Papa Bergoglio si confessa

di Giovanni Servodio

Parte quarta

l 22 dicembre 2005, otto mesi dopo la sua elezione, Benedetto XVI, presentando gli auguri natalizi, pronunciò un discorso di una certa importanza, che toccò alcuni punti essenziali del momento. Da allora quel discorso, per il suo contenuto, è stato considerato il discorso programmatico del nuovo Papa.

Il 19 settembre scorso, il quotidiano della CEI, Avvenire, ha pubblicato il testo integrale dell'intervista del Direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, a Papa Francesco. L’intervista, condotta anche per conto delle altre testate della Compagnia di Gesù, è stata raccolta dal 19 al 23 agosto 2013, in quel di Santa Marta, albergo vaticano in cui alloggia il nuovo Papa.
Nonostante la sua complessiva pochezza e la sua evidente povertà concettuale, questa intervista, pubblicata sei mesi dopo l’elezione di Bergoglio, si presenta come l’equivalente del discorso alla Curia di Benedetto XVI, poiché, per i punti che tocca, delinea con chiarezza il pensare e il sentire di questo nuovo Papa e, quindi, la linea direttrice del suo pontificato.

L’intervistatore chiarisce che « Complessivamente abbiamo dialogato per oltre sei ore, nel corso di tre appuntamenti il 19, il 23 e il 29 agosto. Qui ho preferito articolare il discorso senza segnalare gli stacchi per non perdere la continuità. La nostra è stata in realtà una conversazione più che un’intervista…».
Dal che si può dedurre che non si possa escludere una futura pubblicazione più corposa e particolareggiata di quanto oggi pubblicato, magari distribuita a mo’ di precisazioni correttive, che non guastano mai per esprimere il contorsionismo e la doppiezza dei moderni comunicatori di massa.

Confessiamo che se non fosse per diversi punti particolarmente critici di questa intervista, siamo stati tentati di cestinarla, tanto è intrisa di luoghi comuni e di slogan più o meno articolati, ma siamo stati costretti a prenderla in debita considerazione per il semplice motivo che essa contiene così tante dichiarazioni anticattoliche che ci si chiede se è stato davvero un papa a profferirle.
Il merito di tali dichiarazioni, peraltro, ci ha indotti a considerare che esse devono rappresentare, non solo ciò che pensa e crede Bergoglio, ma anche ciò che pensano e credono i cardinali che lo hanno eletto, non potendosi supporre che essi fossero all’oscuro dell’indole, del sentire e del credere dell’allora cardinale Bergoglio, noto arcivescovo di Buenos Aires. Anzi, è inevitabile ritenere che essi lo abbiano eletto proprio per queste sue caratteristiche, condividendole, approvandole e desiderando che fossero quelle del nuovo Papa e della nuova Chiesa che avevano e che hanno in mente.
Per questi motivi abbiamo ritenuto che fosse più proficuo presentare le seguenti riflessioni distribuite in più parti, per permettere ai lettori di considerarle con una certa ponderatezza, non tanto per quello che scriviamo noi, quanto per quello che ha detto Papa Bergoglio.

Seguiamo il testo pubblicato su Avvenire e incominciamo con la presentazione di padre Spadaro.


Il compito dei religiosi

Qual è oggi nella Chiesa il posto specifico dei religiosi e delle religiose?

«I religiosi sono profeti. Sono coloro che hanno scelto una sequela di Gesù che imita la sua vita con l’obbedienza al Padre, la povertà, la vita di comunità e la castità.  In questo senso i voti non possono finire per essere caricature, altrimenti, ad esempio, la vita di comunità diventa un inferno e la castità un modo di vivere da zitelloni. Il voto di castità deve essere un voto di fecondità. Nella Chiesa i religiosi sono chiamati in particolare ad essere profeti che testimoniano come Gesù è vissuto su questa terra, e che annunciano come il Regno di Dio sarà nella sua perfezione. … Questo non significa contrapporsi alla parte gerarchica della Chiesa, anche se la funzione profetica e la struttura gerarchica non coincidono. Sto parlando di una proposta sempre positiva, che però non deve essere timorosa. … Essere profeti a volte può significare fare ruido, non so come dire… La profezia fa rumore, chiasso, qualcuno dice “casino”. Ma in realtà il suo carisma è quello di essere lievito: la profezia annuncia lo spirito del Vangelo.».

Questa risposta, alquanto evasiva, rivela l’indole ruspante di Bergoglio, una sorta di rozza visione delle cose che è difficile immaginare possa essere maturata all’ombra della figura di Sant’Ignazio di Loyola. Eppure, il gesuita Bergoglio salta con leggerezza dall’“obbedienza al Padre, la povertà, la vita di comunità e la castità” alla “vita di comunità diventa un inferno e la castità un modo di vivere da zitelloni”.
Dov’è il nesso?
Dice Bergoglio: “i voti non possono finire per essere caricature”. Ma non spiega il senso vero di questa possibilità, tranne che non intenda dire che i religiosi e le religiose non possono limitarsi a fare la vita che hanno scelto perché chiamati dal Signore.
Egli dice infatti che “Il voto di castità deve essere un voto di fecondità”, confessando che, secondo lui, la rinuncia alla fecondità per amore di Dio sarebbe una “caricatura”. Ed è inutile che poi precisi, a suo modo, che si tratterebbe di una fecondità coincidente con la profezia, perché questa possibile precisazione non chiarisce, ma complica le cose.
Non è la fecondità che coincide con la profezia: quest’ultima infatti corrisponde al farsi eunuchi per il Regno dei Cieli (cfr. Mt. 19, 12); esattamente la scelta fatta dai religiosi e dalle religiose di “vivere da zitelloni”, come dice spregiativamente Bergoglio. La loro stessa scelta è una profezia. Ma per Bergoglio le cose non starebbero così per il semplice fatto che egli ha un’idea tutta sua, tutta rozza e anche volgare della profezia.
 Egli precisa infatti: “Sto parlando di una proposta sempre positiva, che però non deve essere timorosa. … Essere profeti a volte può significare fare ruido, non so come dire… La profezia fa rumore, chiasso, qualcuno dice ‘casino’.” 

È questa l’idea che Bergoglio ha della profezia: fare “casino”.
Che significa semplicemente rinunciare al chiostro e gettarsi nell’agone del mondo per rumoreggiare, per sollevare gli uomini e muoverli verso l’utopico “regno dei cieli” da realizzare, qui, adesso, sulla terra. È la teologia della liberazione.
Conclusione, questa nostra, che è confermata dalla frase di chiusura: “Ma in realtà il suo carisma è quello di essere lievito: la profezia annuncia lo spirito del Vangelo”.
Spirito del Vangelo che non sarebbe più quello raccomandato da San Paolo nel capitolo 7 della Prima Lettera ai Corinti, che coincide con la scelta da “zitelloni”, ma si risolverebbe nel “far casino”.
In San Matteo (19, 12), Gesù dice: “Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca”.
Ci sembra proprio che Bergoglio non abbia capito il vero senso del “farsi eunuchi per il regno dei cieli” e sicuramente, come indica Nostro Signore, perché “non può capire”. Cosa che non è una seria credenziale per uno che è diventato papa della Chiesa cattolica.

Dicasteri romani

Che cosa pensa dei dicasteri romani?

«I dicasteri romani sono al servizio del Papa e dei Vescovi: devono aiutare sia le Chiese particolari sia le Conferenze episcopali. Sono meccanismi di aiuto. In alcuni casi, quando non sono bene intesi, invece, corrono il rischio di diventare organismi di censura. È impressionante vedere le denunce di mancanza di ortodossia che arrivano a Roma. Credo che i casi debbano essere studiati dalle Conferenze episcopali locali, alle quali può arrivare un valido aiuto da Roma. I casi, infatti, si trattano meglio sul posto. I dicasteri romani sono mediatori, non intermediari o gestori.»

A questo punto ci toccherebbe fare un lungo discorso sull’ecclesiologia cattolica, che non rientrerebbe negli scopi di questo scritto, ci limitiamo quindi a cogliere alcuni elementi importanti di questa risposta.

Incominciamo con l’elemento spurio: “corrono il rischio di diventare organismi di censura. È impressionante vedere le denunce di mancanza di ortodossia che arrivano a Roma.”
Ci chiediamo: a chi si dovrebbe ricorrere se non a Roma per dirimere le questioni controverse e massimamente quelle inerenti l’ortodossia? Una volta, quando nella Chiesa cattolica le cose erano un po’ più serie, si usava dire: Roma locuta est, causa finita est. Secondo Bergoglio si tratterebbe di una pecca, perché “I dicasteri romani… Sono meccanismi di aiuto”.
E qui Bergoglio si contraddice, perché è proprio come meccanismi di aiuto che essi sono chiamati a dirimere le controversie.
Perché questa contraddizione?
Per due motivi.
Il primo è che questi organismi, nonostante riconosca siano al servizio del Papa, Bergoglio li concepisce come enti inutili, perché concepisce come inutile lo stesso papato. Una sorta di piccola confessione che fa capire perché continua a farsi chiamare “vescovo di Roma”.
Il secondo, che getta luce sul primo, è che “i casi debbano essere studiati dalle Conferenze episcopali locali, alle quali può arrivare un valido aiuto da Roma. I casi, infatti, si trattano meglio sul posto.”
Che tradotto in termini più spiccioli, significa che la concezione gerarchica della Chiesa deve lasciare il posto alla moderna concezione democratica, non solo in linea di principio, ma anche in linea di fatto, poiché quando Bergoglio afferma che i “casi si trattano meglio sul posto”, espone semplicemente la sua idea di una Chiesa a somiglianza di una qualsiasi associazione umana: con una concezione temporale e spaziale di quella che dovrebbe essere la concezione soprannaturale della Chiesa.
Per di più, se le questioni inerenti l’ortodossia, per riprendere l’esempio fatto da Bergoglio, è meglio trattarle sul posto, ne deriva che oltre alla morale di situazione egli propugni anche la dottrina di situazione: una Chiesa senza più unicità dottrinale, arricchita dal pluralismo dottrinale, come si usa dire e fare da 50 anni a partire dal Vaticano II.

Ora, è opportuno ricordare che perfino la concezione democratica moderna, pur ammettendo la pluralità di pensiero, non ammette che con questa si possa soppiantare il principio della democrazia: tutti possono pensare liberamente ciò che vogliono, ma è proibito pensare che la democrazia sia un errore… chi lo fa è antidemocratico, quindi non ha più il diritto di pensare liberamente.
La Chiesa moderna, invece, che rincorre il mondo, non poteva non essere, con Bergoglio, più realista del re, per cui, non solo Roma non deve parlare più, per chiudere le controversie, ma deve lasciare che perfino l’ortodossia, cioè la Chiesa stessa, resti in balia del localismo divisivo che si auto-confeziona le sue ortodossie.

E questo prelude, come fa notare subito lo stesso intervistatore, alla sinodalità, cioè alla concezione in base alla quale la Chiesa non sarebbe più l’unico Corpo di Cristo con le sue membra, ma una sommatoria di corpi separati che concorrerebbero alla costituzione dell’“unico soggetto Chiesa”, come diceva Ratzinger.

Sinodalità ed ecumenismo

Ricordo al Papa che … aveva affermato «la strada della sinodalità» come la strada che porta la Chiesa unita a «crescere in armonia con il servizio del primato». Ecco la mia domanda, dunque:
Come conciliare in armonia primato petrino e sinodalità? Quali strade sono praticabili, anche in prospettiva ecumenica?.

«Si deve camminare insieme: la gente, i Vescovi e il Papa. La sinodalità va vissuta a vari livelli. Forse è il tempo di mutare la metodologia del Sinodo, perché quella attuale mi sembra statica. Questo potrà anche avere valore ecumenico, specialmente con i nostri fratelli Ortodossi. Da loro si può imparare di più sul senso della collegialità episcopale e sulla tradizione della sinodalità. Lo sforzo di riflessione comune, guardando a come si governava la Chiesa nei primi secoli, prima della rottura tra Oriente e Occidente, darà frutti a suo tempo. Nelle relazioni ecumeniche questo è importante: non solo conoscersi meglio, ma anche riconoscere ciò che lo Spirito ha seminato negli altri come un dono anche per noi. Voglio proseguire la riflessione su come esercitare il primato petrino, già iniziata nel 2007 dalla Commissione Mista, e che ha portato alla firma del Documento di Ravenna. Bisogna continuare su questa strada

La chiave di questa risposta sta nell’espressione:
riconoscere ciò che lo Spirito ha seminato negli altri come un dono anche per noi”, meglio esplicitata subito dopo: “dobbiamo camminare uniti nelle differenze: non c’è altra strada per unirci. Questa è la strada di Gesù”.

Queste espressioni, che risentono clamorosamente dello spirito democratico moderno, per essere ben comprese, vanno lette alla luce di ciò che dice San Paolo a proposito dei carismi:
Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti operatori di miracoli? Tutti possiedono doni di far guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?” (I Corinti, 12, 28-30).

San Paolo non presenta solo un elenco dei carismi, ma una distribuzione gerarchica di essi, e la fa precedere da una precisazione importante:
Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.” (I Corinti, 12, 4-6).

Il che significa che tutte le differenze sono distribuite ed ordinate in funzione di una unità a priori, quella stessa che sempre San Paolo illustra con la metafora dell’unicità del corpo (I Corinti, 12, 12-27): un unico organismo, la Chiesa cattolica, che comprende inevitabilmente una pluralità di componenti, tutte ordinate dalla Chiesa e per la Chiesa. Una Chiesa a priori, che è il Corpo di Cristo, che precede e fonda le differenze che per ciò stesso lavorano in sincrono, con quella organicità che sola regge un organismo.

Dire invece “dobbiamo camminare uniti nelle differenze”, significa disconoscere innanzi tutto l’organicità e supporre che “camminare uniti” possa equivalere all’“essere uniti”. 
Da cui discende che non ci sarebbe più un unico corpo con le sue membra, ma una sommatoria di corpi differenti aventi la pretesa di costituire un corpo solo, che inevitabilmente sarà altro dalla Chiesa cattolica.

Questa impossibilità logica si applicherebbe poi sia alle chiese particolari, con la sinodalità o collegialità, sia alle diverse confessioni cristiane, con l’ecumenismo, tale che nel primo caso non ci sarebbe più la Chiesa Una e nel secondo caso non ci sarebbe più la Chiesa Cattolica; al loro posto ci sarebbe una “chiesa plurale” che unitamente ad altre confessioni realizzerebbe una sorta di super-chiesa.
La Chiesa cattolica distrutta e affogata in un magma religioso continuamente fluttuante dove la roccia di Pietro verrebbe sostituita dalla sabbia composta, scomposta e ricomposta dal fluttuare del continuo divenire.
È l’approdo al regno dell’Anticristo, dove si consuma di nuovo il connubio innaturale tra i figli di Dio e le figlie degli uomini (Gen 6, 1-7), preludio alla fine del secolo e al giudizio finale.

Conclusione, questa nostra, suggerita abbastanza chiaramente dalla frase: “riconoscere ciò che lo Spirito ha seminato negli altri come un dono anche per noi.
Altri” e “noi”, dice Bergoglio, cancellando d’un sol colpo duemila anni di insegnamento cattolico e ammettendo che Nostro Signore non avrebbe edificato la Sua Chiesa Una (cfr. Mt. 16, 18) e non avrebbe promesso lo Spirito Santo come guida alla verità tutta intera (cfr. Gv. 16, 7 e 13), ma avrebbe promosso l’una Chiesa e le altre e avrebbe promesso una pluralità di verità.
Con queste premesse, non è difficile prevedere che Bergoglio passerà inevitabilmente dall’ecumenismo intercristiano all’ecumenismo interreligioso, chiudendo così il cerchio e il percorso che conduce all’approdo anticristico di cui dicevamo prima.

Circa il Documento di Ravenna, citato da Bergoglio, oltre a rimandare allo stesso, reperibile sul sito del Vaticano, e a segnalare che in esso si ribadisce la pluralità delle “chiese”, pensiamo sia opportuno riportarne due passi che aiutano a comprendere con facilità e immediatezza la persistente equivocità di questi moderni documenti ecumenici.

Al n° 4 è detto: Unità e molteplicità, la relazione tra la Chiesa una e le molte Chiese locali, tale relazione costitutiva della Chiesa pone anch’essa la questione della relazione tra l’autorità, inerente ad ogni istituzione ecclesiale, e la conciliarità, che deriva dal mistero della Chiesa come comunione. Poiché i termini «autorità» e «conciliarità» abbracciano uno spazio molto vasto, inizieremo con il definire il modo secondo il quale noi li comprendiamo.

A questo n° 4 è stata aggiunta la seguente nota, unica del documento, della quale ci limitiamo a sottolineare due passaggi:
Dei partecipanti ortodossi considerano importante sottolineare che l’uso dei termini «Chiesa», «Chiesa universale», «Chiesa indivisa», e «Corpo di Cristo», nel presente documento e negli altri documenti elaborati dalla Commissione Mista, non sminuiscono in alcun modo la comprensione che la Chiesa ortodossa ha di se stessa quale Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, di cui parla il Credo di Nicea. Dal punto di vista cattolico, la stessa consapevolezza di sé implica che: la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica sussiste nella Chiesa cattolica (Lumen gentium, 8); ciò non esclude il riconoscimento che elementi della vera Chiesa siano presenti al di fuori della comunione cattolica.

Con buona pace del Vaticano II, del “subsistit in”, della Dominus Iesus e del cardinale Ratzinger.

Il ruolo della donna

Quale deve essere il ruolo della donna nella Chiesa? Come fare per renderlo oggi più visibile?

«È necessario ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. … Le donne stanno ponendo domande profonde che vanno affrontate. La Chiesa non può essere se stessa senza la donna e il suo ruolo. La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei Vescovi. … Bisogna lavorare di più per fare una profonda teologia della donna. Solo compiendo questo passaggio si potrà riflettere meglio sulla funzione della donna all’interno della Chiesa. Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. La sfida oggi è proprio questa: riflettere sul posto specifico della donna anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa.»


Risposta parecchio implicante, della quale è importante cogliere i punti chiave.

Innanzi tutto: “La Chiesa non può essere se stessa senza la donna e il suo ruolo”.
Questa espressione, che si basa sulla riserva mentale che la Chiesa, fino ad oggi, non sarebbe stata “se stessa”, rivela come Bergoglio, alla pari di tutti quegli uomini di Chiesa che col Vaticano II si sono affrettati a mutuare dal mondo principi e regole, soggiaccia al mito del femminismo più irrazionale, fra l’altro già in parte superato dallo stesso mondo laico.
Uno degli aspetti di quella posizione di retroguardia che ha caratterizzato il predicare e l’agire della Chiesa conciliare in questi ultimi cinquant’anni.

Ora, che Maria, la Santissima Vergine Maria Madre di Dio, sia “più importante dei vescovi” è cosa talmente scontata da rivelare la puerilità del ragionare di Bergoglio, aggravata dal fatto che egli sembra disconoscere che al momento dell’istituzione dell’Eucarestia, fondamento e culmine della vita della Chiesa, proprio la Vergine non fosse presente, per volontà di Nostro Signore.
Cosa questa che azzera tutto il ragionamento di Bergoglio e ne rivela tutta l’infondatezza.

Secondo elemento: “Bisogna lavorare di più per fare una profonda teologia della donna. Solo compiendo questo passaggio si potrà riflettere meglio sulla funzione della donna all’interno della Chiesa.”
La “profonda teologia della donna”, dice Bergoglio, roba da far venire in mente la fesseria ultimamente inventata dal mondo laico col cosiddetto “femminicidio”.
Ora, a parte il fatto che il diavolo, come al solito, fa le pentole ma non i coperchi, al punto che si piomba nel ridicolo chiamando “femminicidio” l’uccisione di una donna, rivelando così che non la donna si vuole tutelare, ma la femmina, secondo un’accezione tutta moderna e tutta sessuologica della donna; a parte questo, è davvero risibile voler definire il preciso reato di “uccisione di una donna” mentre è sussistente il reato di “omicidio” che già lo comprende con l’aggiunta delle circostanze aggravanti; risibile per di più perché il termine che designa il reato non è lo specifico “maschicidio”, ma il generico e onnicomprensivo “omicidio”.

Ora, questa brillante idea di Bergoglio della “teologia della donna”, suscita lo stesso identico ridicolo e la stessa risibilità, perché nessuno sano di mente potrebbe osare affermare che fino ad oggi i teologi si sarebbero interessati esclusivamente degli uomini e quindi della “teologia dell’uomo”.

Terzo elemento: “Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti”.
Il “genio femminile”, dice Bergoglio, ripetendo anche qui un luogo comune, che nasconde il moderno pregiudizio secondo cui una cosa sarebbe il comune e ordinario “genio maschile”, altra cosa l’eccezionale e straordinario “genio femminile”.

Ora, ricordiamo che il Martirologio Romano elenca circa 1.500 donne su circa 10.000 santi, suggerendo una smentita clamorosa di questo luogo comune tutto moderno e tutto acattolico.
Qual è allora il senso di questa affermazione di Bergoglio?
È senz’altro lo stesso di quello che genera la strana idea che nei posti di responsabilità è necessario che ci sia lo stesso numero di donne e di uomini. Idea che viene dritta dritta da un’altra anomalia del mondo moderno, secondo la quale saremmo tutti uguali, come fossimo stati tratti per fotocopia o per clonazione, come piacerebbe oggi.

Dal punto di vista pratico, appare evidente che nonostante Bergoglio affermi: “Temo il machismo in gonnella”, - ove con l’iberico “machismo” si deve intendere la scimmiottatura del maschio in auge nei moderni ambienti maschili dove sovrabbondano i quaquaraquà e difettano gli uomini, - ciò nonostante egli ne accetti il principio, ritenendo che in questo modo possa compiacere il maggior numero possibile di uditori.
Non a caso tiene a precisare: “Le donne stanno ponendo domande profonde che vanno affrontate”.
E le domande profonde (!?) non sono altro che una richiesta di maggiore presenza femminile nei dicasteri romani, nei consigli diocesani, nei consigli parrocchiali e, a salire, ai vertici nelle congregazioni religiose, ai vertici delle conferenze episcopali, nel sacerdozio, nell’episcopato e infine nel papato.
Tutte domande che, pur basandosi su niente di cattolico, hanno un solido fondamento sulla necessità che il “genio femminile” partecipi alle decisioni più importanti, come dice Bergoglio: cosa c’è infatti di più importante nella gestione della Chiesa cattolica dell’elezione di un papa?

Questa deriva “al femminile”, espressa tante volte con la battuta “la Chiesa è femminile”, ripresa da Bergoglio, data da diversi anni: dopo la superficiale affermazione di papa Luciani, ”Dio è più madre”, fu papa Wojtyla che impostò quella “teologia della donna” oggi auspicata da Bergoglio. Ed era inevitabile che adesso ci si spingesse più avanti, sotto la pressione delle domande che continuano a porre le donne.

A questo punto è opportuno precisare che, in linea di principio, connotare Dio al maschile o al femminile è cosa impropria, ma è anche opportuno aggiungere che ci sono due modi per guardare cose così delicate: il punto di vista dell’uomo e il punto di vista di Dio, se così si può dire.
Da questo secondo punto di vista è scontato che Dio non è né maschio né femmina, basta pensare che tali categorie appartengono al creato e Dio è fuori dal creato: è il Creatore.
Dal punto di vista dell’uomo invece, la creatura ha bisogno di guardare a Dio con gli occhi del creato, ha bisogno di concepire Dio secondo le categorie del creato, che è fatto come l’ha voluto Dio stesso. Da qui la stessa rivelazione di Dio che suggerisce all’uomo, cioè all’umanità, un’idea maschile di Dio, e non perché la Bibbia, per esempio, l’abbiano scritta degli uomini, ma perché è Dio che l’ha ispirata ed è Dio stesso che, perché fosse scritta, ha ispirato gli uomini e non le donne.

Fin dalla Genesi, Dio ispira lo scrittore sacro a descrivere la creazione dell’uomo in chiave maschile e se lo fa non è perché non avesse ancora compreso l’enorme importanza del “genio femminile”, ma perché Egli ha creato l’uomo e la donna perché svolgessero una vita ordinata in modo diverso per ognuno dei due. E non risulta, fino ad oggi, che Dio abbia cambiato idea, semmai abbiamo la prova che sono sempre stati l’uomo e la donna, ancor più nella modernità, a cambiare idea fino a pretendere di mettersi al posto di Dio e di cambiare sesso.
Che poi anche gli uomini di Chiesa non si accorgano di questa nuova trappola del Serpente e rimangano affascinati dalle sue lusinghe, è cosa che attiene alla continua degenerazione di questo mondo, che il Vaticano II ha invece insegnato essere crescita e maturazione; volutamente dimentico che la maturazione, nell’ambito naturale, porta inesorabilmente alla marcescenza.

Non ce ne voglia il vescovo Bergoglio se ci permettiamo di citare un testo che non può essere inserito nel contesto attuale, ma visto che questo testo è tratto dalla Bibbia, ancora letta in Chiesa con la conclusione “Parola di Dio”, osiamo richiamarci ad essa convinti, forse stoltamente, che la “Parola di Dio” sia di gran lunga più seria e più autorevole della parola di Bergoglio.

Il libro della Genesi (3, 16-19) introduce così il cammino terreno dell’umanità dopo la disubbidienza originaria:
Alla donna disse:
«Moltiplicherò
 i tuoi dolori e le tue gravidanze,
 con dolore partorirai figli.
Verso tuo marito sarà il tuo istinto,
 ma egli ti dominerà».
 All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare,
 maledetto sia il suolo per causa tua!
 Con dolore ne trarrai il cibo 
per tutti i giorni della tua vita.
 Spine e cardi produrrà per te 
e mangerai l’erba campestre.
 Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; 
finché tornerai alla terra,
 perché da essa sei stato tratto: 
polvere tu sei e in polvere tornerai!»”.

Questo passo rivela alcune cose parecchio interessanti ai fini dell’argomento che stiamo trattando adesso, vediamole una alla volta.
Alla donna: “con dolore partorirai figli”; dove “con dolore” è la conseguenza del peccato originale, mentre “partorirai figli” è lo status originario della donna, il ruolo della donna fin dalla sua creazione.  Ruolo che la donna assolve volgendosi al marito, col peccato originale diventato soggiacenza al marito, a significare che il volgersi al marito è la condizione originaria della donna.
All’uomo: “Con dolore ne trarrai il cibo … Con il sudore del tuo volto mangerai il pane”; dove “con dolore” e “con il sudore” sono la conseguenza del peccato originale, mentre “trarrai il cibo” e “mangerai il pane” indicano lo status originario dell’uomo, con la specifica indicazione che “mangiare il pane” significa lavorare e trasformare, elevandolo, il prodotto della terra.

In sintesi si può dire che lo status e il ruolo della donna e dell’uomo sono: per lei, la perpetuazione della specie, mettere al mondo gli esseri viventi – non a caso lei porta il nome di Eva, la “vivente”; per lui, il sostentamento degli esseri viventi attraverso il suo impegno di artefice, ad imitazione dell’Artefice Supremo.

A questo bisogna aggiungere il senso implicato nella doppia coppia di termini che nella Genesi indicano l’uomo e la donna: Ish e Ishà, che ne designano l’aspetto intrinseco; e Adam e Hewa che ne designano l’aspetto estrinseco.
In ebraico l’uomo è detto Ish, il seminatore, colui che inizia, che dà forma; la donna è detta Ishà, colei che raccoglie il seme, che sviluppa, che dà sostanza alla forma; la seconda derivata dalla prima, come in Gen. 2, 18-21, ed entrambi secondo la relazione indicata in Gen, 2, 22-24:
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse:
«Questa volta essa
 è carne dalla mia carne 
e osso dalle mie ossa. 
La si chiamerà donna
 perché dall’uomo è stata tolta».
 Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne.

L’uomo è Adam, la rappresentazione plastica di Dio, fatto a Sua immagine e somiglianza, è la forma in atto; la donna è Hewa, la base dell’esistenza, che traduce la forma in sostanza vivente.

Mettendo insieme questi elementi se ne trae una sintetica conclusione: l’uomo e la donna concorrono a realizzare il progetto di Dio, che è l’esistenza dell’umanità posta nel contesto della creazione e al centro di essa.
I due svolgono ruoli diversi e complementari, secondo una gerarchia che segue il processo stesso della creazione: Dio, l’uomo, la donna.
Ogni disordine porta inevitabilmente al turbamento nell’attuazione del progetto, il primo esempio del quale è la consumazione del peccato originale, il cui svolgimento è indicativo di tale turbamento prodotto dal disordine:
1) non si segue più l’ordine di Dio, ma il suggerimento del demonio;
2) non è l’uomo che guida la donna, ma la donna che seduce e induce l’uomo;
3) non è la donna che segue l’informazione e la direttiva dell’uomo, ma l’uomo che viene meno e cede al suggerimento invertito;
4) non è più nel rapporto armonico tra l’uomo e il creato che si svolge l’esistenza, ma nel susseguirsi di reciproche forzature e turbative:
la terra produce spine, l’uomo è costretto ad estirparle;
la procreazione non è più accompagnata dalla sola gioia, ma anche dal dolore;
la donna non aderisce più all’uomo, ma lo appesantisce;
l’uomo non si aggrega più alla donna, ma la domina.

Se Bergoglio avesse mai meditato su questo passo della Bibbia, che sta “in principio” di essa, forse avrebbe evitato di lasciarsi distrarre dalle moderne lusinghe del demonio e di essere indotto a supporre stoltamente che il “genio femminile” debba abbandonare la sua natura femminile, debba disertare il proprio ambiente naturale, il focolare domestico, debba concorrere con gli uomini nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti, debba ritenere più importante un luogo diverso da quello in cui Iddio l’ha destinata, debba venir meno, insomma, al suo dovere di stato… distruggendo ogni “femminilità” e ogni “genio”.

Se poi passiamo a considerare che lo sviluppo “operativo” di questa destinazione originaria dell’uomo e della donna, non è esclusivo appannaggio degli esegeti della Bibbia, ma è chiaramente contenuto nel Nuovo Testamento per bocca di San Paolo, si comprenderà che non siamo noi a fare deduzioni gratuite, ma è l’Apostolo delle genti che si premura di ribadire un insegnamento che dovrebbe essere proprio di ogni cattolico e massimamente del Papa.

L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli. Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna; come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio.” (I Corinti, 11, 7-12).

Passo in cui San Paolo ricorda il rapporto gerarchico che c’è da Dio, all’uomo, alla donna, da cui discende la funzione e il posto che l’uomo e la donna devono occupare.
E San Paolo ribadisce che questo rapporto e queste funzioni,
in relazione agli uomini tra di loro, sono proprie dell’organizzazione sociale dei cristiani, al punto che “la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza”;
mentre in relazione a Dio, nel Signore, dice San Paolo, “né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna; come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio.
Funzioni e posti distinti e gerarchizzati, espressioni di un ordine sociale che deriva direttamente da Dio e assicura l’organica strutturazione della società e della famiglia secondo la volontà di Dio.
Altro che “genio femminile” necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. Se Bergoglio avesse seriamente meditato sulle lettere di San Paolo, si sarebbe reso conto che in una società cristiana, com’è la Chiesa, la funzione e il posto della donna, distinti e gerarchizzati rispetto a quelli dell’uomo, sono indispensabili per il corretto funzionamento di una società santamente cristiana, in vista del perseguimento del fine proprio in questo mondo: cioè che il “tutto che proviene da Dio” ritorni a Dio secondo le disposizioni e la volontà di Dio.

E si sarebbe reso conto della vera portata di quest’altra raccomandazione di San Paolo:
le donne … Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea” (I Corinti, 14, 35).

E questo, non per un malinteso senso della limitazione della donna, ma perché
il posto della donna è “a casa”, dove conosce ogni cosa di ciò che dev’essere fatto in seno al focolare domestico per il bene della famiglia, del marito e dei figli;
mentre il posto dell’uomo è nell’assemblea, cioè fuori casa, dove deve provvedere a che tutto si svolga nel modo migliore per il bene della famiglia e della società e a maggior gloria di Dio. È qui che si prendono le decisioni importanti, ed è qui che la donna non c’è, perché non è il suo posto, e se “vuole imparare qualcosa” interroghi il marito al suo rientro a casa.

A questo punto si rende necessaria una precisazione.
Abbiamo parlato di ordine, di organicità, di volontà e di disposizioni di Dio, abbiamo inteso cioè fissare i princípi che fondano la costituzione della famiglia e della società cattolica; questo però non significa evitare la constatazione dell’oggettiva condizione di spirito in cui vivono oggi gli uomini e le donne, tenuto conto della condizione oggettiva del mondo moderno in cui viviamo.
Se si guarda a questo importante aspetto della questione, si constata che sia le donne, sia gli uomini vivono in un ambiente e con uno stato di spirito ben lontani dalla condizione ideale: la società è degenerata e corrotta, il modo di pensare e di agire è deviato e soggiace alle suggestioni più perniciose e devastanti; l’uomo non è più in grado di svolgere al meglio la sua funzione di guida, di marito, di padre; la donna, abbandonata così a se stessa, insegue tutte le chimere moderne che la allontanano dal focolare domestico e dalla famiglia, e che la portano a vivere disordinatamente la sua funzione di aiuto dell’uomo, di moglie e di madre.

Oggi il cattolico è costretto a porsi in uno stato d’animo quasi eroico per poter resistere alla marea travolgente della perdizione, e questo lo mette in condizione di poter fare come meglio può, ricorrendo alla protezione della Santa Vergine, all’aiuto di Dio e ai sacramenti;
ed è proprio per questo che i Pastori del gregge devono sforzarsi di condurre le pecore lontano dalle pasture avvelenate, ricorrendo ai richiami più rigidi e più apparentemente impraticabili perché questi possano servire ai fedeli da bussola e da áncora.

Se il mondo spinge in tutti i modi verso l’abisso, la Gerarchia deve prodursi nell’offrire quante più funi d’ancoraggio è possibile, funi intrecciate con le fibre della Sacra Scrittura e della Tradizione, appositamente predisposte da Dio non per i fedeli di un tempo, ma per i fedeli di tutti tempi fino alla Parusia.
La Gerarchia non deve raccontare ai fedeli le stesse favole rivoluzionarie che raccontano coloro che combattono Dio e che oggi dirigono il mondo; non deve raccontare la frottola del “posto specifico della donna anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa”, come fa stoltamente Bergoglio.


(segue)

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ottobre 2013

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