YARA GAMBIRASIO
NOVELLA MARIA GORETTI?

DALLA TRAGEDIA ALLA FARSA

di L. P.

Mentre ringraziamo l’amico L. P. per questo suo puntuale e lucido chiarimento su quest’ultima novità che lascia quantomeno perplessi, pensiamo sia il caso di far notare come, giorno dopo giorno, la misura si vada sempre più colmando… fino a quando traboccherà… e allora saranno dolori!
Ma tant’è. Cosa possiamo mai aspettarci da questi moderni uomini di Chiesa che non si accorgono di come e di quanto abbiano banalizzato Dio, a partire dal Vaticano II, sostituendo l’oggettiva realtà della centralità di Dio con la colpevole irrealtà della centralità dell’uomo?
Non solo, ma visto che costoro addirittura se ne vantano, ne vanno fieri, è palese che abbiano perso il bene dell’intelletto.
Nessuna meraviglia, quindi, che continuino a banalizzare ogni cosa religiosa, comprese le più eminenti, in questo caso: la santità.
Cosa potrebbe mai pensare della santità, questa gente ridotta così, se non che si tratti di una nota di merito meramente umana, che va assegnata a questo o a quella sulla base di una certa piacevolezza e di una qualche sollecitazione emotiva, pubbliche o private che siano. Meglio pubbliche, perché più sono condivise dal mondo dei miscredenti, più sono indice del volgare avvicinamento al mondo e del blasfemo connubio tra gli uomini un tempo di Dio e gli uomini da sempre del demonio.

Kyrie, eleison; Christe, eleison; Kyrie, eleison.

Commentiamo quanto annunciato dai telegiornali e dagli organi d’informazione – stampa e rete – le considerazioni cioè, del rev. don Corrino Scotti, parroco di Brembate, tessute su un possibile parallelo Yara = Maria Goretti: «Anche Yara Gambirasio è stata selvaggiamente uccisa per essersi opposta a un tentativo di stupro», alle quali considerazioni, oltre alla voce popolare di Brembate del “santa subito”, c’è da allineare il parere, riportato sulla rivista “Nuovo”, di don Tonino Spartà secondo cui: «se venisse accertato che Yara ha resistito al suo carnefice, difendendo la propria purezza, potrebbe essere santa come Maria Goretti». Aggiungiamo l’analogo e rorido parere che Antonio Socci, more solito a traino del sentimentalismo, ha espresso su “Libero” secondo cui la testimonianza di Yara è quella di chi oggi afferma, con la perdita della vita, la difficoltà ad essere cristiani e il coraggio di dimostrarlo. Teoria di nuovo conio che non trova riscontro nella bimillenaria dottrina della Chiesa.
La giovane di Brembate, vittima di una violenza non ancor definita, torna quindi alla cronaca non già per l’evolversi delle indagini e per l’identificazione accertata del suo assassino, ma per un nuovo fronte, quello del martirio, per ora solo ipotizzato ma, paradossalmente, per il solo essere ipotizzato è dato per certo.
 
Nell’affrontare l’argomento – perché è, questo, chiaramente, un tema da affrontare, un doveroso tema che è spia di un evidente degrado sentimentalteologico  – vogliamo precisare che il nostro discorso correrà su un  livello di dottrina conclamata, rappresentando, nel contempo convinta e dichiarata partecipazione al dolore dei genitori della fanciulla e netta esecrazione di un crimine che, oggi, per una quantità mai prima verificatasi, di simili delitti  - una quantità che ci sta sommergendo - rischia di essere archiviato come uno dei tanti.
Pertanto, quanto diremo in risposta alle tèsi formulate dai tre esponenti sopra citati, non suona minimamente atteggiamento indelicato o banalizzante nei riguardi della vittima, a cui rivolgiamo il nostro pensiero per raccomandarla al Signore, così come facemmo con la nostra preghiera nel momento in cui apprendemmo la tragica e sconvolgente notizia della sua morte, ma si fa monito, il nostro intervento, per un accorto uso della discrezione, del sano e tomista realismo e anche del senso del ridicolo.
     
Rileviamo, intanto, come e qualmente l’ecumene cattolica venga da tempo delegata – o, piuttosto, si autodeleghi - ad esprimere, con la nota formula “santo sùbito”, sull’onda di forti spinte emotive, irrazionali ed estemporanee, create ed  amplificate dai massmedia, esperti nel creare “stati d’animo” e “brodi di cultura” ben canalizzati, e a formulare pareri e proposte che, per la serietà intrinseca, spetterebbe all’ufficio della Chiesa. Usiamo il condizionale “spetterebbe” perché dobbiamo rilevare quanto e come l’attuale Magistero postconciliare dimostri di subire la forza di pressione di queste istanze populiste e mondane, ignorandone gli aspetti negativi e le ombre, sì come  sembra sia già avvenuto per tre recenti canonizzazioni di cui diamo brevissimi cenni a mo’ di esempio.
    
Noi abbiamo espresso, da sempre, forti e fondate riserve circa la santità dei due pontefici, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, così come abbiamo eccepito su quella di Madre Teresa di Calcutta, figure per le cui santificazioni, sono state  modificate – è il caso di dire, ad personam - norme e procedure secolari, quali: l’accorciamento dei tempi di attesa dalla morte; la cancellazione del ruolo di chi, delegato a scoprire eventuali lati oscuri del soggetto, era detto “avvocato del diavolo”; la non necessità di determinati e particolari miracoli,  ma, soprattutto, è stata seppellita una delle condizioni più eminenti e intoccabili che qualifica come santo un cristiano: l’ortodossìa, la fedeltà, cioè, manifesta e praticata, alle norme della sequela di Cristo in tal modo da essere corrispondente all’espressione paolina: «Sono stato crocifisso per sempre con Cristo. Dunque non son più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal. 2, 20). Diventare un “alter Christus”. Da quanto diremo in appresso, si può verificare la fondatezza della nostra osservazione.
    
Si sa che Teresa di Calcutta dichiarò di non aver mai voluto battezzare un bambino morente – palese trasgressione al comando di Gesù – e non per de relato ma per sua stessa testimonianza, così come suona: «Cerchiamo di dare ai morenti quello che desiderano, secondo quanto dettano le loro leggi, che siano induiste, musulmane, buddiste, cattoliche protestanti o qualsiasi altra cosa». (Madre Teresa: la gioia di amare – Ed. Mondadori 1997/2010, 17 novembre), ed ancora: «Che siamo di religione indù, musulmana o cristiana, è da come viviamo che si vede se siamo o no pienamente Suoi…» (ibidem, 25 novembre) così come ancora: «Spero di riuscire a convertire la gente. E con ciò non intendo dire quello che pensate. Ciò che spero è di riuscire a convertire i cuori. Neppure Dio onnipotente può convertire una persona se questa non lo desidera. Ciò che tutti noi stiamo facendo con il nostro lavoro, al servizio della gente, è avvicinarsi a Dio. È così che va inteso il termine conversione: la gente pensa che la conversione sia un cambiamento repentino. Non è così. Se, stando a contatto con Dio, Lo accettiamo nella nostra vita, allora ci stiamo convertendo. Diventiamo indù migliori, musulmani migliori, cattolici migliori o qualunque cosa siamo, e dunque, essendo migliori, ci avviciniamo a Dio» (ibidem, 8 dicembre).
Beh, in quanto all’impotenza di Dio a convertire, basti l’esempio di San Paolo al quale non fu possibile reagire al pungolo di Cristo.
   
Non si può negare quanto evidente e disinvolta sia la deriva e la divaricazione tra la visione sincretistico/relativistico/filantropica di Teresa di Calcutta e la vera missione che Cristo ha assegnato ai suoi discepoli, solo se poniamo attenzione a quanto Egli ordina: «Andate dunque ed ammaestrate tutte le nazioni, battezzando nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt. 28,19). Altro che lasciarli morire da buoni buddisti, da buoni musulmani o da buoni indù, rispettandone la cultura! Cristo ha ordinato di battezzare.
      
Ed in più, si consideri quale buon esempio possa aver dato la stessa Madre Teresa, col recarsi spesso a pregare, entro una pagoda, nella posizione orientale del fior di loto, cristiana cattolica in mezzo ai buddisti e davanti all’idolo obeso. Possiamo considerare tale comportamento rispettoso del primo comandamento?
  
Eppure, il “santa subito” ha creato le condizioni per una dichiarazione di santità che, diciamolo, cozza fragorosamente contro gli asserti sopra citati. Vi immaginate un San Pio da Pietrelcina che, come agiscono alcuni preti da teologìa neoterica, avesse licenziato dal confessionale il penitente col dirgli: “Non ti crucciare, segui la tua coscienza che sa quale sia il male e il bene. Non avere sensi di colpa!”?
   
In quanto a papa Giovanni XXIII, basta ed avanza la ricognizione degli errori d’ordine teologico, liturgico, morale e diplomatico che il prof. de Mattei ha svolto e pubblicato (Il Foglio, 24 aprile 2014) in un’intervista riportata anche su questo nostro sito. Noi vogliamo ricordare ad esempio, la disinvolta sicumera con cui riteneva: essere, la massoneria, parallela e non ostativa alla Chiesa tanto da rassicurare il diplomatico francese Yves Marsaudon, gran maestro 33, a restare, senza troppi scrupoli ma in serenità, nella fratellanza (G. Galeazzi – F. Pinotti: Vaticano massone, ed. Piemme 2013, pag. 338-425); essere la chiesa orientale scismatica  né più né meno ortodossa che la Chiesa cattolica stante poche e risibili differenze, quali ad esempio la questione del “Filioque”! «Cattolici e ortodossi non sono nemici, ma fratelli. Hanno la stessa fede, partecipano agli stessi sacramenti… lasciamo le antiche controversie… più tardi, benché partiti da vie diverse, ci si incontrerà nell’unione delle Chiese per formare, tutti insieme, la vera ed unica Chiesa di Cristo» (Sac. Andrea  Mancinella: 1962 Rivoluzione nella Chiesa, Ed. Civiltà, 2010, pag.78); essere il messaggio di Fatima  mera ciarla di una pastorella visionaria; essere san Pio da Pietrelcina, immagine vivente della passione di Gesù, un tristo figuro da  inquisire con metodi da feroce inquisizione di stampo sovietico.

Interessante, e meritevole da essere conosciuto - perché certamente, come tante altre circostanze non proprio esemplari di Roncalli, è stata tenuta nascosta nel corso dell’istruttoria di canonizzazione - è la circostanza che Romano Amerio riporta sul proprio zibaldone, in cui racconta in qual modo si comportò il chierico Angelo Roncalli  allorché mons. Gustavo Testa, all’epoca  anch’egli chierico – anno 1903 - gli propose di far visita, insieme a don Brizio Casciola, allo scrittore Fogazzaro ritenuto  in forte puzzo di modernismo. Roncalli fu prontissimo a dissuaderlo, dicendo: «Sei matto? Non capisci che compromettiamo la nostra carriera?» (Romano Amerio: Zibaldoneaforisma 227 pag.131 – ed. Lindau, 2010).
 
Di Giovanni Paolo II sono fiumi le pubblicazioni in cui vengono messe a nudo le aberrazioni teologiche, liturgiche, morali e giuridiche. Tanto per segnalare: la dottrina della Redenzione universale e della Rivelazione sdoppiata (cfr. Johannes Dӧrmann: La teologìa di GP II e lo spirito di Assisi – 4 vv. ed. Ichthys, 1992); la riabilitazione di Lutero (7 novembre 1980: «Io vengo a voi verso l’eredità spirituale di Martin Lutero, esponendone la profonda spiritualità»); l’equiparazione di tutte le religioni considerate, a pieno titolo, espressione dello Spirito Santo (Assisi, ottobre 1986); denuncia del proselitismo cattolico - ritenuto quale forma sorpassata e non più accettata – nel documento di Balamand (Libano, 24 giugno 1994); bacio del Corano e proclamazione dello stesso come libro ispirato di religione rivelata (O. R. 14 maggio 1999); riduzione del Cristo, Logos del Padre, a semplice esperienza religiosa, pari a quella di altri fondatori: Lao Tse, Confucio, Buddha, Maometto, Zoroastro (O. R. 10 settembre 1998), in evidente e non sanato contrasto con l’Enciclica “Pascendi dominici gregis” che condanna espressamente il “concetto di esperienza religiosa trasmessa agli altri”, che nasce, cioè, dalla coscienza personale; la celebrazione di riti pagani  (Benin, febbraio 1993 – Madras, 2 febbraio 1986) dove partecipa rispettivamente con gli sciamani voodoo e dove si fa cresimare, con sterco di ‘vacca sacra’, da una sacerdotessa di Shiva; coinvolgimento nelle nefaste e oscure vicende Mafia/Ior/Banco Ambrosiano /Solidarnosc e l’intesa con il B’nai B’erith, potente massoneria finanziaria ebraica; il 25 maggio, in Canterbury, partecipa illegalmente alla concelebrazione anglicana, violando il CDC; cancella, con la consulenza del cardinale Ratzinger, futuro Benedetto XVI, il canone 2335 del CDC/1917 che condanna la massoneria, sostituendolo con il canone 1374 in cui si contemplano anonime associazioni di vago sapore ostile e nulle sanzioni; chiede, accettando per vere le “leggende nere”, sette volte perdono per le malefatte della Chiesa, dimenticandosi che, caso mai, erano stati gli uomini di Chiesa a sbagliare, non essa quale Istituzione la quale, in quanto di origine divina avendo Cristo come Capo, è inerrante, e dimenticando altresì le sue alte benemerenze in termini di civiltà; introduce, con la lettera “Orationis forma”, le metodologie di preghiera e di meditazione orientali (tantrismo, yoga, zen, M. T. (meditazione trascendentale) che già hanno radicato, come zizzania, in molte parrocchie e diocesi; somministra la Comunione al protestante frère Roger della scismatica comunità calvinista di Taizé.
Chi volesse approfondire la vicenda di GP II, si legga il catalogo, segnalato da Pietro Ferrari (ed. Effedieffe) in cui sono elencati 101 temi di smaccata devianza dottrinaria.
   
Insomma: nonostante tali negative evidenze, i processi di canonizzazione, privi soprattutto della forza e del filtro dell’avvocato del diavolo, sono diventati pratiche lisce e scorrevoli in cui si approva ciò che vuole il popolo, e cioè il collaudato e massmediatico “Santo subito il popolo lo vuole”, variante aggiornata del più famoso “Dio lo vuole”.
    
Verrà seguìto, anche nel caso di Yara Gambirasio, tale percorso? Parroco e popolo di Brembate hanno lanciato la proposta che dovrebbe sollecitare l’allestimento della postulazione cosicché, per imprimerle  maggior forza probativa e decisiva, ecco saltar fuori il parallelismo con santa Maria Goretti.
   
Prima di dir la nostra, senza animosità – ripetiamo -  ma con sommo rispetto per le persone chiamate in causa, vorremmo riportare il pensiero ufficiale della Chiesa riferito alla figura del “martire”, di colui che, secondo l’etimo della parola, testimonia la sua fede rinunciando alla propria vita pur di non abdicare ad essa fede, pur di non commettere  apostasìa o pur di affermare una virtù cristiana.
   
Intanto è da ricordare quanto, al riguardo, scandisce Gesù. Sono parole scolpite a tutto tondo ed inequivoche: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi la perderà per causa mia, la troverà» (Mt. 16, 25). E su queste parole S. Agostino svilupperà la dottrina del martirio, secondo la quale:«Non fa diventare martire la pena, bensì la causa» (Discorso 335 -  n.5), ed ancora:«Bisogna distinguere chi soffre e per chi egli soffre, ed in particolare saranno veri martiri se lotteranno per la verità, che è Cristo, e allora riceveranno il giusto premio» (ibidem, n. 4).
   
Non diversamente scrive S. Tommaso che definisce l’essere martire come testimonianza di fede per l’amore di Cristo che è Verità. E siccome alla Verità in quanto tale è dovuto culto divino, colui che testimonia con la vita la Verità, questi è martire, colui che ritiene peccato non riconoscere la Verità e che evita, pertanto, di peccare contro la legge divina. (S. Th. II/II q. 124, a 4, 2-ad 2um: Se la morte sia ragione del martirio; 5: Se la sola fede sia causa di martirio).
Così afferma il Dottore Angelico: «Quando una donna perde la sua integrità o è condannata a perderla per la fede cristiana, non è evidente presso gli uomini se essa subisca tale affronto per amore della sua fede o non piuttosto per disistima della castità, allora il fatto non si presenta come martirio. Tuttavia, presso Dio che scruta i cuori, ciò può essere oggetto di premio, come si disse di Lucia (2um) – A lode di alcune donne si legge che rinunziarono alla vita per conservare la loro verginità. Sembra quindi che l’integrità corporale della castità sia da preferirsi alla vita corporea. Per cui quando una donna, per la fede in Cristo, perde l’integrità della carne, si deve parlare di martirio più che se perdesse la vita. Per cui santa Lucia disse al suo  giudice:”Se tu mi fai violare contro la mia volontà, la mia castità avrebbe doppia corona» (ad 2um).
   
Nell’art. 5 della stessa questione, San Tommaso evidenzia il martire come testimone della Verità, che è Cristo, e solo per affermare questa Verità, rinunciando alla vita, ci può essere martirio, non per verità scientifiche, storiche, letterarie o altre che sìano. Morire per la patria è certamente gesto di sommo e fulgido eroismo, ma non è martirio nel senso evangelico ed ecclesiastico
   
Contro tale sublime ed inconcussa dottrina si è scagliato, pensate, un non/frate, certo Enzo Bianchi che, in una corrispondenza 29 marzo 2012  su “La Repubblica” – i suoi Atti – liquida il Dottore Angelico e tutta la gloria celeste dei martiri. A suo dire, la dottrina tomista, la testimonianza del martire e l’evangelizzazione come ordinata da Cristo ed eseguita da millenni dalla Chiesa, sono ciarpame da gettare nell’oblìo in quanto, oggi, tutto si consegue con l’incontro dialogante, col camminare insieme.
Sono questi i nuovi teologi, alla pari del card. Kasper o del card. Maradiaga, amati e ossequiati da papa Bergoglio. Ma riprendiamo il discorso.
   
Riportiamo, a titolo di curiosità – ma quale e quanto espressiva curiosità! – un gioco linguistico, detto ‘anagramma’ svolto sulla domanda che Pilato rivolse, in latino presumibilmente, a Gesù, e cioè: «Quid est veritas?» (Gv.18, 38). Il sacro evangelista riferisce che, dopo averla posta, Pilato uscì e Gesù non replicò.    
Un santo, sagace e profondo – S. Agostino – ne  ha dato la soluzione, rivelando essere, la risposta, contenuta nella stessa domanda, vale a dire: EST VIR QUI ADEST che, tradotto significa: È L’UOMO CHE TI STA DAVANTI. La Verità quale Persona, altro che “relazione”, come insipientemente sostiene papa Bergoglio nella sua intervista al papa laico, Eugenio Scalfari!
Coincidenze lessicali? Forse, ma chissà perché in questo caso così perfetta!

Diamo, infine, citazione della definizione (2473) che, a questo proposito, il CCC riporta: «Il martirio è la suprema testimonianza resa alla verità della fede; il martire è un testimone che arriva fino alla morte. Egli rende testimonianza a Cristo, morto e risorto, al quale è unito dalla carità. Rende testimonianza alle verità della fede e della dottrina cristiana (cattolica –nostra aggiunta). Affronta la morte con un atto di fortezza. “Lasciate che diventi pasto delle belve. Solo così mi sarà concesso di raggiungere Dio» (S. Ignazio di Antiochia – Epistula ad Romanos).
   
Maria Goretti.
Corrisponde, ella, alle caratteristiche sopra riportate?
Durante il processo, con cui si sono vagliate le circostanze a favore e quelle contrarie, si è rivelata, soprattutto per numerosissime, concordi  ed attendibili testimonianze, la figura di una fanciulla, passata nella mola della povertà, della sofferenza, del sacrificio, sostegno della famiglia priva del genitore, sottoposta alle fatiche del lavoro di casa e della campagna, esposta alle velenose esalazioni della palude Pontina. Un’esistenza fatta di indigenza ma, tuttavia, illuminata da una fede in Dio e in Gesù Eucaristìa, quella fede che la spinse a desiderare la prima Comunione ancorché priva del regolare corso di catechismo, quella fede che la portò a formulare l’impegno – quasi un voto – di morire piuttosto che cedere al peccato, quella fede e quell’amore verso la Madonna alla quale lei, e i suoi familiari, dedicavano il santo Rosario giornaliero – quel Rosario che, a detta di mons. Galantino, rende ebeti ed “inespressivi”!.
Per tutto questo ella affrontò la morte  resistendo al carnefice il quale, nelle fasi del processo penale, ebbe a riportare come perentoriamente Maria, nel momento dell’assalto, gli ricordasse che ciò che stava compiendo era peccato, violava la legge di Dio.
Evidente era, in Maria, non la mera resistenza ad una violenza carnale con che difendere la propria integrità fisica, ma un’opposizione condotta nel nome di Gesù e nella volontà di rinunciare alla propria vita pur di non peccare, condotta ancora  per la conversione del suo aguzzino avvenuta dopo il perdono accordatogli e a cui seguì l’espiazione che lo portò a ritirarsi nel convento dei Cappuccini di Macerata, dal 1929 al 1970. Il resto della vita, Alessandro Serenelli lo trascorse scontando e riscattando la colpa, non diversamente dal manzoniano fra’ Cristoforo. E questa circostanza è ulteriore prova di santità della piccola Maria. Il quadro in cui lei è situata rappresenta un’immersione sua nella realtà e nella dimensione esemplare della devozione e della adorazione che maggiormente brilla della luce della pura fanciullezza.
   
Yara Gambirasio.
Dalle risultanze che, giornalmente ci arrivano sulla sua lacrimevole vicenda, niente emerge che possa essere posto in parallelo a quella di santa Maria Goretti, unico fatto comune alle due: aver perso la vita in un tentativo di violenza che in Maria si è configurato come tendente all’esproprio della verginità, mentre in Yara non ne è ancora emersa la dinamica, stanti le risultanze dell’inchiesta che escludono, per il momento, la certezza dello stupro. Basti pensare a talune teorie che riferiscono il delitto a una rivalsa di carattere familiare. Se qualcosa fosse stato verificato nei termini della violenza sessuale, le cronache e i servizî giornalistici ne avrebbero abbondantemente parlato, eccome! e i resti organici dell’aggressore sarebbero stati più probanti e specifici che non quelli in mano agli inquirenti.
Che la giovane, come afferma il parroco di Brembate, abbia di sicuro resistito alla violenza a difesa della propria integrità, non si pone, per quanto si è detto sopra, quale titolo di martirio degno della canonizzazione ufficiale della Chiesa, ma sicuramente titolo, presso Dio che scruta i cuori, per un premio, come afferma San Tommaso Aquinate.  Né più né meno di tante altre infelici donne, vittime di eguali violenze a cui, tuttavia, non è stato mai, per ragioni ovvie, riconosciuto lo status di santità solo per essersi opposte. Manca, per il momento, la causa, la testimonianza alla Verità, l’offerta suprema di sé a Cristo.
   
Non intendiamo, perciò, metterci in fila con coloro che già chiedono e pretendono che si avvii il processo di canonizzazione perché, a dirla schietta, e con non celato biasimo verso i promotori di questo “caso”, la faccenda è interamente nelle mani dell’informazione che, astutamente, sa come e quando confezionare ed esporre le notizie e i personaggi e come dirigere i flussi emotivi delle masse. 
    
A distanza di tre anni dal delitto, la giustizia umana annaspa senza aver trovato  le ordinate dell’inchiesta, con i massmedia che svolgono parallele indagini affidando, ai soliti e supponenti esperti, processi in tv. Nella stanca di un generale ma reale senso di frustrazione e di attesa, ecco che, all’improvviso, ad opera di due sacerdoti: don Corrino Scotti parroco di Brembate e don Tonino Spartà, e di un giornalista: Antonio Socci,  lo scenario cambia e si ravviva con l’apertura di un nuovo fronte, più intrigante più coinvolgente:  Yara Gambirasio come Maria Goretti. Come dire: dalla tragedia alla farsa.
   
La logomanìa e l’estemporaneità, in una società che va avanti a parole chiacchiera essendo il resto, hanno il sopravvento sulla riflessione e le parole in libertà, una profluvie scritta e orale senza pudore, si accavallano come onde su onde a creare altri temi di interesse mediatico. Ora non importa più conoscere l’identità dell’assassino, la dinamica del crimine perché, adesso, la gente vuol sapere se Yara è martire e santa.

Vulgus vult decipi, ergo decipiatur” recita una incerta gnome attribuita a Petronio  – il popolo vuol essere ingannato: ebbene, che sia ingannato!
Soltanto che oggi, ad ingannare il popolo e i fedeli, sono gli uomini di Chiesa e gli opinionisti cosiddetti cattolici organici a una cultura banale, nutrita solo da emozioni e passioncelle, e condita da accorte ma vuote considerazioni ad ampio spettro retorico.

Se, e soltanto se - e concludiamo – verrà  accertato che la vita della giovane di Brembate è stata caratterizzata ed impregnata da un conclamato, alto  ed esemplare stile cristiano – quello che distinse, come modelli di impegno e di esercizio cristiani, privati e pubblici, Pancrazio, Agnese,Tarcisio, Cristoforo della Guardia, Bernadette, Lucìa Dos Santos, Francisco e Giacinta Marto, Domenico Savio, Maria Goretti  – e  che il suo resistere al tentativo di violenza ha significato volontà e consapevolezza di testimoniare la Verità nonché condanna esplicita del peccato che l’assassino andava a commettere, soltanto allora don Tonino Spartà potrà essere autorizzato, con la prudenza necessaria, a chiedere l’avvio della causa di beatificazione per martirio, perché vorremmo ancora ricordargli che difendere la propria purezza fisica in sé e per sé – doveroso, legittimo e giusto – non serve alla causa da lui promossa.
Ma solo a queste nette condizioni, diversamente si cadrebbe, come attualmente si cade per il clamore che viene suscitato, nel qualunquismo populista - diremmo, peronista, stante l’attuale clima papale -  quel populismo acefalo ed emotivo del “santo subito”, a cui  il Magistero sembra oramai omologato e come, peraltro,  ancor lui vivente, sta verificandosi per papa Bergoglio.





agosto 2014

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