Verità e Bellezza, Lingua e Volto
della Chiesa di sempre

(Osservazioni sul libro
«Il domani – terribile o radioso? – del dogma»,
di Enrico M. Radaelli)


di Giovanni T. - Firenze


L’ultima opera del filosofo milanese Enrico Maria Radaelli ha l’effetto di quel tuono estivo che, solitario, è però capace di incrinare il sereno e di risvegliare i sensi dal torpore evocando lontane turbolenze.
In questo meriggio dorato della Chiesa, che segue alla mattinata delle scintillanti novità di cui essa si è rivestita, con cui si è abbellita e per cui si è creduta ringiovanita, l’ultima opera del filosofo milanese Enrico M. Radaelli, Il domani – terribile o radioso? – del dogma, è il tuono solitario che, in lontananza, è capace di incrinare tanta fissità di luce e di certezze.
In realtà il libro di Radaelli ha la potenza del tuono ma la finezza d’ordito del ricamo e tutta la trattazione segue un percorso metafisico che vaglia di fino il volto nuovo della Chiesa, principalmente il suo linguaggio che ne riflette il suo Magistero.
Un’opera «critica», dunque, che segna una particolare riflessione sull’essenza della Chiesa uscita dal Vaticano II sotto l’inesplorato profilo della «forma» scelta dall’Assise e dai documenti conciliari che ne uscirono - la pastoralità - che fu anche un modo, e il più immediato ed appariscente, di manifestare un nuovo stile, un nuovo linguaggio ed un nuovo vocabolario per la Chiesa del dopo.
Secondo la regola di verità della Scolastica che la forma determina la sostanza delle cose, era però inevitabile che anche in questo caso quella che si pensava un’operazione di mero lifting ecclesiastico finisse poi per diventare un’imponente riforma ecclesiologica dalla portata incalcolabile per l’essenza stessa della Chiesa, dal momento che la Chiesa può «divenire» ma non mutare, mentre un intervento generale e profondo come quello del Concilio non poteva che riflettersi sulla natura stessa della Chiesa, alterandola.

Non si riconosceranno mai abbastanza, sostiene l’Autore, le conseguenze che questa alterazione estetico-formale apparentemente innocua porta all’essenza della Chiesa, e quindi ai fedeli, al mondo, ma anche a tutto il clero e ai religiosi.
Fin dalle prime pagine, Radaelli ci accompagna attraverso le acque sicure del mare tomista per spiegarci che la Forma è il linguaggio della Sostanza e che Logos, Verbum, Parola, Verità (Sostanza) ed Imago, Volto e Bellezza (Forma) sono alcuni dei Nomi del Figlio di Dio (s. Th., de Trinitate, quae. 34 e quae. 35), anzi «sono» il Figlio di Dio: Verità e Bellezza hanno dunque la medesima origine in Dio e coincidono e sono entrambe perfette in Gesù Cristo.
Questo è di fondamentale importanza perché in questa compenetrazione perfetta di Sostanza e Forma, di Verità e Bellezza – che Radaelli definisce «ultrarelazione» - e che è compiuta in Gesù Cristo, vi è “«la scaturigine prima» di ogni relazione che si ha nel creato”, e pertanto anche di quella particolare relazione fra contenuto e sua manifestazione che si ottiene attraverso il linguaggio umano, che in ogni sede e in ogni tempo deve rispondere a verità e bellezza, memorabili le parole di Amerio: “Noi siamo fatti per il vero e non per il falso e perciò restare nel falso ci riesce difficile” (Zibaldone, aforisma 587).

Su queste fondamenta ha sempre poggiato il linguaggio della Chiesa, che è maestra di Verità e che pertanto ha sempre insegnato con linguaggio certo, dogmatico, autorevole ed asseverativo, bello, come conviene alla professione di Verità Rivelata. Ma che nello stesso tempo è un linguaggio d’amore perché è fondato unicamente su Cristo, che insegna con autorità ma non costringe, che si rivolge agli uomini di buona volontà ma li lascia liberi di scegliere.
Col Vaticano II la prospettiva si è precisamente capovolta e la struttura della Chiesa da verticale è diventata repentinamente orizzontale. Comunione, collegialità, pastoralità, dialogo, ecumenismo, opinabilità: un vocabolario tanto vasto ed impegnativo quanto mai incerto nella sostanza (ricordo, fra gli altri, l’inestricabile ed insoluto nodo dei rapporti fra Collegio episcopale e Romano Pontefice, vale a dire fra i due soggetti titolari della suprema autorità sulla Chiesa universale); e fluido e ondivago nella forma (ricordo le esitazioni lessicali sulla questione dei “due soggetti inadeguatamente distinti” e tutte le aporie dei vari documenti così puntualmente illustrate dal teologo Gherardini specie nel suo trattato Quod et tradidi vobis).

Lo stile, la lingua, con cui esprimere tale capovolgimento doveva per forza adattarsi alle nuove esigenze ma, attenzione, l’operazione non poteva esser condotta in modo così clamorosamente antitetico alla forma, alla sostanza, agli insegnamenti della Chiesa precedente. Niente di meglio che utilizzare un linguaggio dimostrativo, allusivo, ambiguo, l’opposto del linguaggio metafisico così reale, esatto ed oggettivo e così poco amato dalla maggioranza dei Padri.
Si arriva in questo modo ad uno dei punti centrali (molti ve ne sono) dell’opera di Radaelli, quello della questione del Magistero conciliare: questa Chiesa che guardò se stessa e il mondo con occhi e con linguaggio così diversi, determinò una interruzione con la Chiesa precedente («rottura della continuità»), oppure si trattò di semplice trasformazione («riforma nella continuità»)?
Nessuna delle due strade è praticabile, risponde Radaelli: nel primo caso perché, se si ammettesse la rottura la Chiesa attuale sarebbe privata dell’assistenza dello Spirito Santo e dovremmo ammettere che la Chiesa è un semplice elemento in natura, ciò che non è. Nel secondo caso, perché le filosofie religiose, le pseudo dottrine che invadono oggi il campo della Chiesa non sono formalmente individuabili in nessuna delle due fonti della Rivelazione, anzi “sono dottrine che una per una, vere e proprie eresie, non reggerebbero alla prova del fuoco del dogma”.

La chiave di lettura dell’evento conciliare ultimo, l’aveva già individuata Amerio nella sua opera maggiore – afferma Radaelli – e l’aveva fissata col nome di legge di conservazione della Chiesa: la Chiesa potrebbe “perdersi” solo quando la corruzione pratica e dottrinale, ecclesiologica, sacramentale, liturgica, si alzasse “tanto da intaccare il dogma e da formulare in proposizioni teoretiche le depravazioni che si trovano nella vita”.
Ecco che l’intangibilità del dogma diventa il caposaldo che misura il livello di guardia, che però rischia di essere superato per l’arretramento del Magistero che nella forma e nella sostanza, nel linguaggio e nei suoi contenuti ha abbandonato la dogmaticità per la pastoralità ed ha assunto la dialettica al posto del rigore.
In questa situazione, la «dedogmatizzazione», la relativizzazione anche del dogma potrebbe essere il prossimo passo. Si potrebbe davvero arrivare a quella “perversione dedogmatizzante” - già segnalata dal filosofo Antonio Livi a proposito dei nemici esterni alla Chiesa (illuminismo, romanticismo, modernismo in Vera e falsa teologia) – anche sul versante del foro interno? Una Chiesa cioè stretta fra due fuochi: dall’esterno per l’assedio del laicismo, della secolarizzazione, del progressismo; dall’interno, dalla proliferazione incontrollata di tutte le filosofie religiose che si appropriano indebitamente della veste di teologie e che mirano direttamente al cuore della Chiesa, col risultato di rendere profetiche le parole di Ernesto Bonaiuti: “Non contro Roma, né senza Roma, ma con Roma e in Roma”?

Radaelli, che è un cattolico autentico e vero innamorato della Chiesa, chiude il suo lungo e dotto discorso nella fede e nella speranza. La Chiesa è assistita dallo Spirito Santo, ed è agli uomini di Chiesa, ai Vescovi, Giudici e Maestri della fede, che egli chiede di rinunciare “ai cinquant’anni di balbettii ecumenisti” e di ritornare al “linguaggio infuocato del cielo”.
Il discorso, che si apriva all’inizio dell’opera coi Nomi del Figlio che sono Logos, Verbum, Imago, Splendor, Filius, (Sostanza). E Logos, Parola di Dio, Volto, Manifestazione Incarnata (Forma) del Figlio, il Salvatore, la Parola di verità che rende testimonianza al padre (Gv. 19,37), si chiude così – tracciando un cerchio perfetto - con un appello accorato e veemente, da vero figlio della Chiesa, ai Vescovi, cioè ai Successori di quei Dodici che il Signore volle con Sé.
Quest’opera – che durante tutto il suo tragitto non manca di farsi debitrice del migliore spirito tradizionalista rappresentato da Amerio, Gherardini, Livi, de Mattei, O’Malley, Scruton, Gnocchi e Palmaro – può apparire nei suoi primi capitoli di difficile impatto per la ferrea struttura filosofico-metodologica impressagli dall’Autore, ma essa è chiaramente strumentale e finalizzata al successivo scorrimento del discorso sui binari dritti e chiari di una inequivoca epistemologia, strumento di cui l’uomo è dotato per tentare di arrivare alla Verità con l’aiuto indefettibile dei dogmi e del Magistero, allo stesso modo dell’alpinista che si procura arpioni, picchetti e corde per fissarsi strettamente al fianco della montagna e poi salire, salire....

Uno dei più grandi mistici del Novecento – don Divo Barsotti – soleva ripetere che non si è teologi se non si è mistici, se la Divina Presenza non è vissuta nel mondo, e personalmente.

ottobre 2013