusione dell’opinione mondiale pubblica se non si fosse riusciti a elaborare lo schema. L’appoggio di mons. Philips in questo senso era evidente e, se non ha convinto Ratzinger, ha colpito Rahner» (15) .

Quindi il ruolo durante il Concilio di Ratzinger fu più avanzato di quelli di Congar e persino di Rahner, solo dopo la nomina episcopale e cardinalizia la sua posizione si cristallizzò e venne sorpassata da Rahner, Schillebeeckx e Küng.



NOTE

1A. S., vol. I, cap. 3, pp. 34-35 e 139.
2 - G. ALBERIGO (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. La formazione della coscienza conciliare, ottobre 1962-settembre 1963, Bologna, Il Mulino, 1996, vol. II, p. 361.
3G. ALBERIGO (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. La formazione della coscienza conciliare, ottobre 1962-settembre 1963, Bologna, Il Mulino, 1996, vol. II, p. 360.
4 - H. JEDIN, Storia della mia vita, Brescia, 1987, pp. 314-315; J. RATZINGER, Das Konzil auf dem Weg. Rückblick auf die zweite Sitzungperiode, Köln, 1963-66 (tr. it., 1965-67), 4 voll., pp. 9-12.
5 F-PRIGNON, n° 512 bis: relazione dattiloscritta sugli avvenimenti a partire dal 27 ottobre, pp. 10-11, cit. in G. ALBERIGO (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. Il concilio adulto, settembre 1963-settembre 1964, Bologna, Il Mulino, 1998, vol. III, p. 163, nota 100; cfr. A. S., vol. II, cap. 5, pp. 66-69.
6 - Nastro registrato spedito da mons. Albert Prignon al card. Suenens, fine giugno 1964, F-Prignon, 828, cit. in G. ALBERIGO (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. La Chiesa come comunione, settembre 1964-settembre 1965, Bologna, Il Mulino, 1999, vol. IV, p. 86, nota 216.
7 - Cit. in M. LEFEBVRE, J’accuse le Concile, Martigny, Ed. Saint Gabriel, 1976, pp. 89-98.
8 - G. ALBERIGO diretta da, Storia dei Concili Ecumenici, Brescia, Queriniana, 1990, p. 434.
9 - G. ALBERIGO (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. Il concilio adulto, settembre 1963-settembre 1964, Bologna, Il Mulino, 1998, vol. III, p. 129.
10 -  G. ALBERIGO (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. La Chiesa come comunione, settembre 1964-settembre 1965, Bologna, Il Mulino, 1998, vol. IV, p. 469.
11 - Ivi.
12 -  In una nota inviata a Paolo VI p. Luigi Ciappi ‘Maestro del Sacro Palazzo’ dal 1955, rinviò alla dottrina tradizionale sostenuta unanimemente dai Padri della Chiesa e riassunta mirabilmente da S. Tommaso d’Aquino in S. Th. III, q. 47, a. 5, in corpore e ad 3 «I Capi dei giudei conobbero Gesù come Messia, ma vollero ignorare affettatamente la sua Divinità, infatti ne vedevano i segni e i miracoli evidenti, ma per odio ed invidia non vollero crederli. I semplici fedeli non conobbero pienamente che era il Messia e Dio per ignoranza non affettata o voluta, ma essa era pur sempre vincibile e quindi oggettivamente colpevole, anche se meno di quella dei Capi. Perciò essi peccarono tamquan Dei crucifixores». L’obiezione che Dio non può essere ucciso è confutata col dogma dell’Unione ipostatica, ossia la sussistenza delle due nature (umana e divina) in una sola Persona divina. Perciò ciò che fu fatto contro la natura umana di Cristo (morte) fu fatto e tentato, anche se senza conseguenze pratiche, altresì contro la Persona divina. Quindi, oggettivamente, vi fu vero deicidio o tentativo di uccidere Dio riuscito quanto all’umanità di Cristo sussistente nella Divinità, che non poté essere scalfita in se stessa. Sempre S. Tommaso scrive che: «Il peccato dei giudei fu di tentato deicidio» (In Symb. Ap., a. 4, n° 912).
13 - Dal Diario di Congar, 3 aprile 1965, cit. in G. ALBERIGO (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. La Chiesa come comunione, settembre 1964-settembre 1965, Bologna, Il Mulino, 1999, vol. IV, p. 177.
14 - Encicliche e discorsi di Paolo VI, Roma, 1965, vol. V, p. 370.
15 - F-Prignon, 1585, 17 settembre 1965 e le note di Jean Daniélou: F-Daniélou, 115 e 116 cit. in G. ALBERIGO (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. Concilio di transizione, settembre-dicembre 1965, Bologna, Il Mulino, 2001, vol. V, p 146.




 
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