|
|
CONTRA CIANCIAS Parte terza Il Modernismo impenitente di Benedetto XVI Introduzione
Le dimissioni di Benedetto XVI Dopo aver annunciato le sue dimissioni, l’11 febbraio 2013, per mancanza di forze fisiche e morali che non gli avrebbe consentito di agire per il bene della Chiesa, Benedetto XVI ha incontrato il Clero di Roma, al quale - il 14 febbraio - ha proluso una “Lectio magistralis” sul Concilio Vaticano II, la sua retta interpretazione ed è tornato con la memoria ai ricordi storico/teologici della sua partecipazione da giovane teologo al Concilio, prima come teologo privato del cardinal Frings e poi come “Perito ufficiale” del Concilio. Pertanto, mi vorrei soffermare su questo testo, che esprime la teologia modernistica di Ratzinger/Benedetto XVI dal 1959 al 2013, testo ufficialmente diffuso dalla “Radio Vaticana”; il lettore potrà leggerlo sul sito VATICAN NEWS, 14 febbraio 2013. In esso si costata che l’85nne Benedetto XVI nel 2013 è sostanzialmente identico al 38nne don Joseph Ratzinger del 1960-65. Egli, infatti, è restato un convinto assertore delle novità introdotte dalla “nouvelle théologie” nella Pastorale del Vaticano II. Questa è la vera “tragedia” e non l’aver dato le dimissioni per motivi d’incapacità di governare la Chiesa (ammesso che la motivazione sia realmente questa). Aver riunito ad Assisi - nell’ottobre del 2102 - tutte le false “religioni” assieme all’unica vera, è un atto in sé inaccettabile e in rottura con la Tradizione apostolica: basta leggere l’Enciclica “Mortalium animos” di Pio XI del 1928. Aver elogiato la Collegialità, la rivolta contro gli Schemi preparatori del S. Uffizio, l’Ecumenismo, la Riforma della Messa anche nel momento che precede le sue dimissioni è qualcosa di molto grave, che deve aprirci gli occhi sulla mentalità di Benedetto XVI, anche quanto alla liberalizzazione della Messa tradizionale del 7 luglio 2007, per non cadere nel trabocchetto della “Continuità” tra Concilio Vaticano II e Tradizione apostolica, la quale è smentita implicitamente da ciò che dice lo stesso papa Ratzinger, il quale proclama - ma non dimostra - la ‘non-rottura’ del Vaticano II con la Tradizione. Il discorso del 14 febbraio 2013 e il
Commento
Il discorso di Benedetto XVI è bene articolato e riafferma quasi tutti i grandi temi del Vaticano II in quest’ordine: 1a Parte) la Chiesa e la Modernità (in 3 Tesi e 3 Risposte); 2a Parte) l’Ecclesiologia (in 7 Tesi e 7 Risposte); 3a Parte) la Riforma liturgica (in 3 Tesi e 3 Risposte). Per aiutare il lettore ho diviso il testo in tre Parti, esponendo le Tesi di papa Ratzinger e cercando di dare una Risposta a ciascuna di esse. Il Testo di Benedetto XVI diviso in Tesi
“CHIESA
E MODERNITÀ”
Tre Tesi e tre Risposte 1a
Tesi di Ratzinger
Il primo punto esposto da Benedetto XVI lascia più che perplessi. Infatti, esso contiene l’utopica conciliabilità tra “Concilio e il mondo del Pensiero Moderno”. Rispondo
La Modernità è caratterizzata dal Soggettivismo (religioso di Lutero, filosofico di Cartesio e socio/politico di Rousseau). Il Concilio Vaticano II ha preteso di conciliare la Modernità filosofica - iniziata da Cartesio, perfezionata da Kant e ultimata da Hegel - con il Cattolicesimo. Ora, questa è l’essenza del Modernismo, il quale - come insegna San Pio X nell’Enciclica Pascendi (8 settembre 1907) - è “lo spurio connubio di Cristianesimo e kantismo”, ossia una contradictio in terminis, che sfocia nella “cloaca di tutte le eresie” (ivi). Infatti, l’uomo, secondo il kantismo, è Supremo Legislatore di se stesso. Egli agisce moralmente soltanto quando osserva la sua legge; se si sottomette alla Legge divina, si ha l’eteronomia (sottomissione a una legge estranea) che è immorale, poiché contraddice l’autonomia della morale. Kant ripete, con parole più sfumate, il non serviam di Lucifero e lo erige a sistema “filosofico”. La filosofia moderna si fonda sul principio di autonomia assoluta e di autosufficienza completa dell’uomo, ossia dell’allontanamento dell’uomo da Dio con la conseguenza dell’autodistruzione progressiva. Dio (come pure l’essere partecipato-creaturale, la ragione umana e la logica, la morale oggettiva e naturale), soprattutto nell’epoca contemporanea, è visto come il male da combattere, distruggere e uccidere (1). Eppure, il Vaticano II ha voluto conciliare il Vangelo con la Modernità. L’uomo contemporaneo si sente limitato da Dio, dalla sua Chiesa, dalla vera Religione, dall’essere extra-mentale, dalla logica e dalla morale oggettiva. Quindi, è impossibile conciliare Cattolicesimo e Modernità o post-Modernità, tranne che la Modernità si converta al Cattolicesimo e sconfessi se stessa o che i Cristiani abiurino il Cattolicesimo e aderiscano alla Modernità. Purtroppo, il dialogo conciliare con la Modernità ha portato i Cristiani e gli Ecclesiastici all’aggiornamento, ossia all’adattamento e all’accettazione della Modernità soggettivistica. L’ateismo implicito iniziale e il deicidio, come ateismo esplicito compiuto, rappresentano la natura del processo filosofico moderno, che dialetticamente prima nega Dio e, poi, nichilisticamente lo vorrebbe uccidere. La negazione del peccato originale è una conseguenza pratica della negazione di un Dio creatore, che limita l’uomo come creatura. Infatti, il peccato originale infligge all’Uomo/totale o Assoluto una doppia ferita: quella della creaturalità e della vulnerabilità, che egli non è più disposto ad accettare, come avveniva in passato (2). L’uomo si protende, invece, verso un “Umanesimo integrale” (3), che è ateismo e nichilismo radicale. Da questa filosofia è nata la contrapposizione radicale tra il Cristianesimo tradizionale e il mondo moderno-contemporaneo. Contraddizione che è stata volutamente ignorata da alcuni Ecclesiastici modernisti e che essi hanno cercato di superare nel disperato tentativo di conciliare il teocentrismo con l’antropocentrismo (Gaudium et spes, 22, 24). Alcuni di loro hanno detto esplicitamente che la natura esige la grazia e, dunque, implicitamente che l’uomo è Dio (HENRY DE LUBAC, Surnaturel, Parigi, 1946). Tuttavia, il mondo ha rifiutato, in larga misura, questa mano tesa da parte dell’arrendevolezza modernistica e ha riaffermato, sempre più marcatamente, la diversità e la contrarietà tra Fede e ragione, tra Grazia e natura, tra Chiesa e Stato. Il cuore del “problema dell’ora presente” è propriamente la velleità di conciliare l’inconciliabile, teocentrismo e antropocentrismo, Messa romana e Novus Ordo, Tradizione divino-apostolica e Vaticano II, Collegialità episcopale e Primato di Pietro. Questa velleità è stata il cuore della teologia del giovane Ratzinger e del Pontificato di Benedetto XVI modernista impenitente sino alla fine (v. Discorso al Clero Romano del 14 febbraio 2013). 2a
Tesi di Ratzinger
«Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa» (Benedetto XVI). Rispondo
Questa Tesi ecclesiologica della Nuova era dell’economia della salvezza e di una Nuovissima Chiesa pneumatica già venne espressa da Gioacchino da Fiore, di cui J. Ratzinger - come dottore privato - è un profondo conoscitore. Essa, però, è stata condannata dalla Chiesa. San Tommaso d’Aquino, risponde e confuta (meglio di ogni altro) gli errori millenaristi di Gioacchino e della sua scuola. Nella Somma Teologica dimostra che la Nuova Alleanza e la Chiesa di Cristo fondata su Pietro durerà sino alla fine del mondo (S. Th., I-II, q. 106, a. 4). Infatti, la Nuova Alleanza è succeduta alla Vecchia, come il più perfetto al meno perfetto. Ora, nello stato della vita umana in questo mondo, nulla può essere più perfetto di Cristo e della Nuova Legge, poiché qualcosa è perfetto in quanto si avvicina al suo fine. Ora, Cristo ci introduce – grazie alla sua Incarnazione e morte – in Cielo. Quindi, non vi può essere – su questa terra – nulla di più perfetto di Gesù e della Sua Chiesa. 3a
Tesi di Ratzinger
«Si sentiva che la Chiesa non andava avanti, ma sembrava piuttosto
una realtà del passato e non la portatrice del futuro»
(Benedetto XVI).
Rispondo
Qui si tocca il problema dei rapporti tra la Chiesa, e specialmente il Concilio Vaticano II, e la Tradizione. Per questo motivo affronto questo problema nella prima parte dell’articolo: “Concilio e Modernità” e non nella seconda parte sulla “Ecclesiologia”. Infatti, la Chiesa per andare avanti omogeneamente e non eterogeneamente deve rifarsi alle sue radici o alla sua Tradizione, “vita e giovinezza della Chiesa” (B. Gherardini), che assieme alla S. Scrittura è una delle due fonti della divina Rivelazione. Ora, parlare di una Chiesa tutta protesa in avanti e svalutarne il passato storico (per esempio, il preteso errore sul caso Galileo) equivale a tagliare le radici di un albero e condannarlo alla morte. “Tradidi quod et accepi” (1 Cor., XV, 3): non si può dare null’altro se non ciò che si è ricevuto, l’Autorità nella Chiesa ha il compito di custodire, e trasmettere inviolato il ‘Deposito della Rivelazione’, senza cambiamenti sostanziali e oggettivi, ma approfondendo la Fede, però sempre in eodem sensu. Come si vede la questione non è un bizantinismo, ma è d’estrema attualità. Infatti, il pontificato di Benedetto XVI s’è proteso ad affermare di leggere il Concilio Vaticano II non in discontinuità, ma in continuità con la Tradizione della Chiesa, mentre in realtà v’è una “continua discontinuità” tra il Vaticano II e la Tradizione apostolica. Onde, occorre sapere qual è la vera nozione di Tradizione e mettere a confronto la dottrina ricevuta e trasmessa dagli Apostoli sino a Pio XII con l’insegnamento del Vaticano II per vedere se tra essi v’è continuità e sviluppo omogeneo oppure eterogeneo. Non basta conclamare verbalmente la continuità perché essa esista realmente. Ove si riscontra contrarietà e novità oggettiva, intrinseca ed eterogenea v’è rottura, che è la morte o l’interruzione della Tradizione, in quanto non si consegna ciò che si è ricevuto dagli Apostoli, ma nuove dottrine (“nova non nove/ cose nuove e non le stesse cose dette in maniera nuova”), ossia una “contro-tradizione”. Non si può sostituire la verità di ieri con quella di oggi a lei contraria o difforme, poiché la verità è una e immutabile sostanzialmente e oggettivamente “heri, hodie et in saecula”. Perciò, se è lecito e doveroso rileggere oggi la Tradizione per capire meglio e più profondamente ciò che ci fu detto ieri dagli Apostoli, non è mai lecito piegare l’insegnamento apostolico alle filosofie moderne immanentistiche e modernistiche e cambiarlo sostanzialmente in senso soggettivistico e relativistico. Ora, per fare un esempio, la “Dei Verbum” del Concilio Vaticano II rigettò lo schema della Commissione preparatoria “De fontibus Revelationis” (avvenimento di rigetto salutato con entusiasmo da Benedetto XVI sino al 14 febbraio 2013), che riprendeva le definizioni del Tridentino e del Vaticano I ed era stato preparato sotto la direzione del card. Alfredo Ottaviani vice-Prefetto del S. Uffizio (il cui Prefetto - si badi bene - era il Papa), e ciò per annacquare il peso della Tradizione a tutto vantaggio della sola Scrittura, in vista del dialogo interreligioso col protestantesimo, che aborrisce la Tradizione. Col Vaticano II non si parla più di duplice fonte della Rivelazione. Con il Vaticano II si misurò la Tradizione in base alla Scrittura: tutto ciò che non era scritto, non poteva essere ritenuto come vero; in breve, si ribaltò la dottrina comune e definita dell’insufficienza della sola Scrittura nei confronti della Tradizione. Col Tridentino e il Vaticano I, la Tradizione era accolta perché proveniente da Gesù e dagli Apostoli, col Vaticano II (DV) è accolta soltanto se sono i teologi a riconoscere tale provenienza fondandosi sulla S. Scrittura, omologando Tradizione e Scrittura. La loro distinzione invece era stata ribadita anche dopo il Vaticano I da S. Pio X nel Decreto Lamentabili (1907) e poi da Pio XI nell’enciclica Mortalium animos (1928). Il problema è, quindi, di vedere se realmente la dottrina dell’unica fonte scritta della Rivelazione (Dei Verbum) sia contenuta nella Tradizione apostolica o sia una novità del Concilio (pastorale e non dogmatico) Vaticano II. Al Concilio di Trento la Chiesa ha definito infallibilmente che le fonti della Rivelazione sono Due. Tradizione e Scrittura. LA
TRADIZIONE Apostolica
Definizione La Tradizione assieme alla Bibbia è una delle due “fonti” della divina Rivelazione (Tradizione passiva e oggettiva). Essa è anche la “trasmissione” (dal latino tradere, trasmettere) orale di tutte le verità rivelate da Cristo agli Apostoli o suggerite loro dallo Spirito Santo, e giunte a noi mediante il magistero sempre vivo della Chiesa, assistita da Dio sino alla fine del mondo (Tradizione attiva e soggettiva). La Tradizione assieme alla S. Scrittura è il “canale contenitore [Tradizione passiva] e veicolo trasmettitore [Tradizione attiva]” della Parola divinamente rivelata. Il magistero ecclesiastico è “l’organo” della Tradizione. Mentre gli “strumenti” in cui si è conservata sono i Simboli di fede, gli scritti dei Padri, la liturgia, la pratica della Chiesa, gli Atti dei martiri e i monumenti archeologici. Divisione
La si considera sotto due aspetti: 1°) attivo (soggettivo o formale), che è l’organo vivo o il soggetto (persone o istituzioni/Papa e Chiesa) il quale funge da canale di trasmissione. 2°) passivo (oggettivo o materiale), che è costituito dall’oggetto o deposito trasmesso (dottrina e costumi) (4). La Tradizione di cui ci occupiamo in quest’articolo è quella sacra o cristiana e non quella profana. La Tradizione cristiana si divide in: a) Tradizione divina (insegnata direttamente da Gesù agli Apostoli) o b) divino-apostolica (gli Apostoli non la ascoltarono dalla bocca di Cristo, ma la ebbero per ispirazione dello Spirito Santo); esse consistono in quelle verità o precetti morali, disciplinari e liturgici, i quali derivano direttamente da Cristo o dagli Apostoli, in quanto promulgatori della Rivelazione, illuminati dallo Spirito Santo, trasmesse agli uomini incorrotte sino alla fine del mondo, esse sono oggetto di fede divina. Tradizione
“vivente”?
I primi discepoli degli Apostoli ricevettero in maniera diretta e immediata la Tradizione dalla bocca dei Dodici; mentre i posteri la ricevono in maniere indiretta e mediata, tramite l’insegnamento dei successori di Pietro (i Papi) e degli Apostoli (i vescovi) cum Petro et sub Petro. Il magistero è l’organo della trasmissione ininterrotta della medesima eredità ricevuta dagli Apostoli da parte di Cristo o dello Spirito Santo. Questa è la funzione del magistero: mediare e attualizzare l’insegnamento divino, ma sempre agganciandosi alla Tradizione ricevuta e quindi trasmessa. Non si tratta di far vivere una fede nuova, ma di tramandare e far ricevere o rivivere continuamente e nuovamente l’unica fede predicata da Cristo e dagli Apostoli, sino alla fine del mondo. Tale funzione non contiene e non propone nessuna novità, ma solo ribadisce in maniera nuova e approfondita la stessa verità contenuta nella Scrittura e nella Tradizione. Da tutto questo deposito della fede è totalmente assente ogni ombra di contraddizione tra verità antiche e nuove, lo sviluppo va fatto “nello stesso senso e nello stesso significato” (S. VINCENZO DA LERINO, Commonitorium, XXIII). Solo in tale senso si può parlare anche di Tradizione “viva”, non in quanto “cangiante”, ma “omogeneamente crescente”. Non vi è Tradizione, non sussiste verità cattolica se si trova la contraddizione, la contrarietà o la concorrenza tra “nova et vetera”. Il card. PIETRO PARENTE su L’Osservatore Romano del 9-10 febbraio 1942 scriveva: «c’è da deplorare […] la strana identificazione della Tradizione (fonte della Rivelazione) col magistero vivo della Chiesa (custode e interprete della divina Parola)». In breve, vi è una certa distinzione fra Tradizione e magistero, che esclude la totale identità e non nega una certa somiglianza, nel senso che il secondo custodisce, spiega e propone a credere le verità contenute nella Tradizione e soprattutto è pericoloso accostare sino all’identificazione la Tradizione col magistero vivente, dando così alla prima, un carattere intrinsecamente evolutivo. Ermeneutica
della continuità
La continuità tra due dottrine per essere reale e non solo nominale deve comportare questa continuità omogenea, che esclude ogni alterazione intrinseca, diversità o novità eterogenea anche solo parziale. Il magistero è vivente in quanto a un Papa morto ne segue uno vivo sino alla consumazione del mondo; invece per quanto riguarda la Tradizione bisogna fare attenzione a non parlare di Tradizione vivente, se non si esplicita il vero e unico significato di tale vitalità, come condizionata alla continuità con la dottrina ricevuta dagli Apostoli e poi trasmessa da loro stessi e dai loro successori (Papi e vescovi). Il magistero per rispondere ai problemi del presente deve ritornare alla Tradizione apostolica e trasmetterla come l’ha ricevuta, senza alterazioni estrinseche, oggettive, eterogenee, ma solo in maniera nuova e approfondita omogeneamente ed estrinsecamente (“eodem sensu eademque sententia”, S. VINCENZO DA LERINO, ivi). La vitalità della Tradizione è immutabile (da non confondere con mummificazione) come la verità divina “Ego sum Dominus et non mutor”, che il magistero ha ricevuto dagli Apostoli e ripropone in quanto tale intrinsecamente ed è approfondita solo estrinsecamente, per rendere più esplicita una verità o per superare e confutare gli errori ad essa contrapposti (5). La Tradizione è veramente viva, solo se mantiene la sua natura (come un bambino che cresce restando sempre se stesso) e non cambia sostanzialmente o intrinsecamente in maniera eterogenea, certamente può precisare ed esplicitare sempre meglio il deposito ricevuto e che deve essere trasmesso sino alla fine dei tempi. La Tradizione “vivente” in senso modernistico, quale evoluzione eterogenea e intrinseca di essa è una conciliazione dell’inconciliabile, un assurdo, una contraddizione. Il magistero per essere in continuità con la Tradizione deve “trasmettere ciò che ha ricevuto” (“tradidi quod et accepi”) dagli Apostoli, senza novità intrinseche ed eterogenee, altrimenti non vi è continuità ma difformità e deformità reale anche se nominalmente ci si richiama alla Tradizione vivente, deformandone il significato, sottolineando il “vivente” a scapito della Tradizione. Il
Concilio Vaticano II, Benedetto XVI e la Tradizione
La questione non è un bizantinismo, ma è di estrema attualità. Infatti, il pontificato di Benedetto XVI è proteso a leggere il Concilio Vaticano II non in discontinuità ma in continuità con la Tradizione della Chiesa. Onde, occorre sapere qual è la vera nozione di Tradizione e mettere a confronto la dottrina ricevuta e trasmessa dagli Apostoli sino a Pio XII, con l’insegnamento del Vaticano II per vedere se tra esse vi è continuità e sviluppo omogeneo oppure eterogeneo, intrinseco e oggettivo. Non basta conclamare la continuità perché essa esista realmente. Ove si riscontra contrarietà e novità oggettiva, intrinseca ed eterogenea v’è rottura, che è la morte o l’interruzione della Tradizione, in quanto non si consegna ciò che si è ricevuto dagli Apostoli, ma altre nuove dottrine ossia una “contro-tradizione”. Non si può sostituire la verità di ieri con quella di oggi a lei contraria o difforme, poiché la verità è una e immutabile sostanzialmente e oggettivamente, “heri, hodie et in saecula”. Perciò se è lecito e doveroso rileggere oggi la Tradizione per capire meglio ciò che ci fu detto ieri dagli Apostoli, non è mai lecito piegare l’insegnamento apostolico alle filosofie moderne immanentistiche e modernistiche. Ora, per fare un esempio, la “Dei Verbum” del Concilio Vaticano II rifiutò il progetto della Commissione preparatoria “De fontibus Revelationis”, che riprendeva le definizioni tridentina e del Vaticano I, preparato sotto la direzione del card. Alfredo Ottaviani, per annacquare il peso della Tradizione a tutto vantaggio della sola Scrittura, in vista del dialogo interreligioso col protestantesimo, che aborrisce la Tradizione. Col Vaticano II non si parla più di duplice fonte, s’insiste sul “vivente” quando si nomina la Tradizione, per poter far dire alla Scrittura tutto e il contrario di tutto, nell’ottica del libero esame soggettivistico luterano, avendo eliminato l’interpretazione autentica del Libro sacro data dalla Tradizione, tramite i Padri e il magistero. Si misurò la Tradizione in base alla Scrittura: tutto ciò che non era scritto non poteva essere ritenuto come vero, in breve si ribaltò la dottrina comune e definita della insufficienza della sola Scrittura nei confronti della Tradizione. Col Tridentino e il Vaticano I, la Tradizione era accolta perché proveniente da Gesù e dagli Apostoli, col Vaticano II (Dei Verbum) è accolta se sono i teologi a riconoscere la provenienza fondandosi sulla S. Scrittura, omologando Tradizione a Scrittura. Tale distinzione invece era stata ribadita dopo il Vaticano I da S. Pio X nel Decreto Lamentabili (1907) e poi da Pio XI nell’enciclica Mortalium animos (1928). Tradizione
scritta e orale
La Tradizione orale non esclude che venga poi messa per iscritto, senza “divina ispirazione” (6), in quanto col passare del tempo, la trasmissione a voce viene fissata in documenti scritti o epigrafi; per esempio, la validità del Battesimo dei neonati è Tradizione, poiché è parola di Dio non scritta sotto divina ispirazione, sebbene sia contenuta nei libri di quasi tutti gli antichi scrittori ecclesiastici. Tuttavia, lo scritto è solo un sussidio della Tradizione orale. Onde, vi possono essere Tradizioni o insegnamenti divino-apostolici di cui nulla è stato scritto. Sarà la voce della Chiesa o il magistero vivente nella persona del Papa attualmente regnante a garantire che tali verità sono di origine divina o apostolica. Solo in questo senso si può parlare di Tradizione vivente, in quanto è l’insegnamento divino o apostolico che perdura in tutti i tempi e non si interrompe mai grazie alla catena ininterrotta dei Papi vivi e regnanti. Tradizione
e S. Scrittura
Confrontandole si dice che la Tradizione è a) “inesiva” se la stessa verità è contenuta sia nella Scrittura sia nella Tradizione; b) “dichiarativa” se una verità attestata dalla Scrittura viene chiarita ancor meglio dalla Tradizione; c) “completiva” se trasmette verità non contenute nella Bibbia, ad esempio la pratica di battezzare i neonati. Perciò è dottrina comunemente insegnata che la Tradizione è più ricca della sola Scrittura in 1°) antichità (anche la Scrittura prima di essere stata scritta è Tradizione, in quanto essa riceve la predicazione di Cristo o l’impulso dello Spirito Santo dato agli Apostoli che poi lo hanno messo per iscritto sotto ispirazione divina), 2°) pienezza (in quanto la Tradizione contiene tutte le verità per se rivelate e la Scrittura no) e 3°) sufficienza (poiché la Scrittura ha bisogno della Tradizione onde stabilire la sua autorità) ( 7). Errore
luterano
Per il protestantesimo l’unica fonte della Rivelazione è la S. Scrittura, onde la sola nozione di Tradizione orale e di magistero quale canale trasmettitore di essa è inconcepibile. Invece, la Chiesa ha definito infallibilmente al Concilio di Trento (sessione IV del 6 aprile 1546; DB, 783) e al Concilio Vaticano I (DB, 1787) 1°) che esistono insegnamenti o Tradizioni divino-apostoliche, aventi relazione con la fede e la morale, 2°) trasmesse ininterrottamente tramite il magistero della Chiesa, 3°) assistita da Dio. Se manca una sola di queste tre condizioni, la tradizione è solo umana e quindi fallibile. Inoltre, sempre il Tridentino ha definito (sessione IV; DB, 783) che la fede e la morale “è contenuta tanto nei Libri Sacri scritti [sotto divina ispirazione], quanto nella Tradizione non scritta” e che bisogna “ricevere con pari amore di pietà e riverenza” sia l’una che l’altra fonte della Rivelazione (DB, 738; ripreso dal Vaticano I; DB, 1787). Tradizione,
assistenza divina e magistero
Come si vede sia nella Scrittura sia nei Padri il concetto di vera Tradizione è sempre collegato 1°) all’assistenza di Dio, poiché senza l’aiuto dello Spirito di Verità, la purezza dell’insegnamento orale non potrebbe conservarsi senza mescolamento di errori. Inoltre, il concetto di Tradizione è inseparabile 2°) dal magistero che pur non essendo la Tradizione stessa è l’organo tramite il quale essa viene tramandata, il senso pieno di Tradizione lo si può avere solo a condizione di tenere uniti i due suoi aspetti (passivo o oggettivo/materiale e attivo o soggettivo/formale) di cui il secondo è il più importante, di modo che una tradizione del I secolo, ma non attestata dalla Chiesa non costituirebbe vera Tradizione divino-apostolica, al massimo avrebbe un valore di documentazione storica, ma non di fede divina. Tra magistero e Tradizione vi è una certa distinzione ma non è totale, ossia la Chiesa è come un maestro che contiene e trasmette la Scrittura e la Tradizione, ha un Libro di testo ufficiale e ne spiega il vero significato ai discenti. Da tutto ciò risulta la parte essenziale che svolge il magistero per sua natura nel dare, “tutti i giorni sino alla fine del mondo”, la retta interpretazione soggettivo/formale del contenuto dommatico morale della Tradizione, avendone garantito ieri la veridicità del contenuto passivo o oggettivo/materiale (8). NOTE 1 - Cfr. C. FABRO, Introduzione all’ateismo moderno, 2 voll., Roma, Studium, 1967; A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, Bologna, Il Mulino, 1964. 2 - Cfr. A. DEL NOCE, L’epoca della secolarizzazione, Milano, Giuffrè, 1970; C. FABRO, L’uomo e il rischio di Dio, Brescia, Morcelliana, 1964. 3 - Cfr. J. MARITAIN, Umanisme integral, Parigi, 1936. 4 - Cfr. G. MATTIUSSI, L’immutabilità del dogma, in “La Scuola cattolica”, marzo 1903. 5 - S. Th., II-II, q. 1, a. 9, ad 2. 6 - Impulso o mozione divina che spinge l’agiografo a scrivere quanto Dio vuole che sia comunicato. S. Paolo scrive che “tutta la Scrittura è ispirata da Dio” (II Tim. III, 16-17). Leone XIII nell’enciclica Providentissimus del 1893 ha definito così l’ispirazione agiografica biblica o divina: “Azione soprannaturale tramite la quale Dio eccitò e mosse gli scrittori sacri a scrivere, li assistette nello scrivere di modo che essi concepissero rettamente col pensiero, volessero fedelmente scrivere ed esprimessero correttamente con infallibile verità tutto quello che Egli voleva che esprimessero”. Dio è l’autore principale del Libro sacro; l’agiografo è l’autore secondario e strumentale, ma cosciente e libero, per cui Dio 1°) illumina la mente dell’agiografo per fargli capire perfettamente ciò che deve scrivere e discernerne infallibilmente la verità dalla falsità; 2°) muove la volontà dell’agiografo perché si decida a scrivere quel che ha capito e giudicato vero; 3°) assiste le facoltà esecutive affinché nella scelta delle parole non vi siano errori o deviazioni che comprometterebbero la manifestazione del pensiero divino (Cfr. CH. PESCH, De Inspiratione Scripturae, Friburgo, 1906; E. FLORIT, Ispirazione biblica, Roma, 1951). 7 - M. CANO, De locis theologicis lib XII, Venezia, 1799, p. 4. 8 - Cfr. J. B. FRANZELIN, De divina traditione et Scriptura, Roma, 1870; L. BILLOT, De immutabilitate traditionis, Roma, 1904; S. G. VAN NOORT, Tractatus de fontibus Revelationis necnon de fide divina, 3a ed., Bussum, 1920; S. CIPRIANI, Le fonti della Rivelazione, Firenze, 1953; A. MICHEL, voce “Tradition”, in DThC, XV, coll., 1252-1350; G. FILOGRASSI, La Tradizione divino-apostolica e il magistero ecclesiastico, in “La Civiltà Cattolica”, 1951, III, pp. 137-501; G. PROULX, Tradition et Protestantisme, Parigi, 1924; S. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., III, q. 64, a. 2, ad 2; B. GHERARDINI, Divinitas 1, 2, 3/ 2010, Città del Vaticano, S. CARTECHINI, Dall’opinione al domma, Roma, Civiltà Cattolica, 1953. |