RISPOSTA ALLE OBIEZIONI SUI NUOVI SACRAMENTI DELLA CRESIMA E DELLA CONSACRAZIONE EPISCOPALE
DI PAOLO VI
 

di Don Curzio Nitoglia


Gli articoli dell'Autore sono reperibili sul suo sito


Rispondo alle obiezioni postemi
1°) riguardo alla necessità dell’unzione nella Cresima per la sua validità;
2°) quanto alla sostanza della forma della consacrazione dei vescovi.

I sacramenti in genere

I teologi hanno discusso se l’istituzione dei sacramenti sia immediatamente e specificatamente divina (di modo che Cristo stesso ha stabilito la materia e la forma precise di ogni sacramento), oppure mediatamente e genericamente (di modo che gli Apostoli e la Chiesa possano determinare la materia e la forma di alcuni sacramenti - tranne il Battesimo, l’Eucarestia e l’Estrema Unzione - per volontà di Gesù e assistiti dallo Spirito Santo quanto alla loro sostanza e validità).
S. Bonaventura (Breviloquium, VI, 4, 1) sostiene questa seconda tesi. Mentre nella controriforma i teologi cattolici (specialmente S. Roberto Bellarmino, De Sacramentis, Venetiis, 1590) per reazione al Luteranesimo, che negava l’istituzione divina dei sacramenti, hanno difeso, forse con troppo ardore, la tesi dell’istituzione immediata e specifica di essi da parte di Gesù.   
Tuttavia anche molti Dottori della controriforma e del post-Vaticano I (Soto (1), Suarez (2), Franzelin (3) e Billot (4)) insegnano che Gesù Cristo non ha istituito tutti e sette i sacramenti nei particolari, ossia indicando esplicitamente la materia e la forma (come ha fatto per il Battesimo e la Messa (5), ma si è limitato a indicare il loro scopo o la grazia che debbono produrre, lasciando alla Chiesa, ossia agli Apostoli il compito di determinare il rito in specie.

La Cresima

Per quanto riguarda la Cresima (6) e l’Ordine sacro (v. oltre) in specie (secondo Scoto, Lessio, Billuart, Soto, De Lugo, Gotti, Billot, De Guibert, Van Noort, E. Hugon e Galtier) Gesù li ha istituiti con determinazione generica, lasciando alla Chiesa la facoltà di determinare meglio gli elementi essenziali (cfr. A. Piolanti, voce “Ordine”, in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1952, vol. IX, col. 223).  
«La Chiesa, fondandosi sul Nuovo Testamento e sui Padri ecclesiastici, ha solennemente definito nel Concilio di Trento (DB 844) il fatto, secondo il quale Gesù ha istituito tutti e sette i sacramenti, pur lasciando libertà sul modo in cui lo ha fatto» (Dizionario di Teologia dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, p. 371, voce “Sacramenti” a cura di A. Piolanti).

In breve, il Concilio di Trento non ha voluto definire ed ha lasciato libertà di opinioni teologiche diverse su questa questione. Ora se il Tridentino non ha voluto definire e obbligare non vedo come lo possano fare dei semplici fedeli.
San Paolo (I Tim., IV, 14), quanto alla materia della Cresima, parla solo dell’imposizione delle mani. Gli Atti degli Apostoli (VI, 6; XIII, 3) non precisano le parole della forma del sacramento. La Traditio apostolica di S. Ippolito (7) (quindi la raccolta della Tradizione apostolica in materia sacramentaria e non solo un passaggio della S. Scrittura) dell’inizio del III secolo parla di preghiera,  che accompagna l’imposizione delle mani.
Dunque, dalla Tradizione apostolico/patristica, dalla S. Scrittura e dal Magistero ecclesiastico ed infine dalla Ragione teologica (e non solo da un passaggio della S. Scrittura, come mi si vorrebbe far dire, in maniera oggettivamente calunniosa (8)), costituita dagli studi dei Dottori ecclesiastici e dei teologi approvati, risulta inequivocabilmente che per la Cresima la materia del sacramento è l’imposizione delle mani, cui si è aggiunta nel III secolo l’unzione.

L’unzione è essenziale per la validità della Cresima?

Per quanto riguarda l’obiezione secondo cui l’unzione con olio è essenziale alla validità della Cresima, rispondo che la Tradizione apostolica e patristica dal II al V secolo (e non un solo passaggio della S. Scrittura) insegnano: “Si impone la mano per invitare lo Spirito Santo [a scendere sul fedele o il consacrando]” (Tertulliano, De Bapt., VIII). S. Cipriano di Cartagine scrive: “attraverso la nostra orazione e l’imposizione delle mani” (Epist., LXXIII, 9) si fa discendere lo Spirito Paraclito sull’ordinando. Anche Eusebio da Cesarea nella Storia Ecclesiastica (I, 13, 18; VII, 2) parla di  imposizione delle mani assieme alla preghiera. S. Agostino d’Ippona scrive: “l’imposizione delle mani è unita alla preghiera sopra il fedele” (De Bapt., III, 16, 21). S. Leone Magno scrive: “la benedizione o imposizione delle mani sia conferita dai Ministri sacri a digiuno” (Epist., IX, 1).
S. Tommaso d’Aquino fornisce la Ragione teologica, secondo la quale l’imposizione delle mani è il simbolo naturale e quindi adottato comunemente per significare la trasmissione di un potere (S. Th., III, q. 84, a. 4, ad 1um). Quindi Gesù e gli Apostoli si son serviti dell’imposizione delle mani per infondere la grazia sacramentale specialmente nella Cresima, nell’Estrema Unzione e nell’Ordinazione.
Inoltre alcuni “obiettanti anonimi” (9) - poco correttamente - tagliano la seguente citazione che, invece, avevo riportato: “Per la Cresima l’imposizione delle mani rimane tuttora, come prima, elemento essenziale del rito sacramentale, però non può essere separata dalla sopraggiunta nel III secolo unzione col crisma” (F. Càrpino, in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1951, vol. VI, col., 1718) (10).
Uno degli “obiettanti”, addirittura, scrive che secondo S. Alfonso Maria de Liguori e padre Felice Maria Cappello l’unzione è essenziale alla validità della Cresima, senza citare il trattato ove S. Alfonso  e p. Cappello avrebbero insegnato questa tesi.
Ora S. Alfonso Maria de Liguori nella sua Theologia Moralis (Parigi, ed. Vivès, 1875, tomo III, lib., VI De Sacramentis, tratt. II, cap. II De Confirmatione, dubbio I, nn. 162-166 De materia proxima, pp. 111-118) insegna che la sentenza comune ritiene [ut habet communis] l’unzione col crisma come essenziale per la validità della Cresima, ma poi distingue tre sentenze: la prima sentenza opina [tenet /ritiene] che l’essenza della materia prossima della Cresima consista nell’imposizione delle mani da parte del Vescovo e che l’unzione con il crisma sia soltanto la materia accidentale istituita dalla Chiesa e non da Cristo (p. 111);  la seconda [dicit] e la terza sentenza [fere  communis /quasi comune] convergono  sostenendo che la materia prossima è sia l’imposizione delle mani che l’unzione col crisma fatta dal Vescovo (p. 112). S. Alfonso, quindi, ritiene quest’ultima sentenza quasi comune [fere communis] e l’abbraccia [tuemur et extimau
ms /sosteniamo e stimiamo], seguendo S. Roberto Bellarmino (De sacramento confirmationis, Venezia, 1590, cap. 1 ss.), senza voler imporre la sua opinione teologica come certa o addirittura di fede e negare assolutamente la consistenza della prima sentenza, a differenza dell’obiettante, al quale manca totalmente quel senso delle sfumature e delle distinzioni che in teologia è assolutamente necessario (“primum distinguere”, insegnano gli scolastici).
Padre Cappello è anch’egli, a differenza dell’obiettante, assai sfumato. Infatti nella Summa Iuris Canonici (Roma, Gregoriana, vol. II, ed. VI, 1962, cap. III, art. I, n. 148, p. 176) scrive: “l’unzione sembra [videtur] essere necessaria per la validità del sacramento della Cresima, come insegnano più comunemente gli autori [communius docent auctores]. Invece altri autori ritengono sia sufficiente la sola imposizione delle mani [quidam censent sufficere solam manus impositionem], secondo la pratica antichissima della Chiesa” (11).
Quindi S. Alfonso e p. Cappello non insegnano quanto “l’obiettante anonimo” vorrebbe far dire loro.

L’Ordine sacerdotale ed episcopale

La forma romana precisata dogmaticamente da Pio XII nella Costituzione Apostolica Sacramentum Ordinis (30 novembre 1947) stabilisce la seguente forma nella consacrazione episcopale: «Comple in sacerdotibus tuis ministerii tui summam / Compi nei tuoi sacerdoti la perfezione del tuo ministero [sacerdozio]».”
Pietro Palazzini nel Dictionarium morale et canonicum (Roma, Officium Libri Catholici, 1965, II vol., p. 270 e 271, voce “Episcopi/Episcopatus”) scrive: «La forma del sacramento dell’episcopato consiste nella invocazione dello Spirito Santo. Ciò lo si prova con le citazioni della S. Scrittura. […]. Lo stesso insegnano la Tradizione apostolica (lib. VIII, capp. 4-5) e Dionigi l’Areopagita (De ecclesiastica hierarchia, cap. 5). […]. Inoltre la Costituzione apostolica Sacramentum Ordinis di Pio XII (30 novembre 1947) specifica e insegna: “nella consacrazione del vescovo la forma latina consta delle parole del Prefazio, delle quali sono essenziali per la validità: “Comple in sacerdote tuo ministerii tui summam / porta a perfezione nel tuo sacerdote [ordinando vescovo] la pienezza del ministero [ossia del sacerdozio]”. Tuttavia, quanto alla forma, per la liceità del sacramento il vescovo consacratore deve dire sul vescovo consacrando anche la frase: “accipe Spiritum Sanctum”».

A mo’ di riassunto, per spiegarmi meglio e non essere frainteso, la tesi esposta dal card. Pietro Palazzini, inquadrata nella Costituzione Apostolica di Pio XII del 30 novembre 1947, la quale viene recepita e non contraddetta dal Palazzini, vuol significare soltanto che la consacrazione episcopale dà la pienezza del sacerdozio tramite lo Spirito Santo, che è il perfezionatore dei doni datici da Cristo (cfr. Leone XIII, Enciclica Divinum illud munus, 9 maggio 1987, DS 3325-3331); così come nella Cresima si riceve il Paraclito, che perfeziona la grazia ricevuta nel Battesimo.

Naturalmente le parole essenziali della forma consacratoria dei vescovi, nella Chiesa latina, sono quelle insegnate da Pio XII nel 1947, ma ciò non implica che le forme di rito greco, di Tradizione apostolico/patristica (accidentalmente, ma non sostanzialmente diverse dalla forma imposta da Pio XII alla Chiesa latina), in cui si invoca soltanto lo Spirito Santo, siano invalide, come ritengono implicitamente gli “obiettanti”.

Per cui Paolo VI, avendo ripreso la forma greca e lasciato quella latina, non ha invalidato il sacramento della consacrazione episcopale, anche se sembra poco opportuno il fatto che la Chiesa latina adotti una forma sacramentaria del rito orientale e abbandoni quella di rito latino.


La consacrazione episcopale

Mons. Antonio Piolanti, I Sacramenti (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1a ed., 1956; Città del Vaticano, LEV, 2a ed.,  1990, p. 498) riprende  le forme della consacrazione dei vescovi riportate dalla Traditio apostolica di S. Ippolito (III secolo) e le altre eventuali forme di rito greco.
Per i vescovi: «Da, o Padre, a questo tuo servo che hai eletto all’episcopato, di pascere il tuo santo gregge e di avere la potestà del primato del sacerdozio nello Spirito». (S. Ippolito). 
Le altre forme della liturgia greca per i vescovi recitano: «Signore, fortifica con la venuta del tuo Santo Spirito questo eletto».
La forma latina, precisata dogmaticamente da Pio XII nella Costituzione Apostolica Sacramentum Ordinis (30 novembre 1947), stabilisce la seguente forma nella consacrazione episcopale: «Comple in sacerdotibus tuis ministerii tui summam / Compi [ossia porta al vertice], nei tuoi sacerdoti la perfezione del tuo ministero [ossia del sacerdozio]» (12). Però, questa seconda frase, che avevo già riportato nei miei precedenti articoli, è stata volutamente omessa dagli “obiettanti”, ma ciò è gravemente scorretto e persino calunnioso. Ora la calunnia pubblica va riparata pubblicamente per poter essere assolti sacramentalmente.
Paolo VI il 18 giugno del 1968 ha promulgato una nuova versione del Pontificale Romano che per il vescovo recita: «Effondi sopra questo eletto la potenza che viene da Te, o Padre, il tuo Spirito che regge e guida». Questa forma è quella greca di origine apostolica e quindi non può essere invalida, anche se è accidentalmente diversa dalla forma di rito latino insegnata da Pio XII.
Certamente il cambiamento fatto da Paolo VI mi sembra inopportuno e sa di “insano archeologismo” (cfr. Pio XII, Enciclica, Mediator Dei, 1947), però non invalida il sacramento. Tuttavia, stupisce e lascia perplessi che nella Chiesa latina si lasci la forma millenaria in uso in occidente e si adotti la forma altrettanto antica in uso in oriente.

Conclusione

La retta soluzione di ogni questione non dipende dai nostri gusti, dalle nostre opinioni o dai nostri comodi, ma dalla conformità del nostro pensiero alla realtà. Per la validità del sacramento occorrono la materia, la forma e l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa. Ora i nuovi sacramenti promulgati da Paolo VI a partire dal 1968 sino al 1972 sono provvisti di tutti e tre gli elementi. Quindi essi oggettivamente sono validi, piaccia o non piaccia.

Nelle obiezioni che ho ricevuto, sia sul mio sito che su altri, ho notato tre tendenze principali:
1°) una forte ed esplicita professione di millenarismo totale, neppure mitigato, secondo cui la Chiesa sarebbe finita e i “santi laici” avrebbero il compito di rimetterla in piedi;
2°) una certa malevolenza, che porta, oggettivamente, a distorcere la dottrina esposta per poterla confutare, facendole dire quel che non ha detto, ossia alla calunnia;
3°) infine una gran confusione, che in questi tempi di tenebre spirituali è divenuta, purtroppo, quasi la “norma”, per cui non ci si raccapezza più in mezzo a tanti errori e deviazioni più o meno espliciti.

La prima tendenza è eterodossa ed è stata condannata dalla Chiesa (S. Uffizio, 21 giugno 1944, AAS, 36, 1944, p. 212). Quindi è da evitarsi totalmente.

La seconda tendenza, ossia il calunniare, è reputata dalla Teologia morale un peccato mortale. Dunque “bisogna fuggirla, come il peccato mortale” (13).
Se per difendere la propria “Tesi” ci si spinge a macchiarsi, oggettivamente, di peccato grave di calunnia è meglio star zitti riguardo a certi problemi oscuri e difficili, cercando di “fare il bene ed evitare il male”. Quanto a me, dopo aver difeso la carica pubblica di sacerdote che ho ricevuto 30 anni or sono, preferisco evitare ogni altra disputa con questa categoria di persone, che - come anime - raccomando a Dio con la preghiera poiché a Dio dovranno render conto delle loro calunnie, ma che evito - come calunniatori - poiché così bisogna fare con i detrattori del buon nome altrui.

La terza tendenza è quella composta di semplici fedeli, che turbati dalla situazione ecclesiale odierna (e come non esserlo?), vanno illuminati con buoni consigli, che li spronino a “conoscere, amare e servire Dio e mediante questo salvarsi l’anima”, senza incappare in questioni ardue che li sorpassano, non son richieste ai comuni fedeli per salvarsi eternamente e aumentano soltanto il turbamento del loro animo.

NOTE

1 - In IVum Sententiarum, Salamanca, 2 voll., 1557, 1560.
2 -   Commentarii et disputationes in IIIam S. Th., Venetiis, 1599.
3Tractatus de sacramentis, Roma, Gregoriana, ed. V, 1911.
4 - De Ecclesiae sacramentis, Roma, Gregoriana, ed. VII, 1932.
5 - “Battezzando nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt., XXVIII, 19) in Matteo l’acqua è implicitamente significata nella parola ‘battezzare’ che significa ‘lavare’, mentre è esplicitata in Gv., III, 5; IV, 1-2; IX, 1-6. Per l’Eucarestia: «Gesù prese del pane e disse: “Questo è il mio corpo”, prese il calice [di vino] e disse: “Questo è il mio sangue”» (Mt., XXVI, 26-28).
6 - Paolo Galtier, in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1950, vol. IV, col. 856, voce “Cresima”.
7 - Padre Paolo Galtier definisce la Traditio apostolicala più antica descrizione liturgica pervenutaci all’inizio del III secolo” (in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1950, vol. IV, col. 856, voce “Cresima”). S. Ippolito è l’autore della Tradizione apostolica, che tratta delle ordinazioni dei Vescovi, Presbiteri e Diaconi, essa dà inoltre un gran numero di regole riguardanti il Rituale liturgico ecclesiastico specialmente sul Battesimo, l’Eucarestia le preghiere e i funerali. Il testo latino della Traditio apostolica è stato curato e pubblicato da dom B. Botte (Parigi, Cerf, 1946, 2a ed. 1984), ne esistono anche le versioni in copto, arabo ed etiopico, la  traduzione italiana è stata curata ed edita da A. Casamassa (Roma, 1947).  
8 - Si noti che la calunnia in materia grave è peccato mortale e per ottenere l’assoluzione bisogna riparare la calunnia e correggere la falsa affermazione, altrimenti si resta in peccato mortale (cfr. A. Vermeersch, Theologia moralis, Roma, ed. IV, 1945-1954, 4 voll., II vol., pp. 510-515, nn. 597-603; P. Ciprotti, De injuria ac diffamatione, Roma, 1937.
9 - Si ha tutto il diritto di porre obiezioni, ma non si può far dire all’altra parte ciò che non ha detto. Infatti ciò significa calunniare, almeno oggettivamente, e non obiettare. 
10 - Cfr. anche Dictionnaire de Théologie Catholique, vol. VII, coll. 1302-1425.
11 - Padre Felice Maria Cappello, per avvalorare la sua tesi, cita S. Roberto Bellarmino (De sacramento confirmationis, Venezia, 1590, cap. 1 ss.); A. Lépicier (Tractatus de baptismo et confirmatione, Roma, 1930,  p. 130 ss.) ed infine un suo stesso libro specifico sui sacramenti (Tractatus canonico-moralis de sacramentis, Torino-Roma, Marietti, ed. VII, 1961, I, n. 188 ss.) in cui sostiene la stessa dottrina.
12 - Cfr. A. M. Vellico, De episcopis, Roma, 1937.
13 - San Tommaso d’Aquino nella Somma Teologica (II-II, qq. 72-75) tratta delle ingiustizie che si compiono con le parole. Nella questione 72 l’Aquinate tratta della ingiuria verbale. Ora l’Angelico nota che sebbene le parole non facciano fisicamente male (a. 1, ad 1um), tuttavia, in quanto le parole significano le cose, esse possono arrecare molti danni. Infatti di per sé la contumelia implica una menomazione di onore del prossimo. Quindi essa è un peccato mortale non meno del furto, che detrae la ricchezza materiale, mentre la contumelia disonora l’anima del prossimo nella sua integrità dottrinale o etica. Padre Tito Centi commenta: “Di qui deriva la gravità della contumelia, la quale di suo è fatta per distruggere l’onorabilità dottrinale o morale del prossimo, e comporta l’obbligo di riparare: o restituzione di fama (per la contumelia) e di beni materiali (per il furto), o dannazione”. Nell’articolo 3 il Dottore Comune spiega che in certi casi è necessario respingere le contumelie e specialmente per due motivi: 1°) per il bene di chi insulta, per reprimere la sua audacia, affinché non monti maggiormente in prepotenza e presunzione e reiteri codesti atti; 2°) per il bene delle altrui persone, se chi viene offeso ricopre una carica pubblica, onde l’offesa ricadrebbe sulla di lui società e la disonorerebbe (ad es. un magistrato, un sacerdote, un governante…). Dunque chi è costituito in dignità o autorità pubblica deve difendere queste e non la sua persona, oppure qualcuno lo deve fare per lui. (Cfr. B. Merkelbach, Summa theologiae moralis, Parigi, 3 voll., 1932-1933; H. Noldin, Summa theologiae moralis, Bressanone, 3 voll., 1899-1900; D. Prummer, Manuale theologiae moralis, Bressanone, 3 voll., 1915).





settembre 2014

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