L'ATTUALITA'  DELLA  MESSA  TRIDENTINA
E  LA  RISCOPERTA  DELLA  LITURGIA  TRADIZIONALE

Testo della conferenza tenuta a Pisa, nella sala delle Baleari del Palazzo Comunale, il 1 marzo 2003, 
dal Presidente dell’Associazione Inter Multiplices  Una Vox, Calogero Cammarata.
 




NOTIZIE  SULLA  CONFERENZA

Come annunciato, sabato 1 marzo, alle ore 17,30, nella sala delle Baleari del Palazzo Comunale di Pisa, si è tenuta la conferenza su l’Attualità della Messa Tridentina e la riscoperta della liturgia tradizionale.

Alla presenza di piú di cinquanta persone, in grandissima parte giovani, il Conte Marcello Cristofani della Magione, Gran Maestro della Militia Templi,  ha introdotto l’argomento spiegando anche il motivo e l’occasione dell’iniziativa:  la richiesta della celebrazione della S. Messa col rito tradizionale avanzata dal Comitato Inter Multiplices Una Vox di Pisa all’Arcivescovo del luogo Mons. Plotti. Richiesta alla quale è stato opposto il rifiuto dell’Arcivescovo; tanto da far decidere i fedeli di Pisa per una pubblica manifestazione in cui si spiegassero le serie motivazioni che stanno alla base della richiesta stessa.
Il Conte Cristofani ha tenuto a precisare che non è possibile neanche pensare che ci possa essere un qualche spirito di opposizione nei confronti dell’Arcivescovo, per l’innato senso di rispetto e di ossequio che contraddistingue i fedeli di Santa Romana Chiesa, anche di Pisa. Ma ha giustamente sottolineato che gli stessi fedeli hanno tutto il diritto di chiedere che vengano loro concessi i mezzi di santificazione proposti dalla Santa Chiesa, e fra questi vi è sicuramente la S. Messa tradizionale: come stabilito dal Santo Padre nel suo Motu Proprio Ecclesia Dei.

La parola è passata poi al nostro Presidente, che ha svolto una relazione sull’attualità della liturgia tradizionale e sulla sua crescente riscoperta da parte di un numero sempre maggiore di fedeli cattolici.

Il Prof. Dante Pastorelli, Presidente di Una Voce Firenze,  ha ribadito la necessità del mantenimento della liturgia tradizionale e ha sollecitato un sempre maggiore impegno di tutti in questo senso: senza timori e senza scoraggiamenti.

Il Prof. Andrea Conti, della Militia Templi, ha poi brevemente indicati alcuni aspetti peculiari relativi al profondo significato della S. Messa tradizionale, del tutto fondati sull’insegnamento millenario della Santa Chiesa: sottolineando il significato principale della S. Messa stessa, che è il rinnovamento e la riattualizzazione del Santo Sacrificio del Calvario, che Nostro Signore ha compiuto in ubbidienza alla volontà del Padre per la remissione dei peccati del mondo; come definito in maniera mirabile e in forma dogmatica dal Concilio di Trento.



TESTO DELLA CONFERENZA

A piú di trent’anni dalla fine del Concilio Vaticano II potrebbe sembrare quantomeno strano che si discuta ancora della Liturgia tradizionale, nonostante il totale rinnovamento liturgico attuato negli anni che seguirono il Concilio.
Non v’è dubbio che i cambiamenti liturgici attuati dalla Chiesa possono solo pensarsi come direttamente derivati dalla Tradizione stessa della Chiesa. 
Perché allora si continua a parlare di liturgia tradizionale, quasi si trattasse di qualcosa di contrapposto alla liturgia rinnovata?

Forse è opportuno ricordare il significato del termine Tradizione. 
Esso, molto semplicemente, sta ad indicare il concetto di trasmissione e di collegamento ininterrotto. Trasmissione di qualcosa di ben definito e collegamento ininterrotto con la fonte, l’origine di questo qualcosa. E il termine Tradizione è stato sempre usato dai Padri della Chiesa proprio perché esso esprime un concetto che è eminentemente relativo all’insegnamento divino. Questo insegnamento, a partire da Dio stesso e dal Suo Figlio Unigenito, nostro Signore Gesú Cristo, è trasmesso agli Apostoli, e da questi ai loro successori, con un collegamento ininterrotto che costituisce quella successione apostolica senza la quale non v’è trasmissione e non v’è neanche la Chiesa.

In questo senso deve intendersi l’espressione “liturgia tradizionale”. Una liturgia, cioè, insegnata dallo stesso Signore e trasmessa dagli Apostoli nel tempo e nello spazio tramite i loro successori.

Purtroppo, ai giorni nostri, quando si parla di Tradizione, nel sentire comune si suscita l’idea del passato, di ciò che appartiene ad altri tempi. E i tradizionalisti sono visti come coloro che, rimasti legati al passato, rifuggono dal nuovo per una sorta di attaccamento patologico a forme e concetti di un tempo, che loro immaginano come inevitabilmente migliori.
Quegli stessi che conoscono il vero significato del termine Tradizione, soggiacciono alla suggestione che fa loro associare, del tutto semplicisticamente, la Tradizione al vecchio. Cosí che si finisce con l’accettare facilmente l’idea che la Tradizione è qualcosa di contrapposto al nuovo. E siccome il nuovo viene comunemente considerato come buono, anche se nessuno ha mai spiegato il perché, ecco che la Tradizione finisce con l’essere associata al cattivo.

In realtà il termine e il concetto di Tradizione non possono essere contrapposti ad alcunché, poiché la Tradizione, in fondo, non è altro che la vita stessa. 
In relazione all’insegnamento, alla dottrina e alla liturgia religiose, questo concetto di trasmissione, e quindi di Tradizione, è tutt’uno con la religione stessa. 
La religione cattolica, quindi, è anche sinonimo di Tradizione. 
Senza la trasmissione, il collegamento ininterrotto, senza la Tradizione non si potrebbe neanche parlare di religione cattolica.

Ecco quindi che si può affermare che l’espressione “liturgia tradizionale” non comporta alcuna contrapposizione, e se contrapposizione sembra esserci, o c’è, per qualcuno, questa sta tutta dalla parte della “liturgia rinnovata”.
Non è la liturgia tradizionale che si oppone alla liturgia rinnovata, ma è il rinnovamento della liturgia che ha condotto ad una rottura con la Tradizione.

Non possiamo soffermarci su una tale rottura, sulla sua consistenza e sulla sua portata. 
Ci limiteremo quindi a far notare la strana contraddizione per cui da un lato si pretenderebbe l’inesistenza di ogni tipo di rottura con la Tradizione, e dall’altro, si vieta l’uso dei libri liturgici che la Chiesa ha mantenuto per duemila anni.
Se i libri liturgici “rinnovati” sono, come si dice, il prodotto dell’adattamento delle sole forme, non si capisce bene sulla base di quale esigenza non siano state apportate solo delle modifiche, ma si sia provveduto a sostituirli in toto, vietandone perfino l’uso, in un’ottica talmente dimentica dello spirito tradizionale, da far dire al Cardinale Ratzinger che non s’è mai visto che la Chiesa abbia abolito un rito da essa stessa praticato per secoli e secoli.

Ora, che il mutare dei tempi possa comportare l’adattamento delle forme liturgiche, e anche dottrinali, non solo è cosa facilmente comprensibile, ma è soprattutto inevitabile; e la Chiesa in duemila anni ha fatto anche questo: ha adattato le forme liturgiche e le espressioni dottrinali ai tempi e ai luoghi.
Si pensi agli stessi libri canonici trasposti dall’ebraico e dall’aramaico in greco e poi in latino. Si pensi alla diversità delle forme liturgiche tra Occidente e Oriente cristiano, che sussistono ancora oggi. 
Ma non v’è dubbio, e non ve n’è mai stato, che gli adattamenti delle forme sono stati sempre legittimi nei termini in cui hanno costantemente veicolato la stessa dottrina e la stessa liturgia. 
Nei termini in cui, cioè, ci si è preoccupati di rimanere fedeli alla Tradizione.

Da queste brevi indicazioni si comprende già che la liturgia tradizionale mantiene intatta la sua attualità, innanzi tutto in forza di sé stessa.
Ma possiamo aggiungere qualche altra considerazione.

E’ estremamente facile comprendere come la liturgia, che è la preghiera per eccellenza della Chiesa, debba necessariamente essere tutt’uno con la dottrina. Ancora oggi è da tutti universalmente accettata l’espressione lex orandi, lex credendi, che, come dice il Card. Stickler, sta a significare che si prega come si crede.
Questo adagio, conosciuto fin dai primi secoli, è stato richiamato dal Sommo Pontefice Pio XII nella sua Enciclica Mediator Dei (parte I, cap. III, § 10), e menzioniamo questa Enciclica proprio perché la troviamo ugualmente menzionata nei documenti del Concilio Vaticano II.
Siamo nel 1947, non nel Medio Evo, e il Sommo Pontefice pubblica questa Enciclica per porre dei punti fermi in grado di ridimensionare certe tendenze che, all’interno della Chiesa, spingevano per la preminenza della cosiddetta “sensibilità moderna” dei fedeli nei confronti della liturgia. In pratica vi era chi riteneva che la liturgia in vigore non fosse piú in grado di porsi in sintonia con il modo di sentire dei fedeli.

Il Sommo Pontefice Pio XII aveva dimostrato di essere sensibile agli adattamenti della liturgia: si pensi alle modifiche apportate ai riti della Settimana Santa. 
Perché pubblicare, allora, un’apposita Enciclica sulla liturgia per contenere le spinte innovatrici?

L’antico adagio dice: legem credendi lex statuat supplicandi, e cioè “la legge della preghiera stabilisca la legge della fede”. Estrapolando questo adagio e leggendolo in maniera autonoma, sembrerebbe che la fede possa essere definita dalla preghiera. Ma il Sommo Pontefice Pio XII precisa che “si può affermare con ragione che ‘la legge della fede deve stabilire la legge della preghiera’”.
In altri termini, non è la dottrina che scaturisce dalla liturgia, ma è la liturgia che scaturisce dalla dottrina. Si prega come si crede. E non potrebbe essere diversamente.
Ciò non toglie, però, che per la natura stessa dell’uomo, quando si giunge a pregare in maniera difforme dalla dottrina, si finisce poi col credere in una dottrina diversa dalla vera.

In questo senso, il Sommo Pontefice Pio XII aveva ben chiaro che l’insinuarsi delle perniciose idee anticristiane e protestanti in seno alla compagine ecclesiale, portava con sé la falsa concezione che le esigenze umane dei fedeli dovessero avere la preminenza nella conduzione della vita della Chiesa; ed aveva ben chiaro come certe modificazioni della liturgia potessero condurre allo stravolgimento della dottrina. D’altronde, era già da qualche lustro che in certe diocesi si era diffuso il vezzo delle “esperienze” liturgiche, delle sperimentazioni liturgiche e della creatività liturgica: quindi il Sommo Pontefice parlava a ragion veduta.

Per rendere meglio l’idea che la variazione liturgica che non tenga conto della dottrina finisce poi col condurre alla variazione della dottrina stessa, possiamo fare un esempio che può facilmente essere verificato da tutti.
L’inversione della posizione del celebrante, che in qualche luogo era già stata sperimentata ben prima del Concilio Vaticano II, ha condotto, inevitabilmente, alla perdita della centralità della Croce, sia nel corso della celebrazione della S. Messa, sia, di conseguenza, nella percezione che i fedeli hanno delle verità di fede. Con il celebrante rivolto verso i fedeli, e non piú verso il Signore, gli stessi fedeli si trovano sensibilmente coinvolti dal volto, dalla voce, dai gesti e dai movimenti del celebrante, e anche sforzandosi, finiscono col farne il centro della loro attenzione. Non piú la Croce, ma un uomo in carne ed ossa, che si muove, parla, gesticola come loro, che dirà pure delle cose importanti, ma che rimane essenzialmente e principalmente un uomo. 
Il centro di gravitazione della S. Messa diviene, per i fedeli, un uomo come loro. 
Che ne è di Dio?
Da parte sua il celebrante si trova al cospetto di un gran numero di persone, con la loro varietà e la loro multiformità, con l’aggiunta che ai primi banchi, proprio sotto i suoi occhi, si ritrova coloro di cui conosce anche i pensieri, le opinioni, gli umori, le preoccupazioni, i timori; e mentre celebra i Santi Misteri, quegli sguardi, quei volti, quelle figure umane suscitano in lui mille pensieri e mille incombenti urgenze. 
Non piú la Croce, ma gli uomini condizionano i suoi gesti, i suoi toni, le sue pause, il suo sguardo, e perfino il senso delle parole che pronuncia. 
Anche qui, che ne è di Dio?

La liturgia tradizionale, invece, fin dal tempo degli Apostoli, prescrive che il celebrante, al pari dei fedeli, resti rivolto verso la Croce, la Croce che sta sull’Altare: resti rivolto cioè verso il Signore, poiché sullo stesso Altare, nella stessa direzione, il Signore è proprio lí presente, sotto le Specie Eucaristiche, nel Tabernacolo. Nel corso della S. Messa, e specialmente nel corso della preghiera del Canone, il celebrante e i fedeli “insieme”, comunitariamente, ecclesialmente si volgono verso il Signore, che è il centro della celebrazione, il centro della loro fede, il centro della loro stessa esistenza come fedeli di Cristo.

Ora, è anche possibile fare mille discorsi piú o meno pertinenti su questo esempio, ma è fuori da ogni dubbio che si tratta di due modi diversi di pregare. 
E se la legge della preghiera finisce in qualche modo col determinare la legge della fede: si tratterà finalmente di due modi diversi di credere.
Quali di questi due modi è in rotta con la Tradizione?

Per rispondere a questa domanda occorre ricordare che la S. Messa, ancora oggi, non è altro che il Sacrificio col quale Nostro Signore si offre al Padre quale Vittima espiatoria per il riscatto dei peccati del mondo. E tale Sacrificio è vero ed intero al pari del Sacrificio del Calvario: esso si consuma nella sua interezza ogni volta che il celebrante recita le Parole della Consacrazione, ogni volta che il celebrante officia la S. Messa. Un Sacrificio ininterrotto per secoli, per millenni, per rendere a Dio il culto dovutogli e per permettere ai credenti che ne sono degni di beneficiare delle grazie che da questo Sacrificio derivano.
Ed è tanto vero questo, che la Chiesa ha sempre insegnato, sulla base delle parole stesse del Signore, che al momento della Consacrazione le sostanze del pane e del vino si mutano nella sostanza del Corpo e del Sangue del Signore.

Ora, come è possibile comprendere una cosa tanto complicata e tanto inspiegabile?
Solo la fede può permettere che l’uomo non si perda nei meandri inestricabili della ragione.
La comprensione di tutto questo resta un mistero. E la S. Messa è stata sempre chiamata la celebrazione dei Santi Misteri. E non potrebbe essere diversamente, dal momento che si tratta semplicemente di qualcosa che attiene a Dio e non agli uomini.

Ora, la liturgia tradizionale è stata composta dagli stessi Apostoli, sulla base degli insegnamenti ricevuti dal Signore, perché fosse anche uno strumento visibile in grado di suggerire al meglio la sua essenza invisibile. Essa ha sempre conservato questa caratteristica. E tutti i Papi e i Vescovi che sono succeduti agli Apostoli hanno sempre saputo che tutto si poteva fare in relazione all’edificazione dei fedeli, tranne che spiegare il mistero.
Anzi, tutti gli elementi della liturgia, interamente volti alla premura per Dio e per il suo culto, finivano con l’essere tutti espressione dello stesso mistero.
Si pensi all’incenso, simbolo tangibile dell’ànima che si fa leggera e che si eleva a Dio. Ma si pensi soprattutto al silenzio del Canone, nel corso del quale si ode solo un impercettibile bisbiglio, e il fedele si sente immerso come in un’atmosfera rarefatta, quasi avvolto nel silenzio che fa ancor piú risaltare la sensazione di trovarsi solo al cospetto di qualcosa che sta al di là di ogni sua possibilità di comprensione. E spontaneamente percepisce la sua limitatezza, la sua piccolezza, e sente il bisogno di inginocchiarsi, di prostrarsi di fronte all’ineffabile: che non vede, non sente, non può toccare, non può capire, ma di cui sente pervase tutte le sue membra, la sua mente, il suo cuore.

Ora, se la S. Messa è essenzialmente un Mistero, non può esservi dubbio che qualunque espediente volto a “far comprendere” questo mistero sarà solo una contraddizione, per non dire una stoltezza; e qualunque ritrovato volto a contenere questo mistero si può solo tradurre nella banalizzazione della S. Messa, nella banalizzazione di Dio stesso e, finalmente, nella disgregazione della fede.

La forza, la validità e l’attualità della liturgia tradizionale stanno proprio nel fatto che essa riesce a preservare il senso profondo del Mistero che informa il culto divino, tenendo ferme le due esigenze essenziali per il fedele: l’adorazione di Dio e la disposizione di sé stesso ad accogliere la Sua grazia gratuita.

Tutto questo i Padri conciliari lo sapevano benissimo, e gli stessi documenti del Concilio Vaticano II, testimoniano della preoccupazione di preservare quanto contenuto nella liturgia tradizionale.

E’ chiaro che in questo caso ci riferiamo a certi documenti, e non a tutti, poiché è opportuno precisare che i documenti del Concilio Vaticano II, nel loro insieme, dicono tante cose, e a volte ne dicono di quelle che appaiono chiaramente in contrasto le une con altre.
Ma questo è un altro discorso, che non possiamo certo fare adesso.

Quello che adesso ci importa è rilevare un’altra contraddizione, questa volta ancor piú clamorosa, se possibile.
La Costituzione del Concilio Vaticano II su La Sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium, stabilisce che “l’uso della lingua latina … sia preservato nei riti latini” (art. 36, § 17); che “si abbia cura che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi” (art. 54); che “la Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana: perciò nelle celebrazioni liturgiche … gli si riservi il posto principale” (art. 116).
La Sacrosanctum Concilium venne approvata dai 2381 Padri Conciliari, quasi tutti Vescovi.
Quando si giunse alla promulgazione dei nuovi libri liturgici, si ignorarono totalmente queste disposizioni del Concilio, anzi, sull’onda di un entusiasmo che sembrò percorrere le Diocesi come un brivido febbrile, nei primi anni accadde di tutto, perfino lo stravolgimento degli stessi libri liturgici riformati: fu come se si fosse ancora una volta scoperchiato il vaso di Pandora. Gli effluvii piú sulfurei riempirono molte chiese al posto dei fumi dell’incenso, e lo stesso Papa Montini finí col parlare del fumo di Satana che era penetrato nella Chiesa.
Come fu possibile una simile rivoluzione, un simile sovvertimento?

I Vescovi che realizzavano o lasciavano che si realizzasse tanto scempio erano gli stessi che avevano definito i documenti del Concilio. 
Come fu possibile tanta contraddizione?

Quegli stessi Vescovi che avevano stabilito che i fedeli dovevano recitare e cantare in latino le parti dell’Ordinario della Messa, bandirono o lasciarono che si bandisse il latino perfino dai loro seminarii. Quegli stessi Vescovi che avevano stabilito che al canto gregoriano si dovesse riservare il posto principale nella liturgia, quasi stracciarono o permisero che si stracciassero le vecchie partiture e si adoperarono perché i fedeli potessero cantare le lodi a Dio con insulse canzonette da quattro soldi, continuamente modificate proprio per la loro insignificanza e, talvolta, per la loro palese blasfemia.

Qualcuno potrebbe pensare che noi esageriamo, o potrebbe ritenere che quello che è accaduto trent’anni fa oggi non accada piú. Ma che le cose stiano cosí ancora oggi ce lo conferma lo stesso Santo Padre. Proprio mercoledí scorso, il 26 febbraio, nel corso della sua catechesi, il Santo Padre ha potuto dire:
“E’ dunque necessario scoprire e vivere costantemente la bellezza della preghiera e della liturgia. Bisogna pregare Dio non solo con formule teologicamente esatte, ma anche in modo bello e dignitoso.
A questo proposito, la comunità cristiana deve fare un esame di coscienza perché ritorni sempre piú  nella liturgia  la bellezza della musica e del canto. Occorre purificare il culto da sbavature di stile, da forme trasandate di espressione, da musiche e testi sciatti, e poco consoni alla grandezza dell’atto che si celebra.”

Com’è possibile che sia accaduto tutto questo?

E ancora una volta dobbiamo limitarci a constatare il fatto, perché non abbiamo il tempo per discuterne. Ma, certo è che si trattò e si tratta di un fatto molto strano, quasi inspiegabile alla luce della sola ragione, per certi versi adombrante una qualche presenza disgregatrice di ordine sottile.

Possiamo solo dire che sicuramente uno dei motivi principali consiste nella pratica attuazione del Concilio lungo una direttrice che riteneva piú importanti i bisogni, piú o meno reali, degli uomini, rispetto alle esigenze del culto divino.
Se l’uomo non riesce a capire Dio, sarà bene che Dio scenda al livello dell’uomo: tanto Dio è cosí grande da capire tutto, da perdonare tutto, da giustificare tutto. 
Una sorta di presunzione incredibile, che fa a pezzi qualsiasi logica, perfino meramente umana. Ma soprattutto fa a pezzi la stessa azione di Dio nei confronti degli uomini: l’Incarnazione del Figlio, il Sacrificio della Croce, la Chiesa, i Martiri e i Santi!

La liturgia tradizionale, anche in relazione a questo aspetto, rimaneva e rimane l’unico esempio vivente di come si possa andare incontro ai bisogni spirituali dell’uomo senza intaccare i diritti di Dio. Tutto quello che la compone svolge un ruolo appropriato proprio in vista dei rischi che si incappi in qualche errore e si passi da un errore all’altro. Essa è lí a dimostrare che i nostri padri sono stati molto piú accorti e preveggenti di noi, e questo proprio in forza di un fattore semplicissimo: rimanere fedeli alla Tradizione, per essere oltremodo protetti dalle tentazioni e dalle deviazioni.
Non la fissità delle forme; ma il rispetto e l’attenzione continua nei confronti dei contenuti che si riconoscono eminentemente derivati da Dio e per ciò stesso al riparo dalle passioni umane.

Sono passati piú di trent’anni dall’attuazione della riforma liturgica, e se siamo ancora qui a parlare della liturgia tradizionale, ci sarà pure un motivo.
Ed allora è bene precisare subito che uno dei motivi per cui noi oggi siamo qui, in comunione d’intenti con centinaia di migliaia di cattolici in Italia e nel mondo, è che i problemi posti dall’abbandono della liturgia tradizionale, e con essa della dottrina tradizionale, assillano le menti e i cuori non dei soli tradizionalisti, come se si trattasse di un inesausto languore nostalgico, ma assillano tutta la Chiesa. A incominciare dal Papa Giovanni Paolo II.
Che la Chiesa, nelle persone dei suoi chierici e dei suoi laici, e nel corpo della sua struttura terrena, si stia dibattendo in una crisi senza precedenti nella sua storia; che la Chiesa viva attualmente un processo di continua mondanizzazione e di sempre piú preoccupante svuotamento nei fedeli e nei contenuti della fede, è un fatto che solo i pertinaci demolitori della fede, coscienti e incoscienti, possono permettersi di negare.
Non possiamo citare le innumerevoli pagine scritte da tanti Vescovi, da tanti Cardinali e dallo stesso Papa, ci limiteremo quindi ad un solo esempio, di data relativamente recente, trascurando quelli recentissimi; e citeremo questo esempio perché in esso si fa riferimento al valore, alla attualità e alla necessità della liturgia tradizionale.

Il 21 settembre del 2001, il Papa Giovanni Paolo II ha scritto una lettera alla Congregazione per il Culto Divino, in occasione della riunione plenaria di questo dicastero. Questa Congregazione, fra l’altro, è la stessa che in questi ultimi quattro anni ha sentito il dovere di lanciare dei segnali consistenti per cercare di porre un freno alla deriva liturgica e dottrinale in atto in tante diocesi.
In questa lettera il Papa dice:
La celebrazione liturgica è un atto della virtú di religione che … deve caratterizzarsi per un profondo senso del sacro. … Di conseguenza l’atteggiamento richiesto non può che essere permeato dalla riverenza e dal senso dello stupore che scaturisce dal sapersi alla presenza della maestà di Dio.

Il popolo di Dio ha bisogno di vedere nei sacerdoti e nei diaconi un comportamento pieno di riverenza e dignità, capace di aiutarlo a penetrare le cose invisibili, anche senza tante parole e spiegazioni. Nel Messale romano, detto di San Pio V, come in diverse liturgie orientali, vi sono bellissime preghiere con le quali il sacerdote esprime il piú profondo senso di umiltà e di riverenza di fronte ai santi misteri: esse rivelano la sostanza stessa di qualsiasi liturgia

Se esaminiamo queste parole del Santo Padre alla luce di quanto abbiamo detto fin qui, e soprattutto alla luce della grave crisi che la Chiesa sta attraversando, non possiamo non considerare che qui il Papa sta parlando di liturgia ai prelati incaricati di vegliare sulla liturgia stessa, e fa un discorso che ha rilevanza non tanto morale, ma liturgica: insomma il Papa sta dicendo, anche senza dirlo apertamente, che la liturgia, per essere vera deve richiamarsi ai libri liturgici tradizionali. 
E cita il Messale di San Pio V, non si riferisce al Messale tradizionale indicandolo col nome di Papa Roncalli, ci tiene a rifarsi esplicitamente al santo Papa del 1500, al Messale che solo impropriamente è detto di San Pio V, poiché in effetti esso era semplicemente il Messale che la Curia romana usava da secoli, fin dai tempi di San Gregorio Magno. 

In questa lettera è come se il Santo Padre si rivolgesse ai sacerdoti dicendo:
O sacerdoti, che avete dimenticato il senso del sacro … voi che non tenete piú un atteggiamento permeato di riverenza e del senso dello stupore … voi che non percepite piú di trovarvi alla presenza della maestà di Dio … voi che non permettete piú che i fedeli scorgano in voi un atteggiamento pieno di riverenza e di dignità … voi che non aiutate il popolo a penetrare le cose invisibili … ricordatevi che si possono celebrare i santi Misteri, che si può assistere alla celebrazione dei santi Misteri, senza tante parole e spiegazioni. 
Basta con le parole e le spiegazioni, la celebrazione dei santi misteri richiede solo un profondo senso di umiltà e di riverenza … e dove si apprende questo senso di umiltà e di riverenza? … Dalle bellissime preghiere contenute nel Messale tradizionale.

Certo, non è esattamente questo che ha detto il Papa, e lungi da noi il cattivo vezzo di porre in bocca ad altri ciò che ci fa piacere: ma come si può negare che tutto questo è interamente contenuto nella lettera del Papa?
Non il Messale riformato, ma il Messale tradizionale contiene quelle preghiere! Dice il Papa!
Ma il Papa lascia intendere ancora di piú!
Quando parla di liturgia a dei liturgisti e si rivolge ai sacerdoti che sono i ministri della liturgia: non è possibile che raccomandi loro la semplice lettura di certi passi edificanti. Perfino le letture del Breviario diventano esse stesse liturgia quanto il sacerdote adempie all’Ufficio divino. Ed allora è chiaro che, in maniera certo molto indiretta, lo stesso Papa Giovanni Paolo II in definitiva raccomanda ai sacerdoti di officiare col Messale di San Pio V.
Perché non basterebbe la semplice lettura di certe preghiere per ottenere gli effetti auspicati dal Papa, bisogna che i sacerdoti riscoprano tutta intera la stupefacente bellezza, la incomparabile profondità teologica, il millenario insegnamento contenuti nel Messale tradizionale: e possono farlo compiutamente se officiano con quel Messale, non se si limitano a ripassarlo come fosse un semplice libro di lettura. E questo, come dice il Papa, per la loro edificazione e per l’edificazione dei fedeli.

Anche a voler trascurare tutte le considerazioni che abbiamo esposto fin qui, basterebbe questa sola lettera del Papa a confermare, a piú di trent’anni dalla riforma liturgica, non solo l’attualità, l’importanza e la validità della liturgia tradizionale, ma addirittura la sua necessità, il suo essere indispensabile.

Ci resta adesso da presentare un’ultima questione. Quella che nel titolo di questo nostro incontro abbiamo chiamato la “riscoperta” della tradizione gregoriana.

Quando, nel 1970, venne pubblicato il Messale romano riformato, si verificarono non poche resistenze da parte di molti sacerdoti. Tanto che Papa Montini fu costretto a concedere il permesso perché i sacerdoti piú anziani potessero continuare a celebrare col Messale di sempre, ma solo in privato.
In effetti, si verificò che molti sacerdoti vennero praticamente esclusi dall’apostolato.
Da parte loro, i fedeli, accolsero con sorpresa e spesso con incredulità la nuova rivoluzione: a riprova del fatto che la riforma liturgica era stata il prodotto di una ristretta cerchia di liturgisti, e non era certo scaturita, come si era voluto far credere, dalle richieste e dalle esigenze dei fedeli.
Ciò nonostante, in pochi anni, in forza del principio di ubbidienza, la nuova Messa e la nuova liturgia vennero tranquillamente praticate da tutti. Quasi tutti finirono col credere alle piú rosee prospettive in ordine alla pratica della fede.
Solo la Fraternità San Pio X, organismo regolarmente approvato dalla Santa Sede, decise di non adottare la nuova liturgia. Con le conseguenze che tutti conoscono.
Ma anche un gran numero di fedeli non riuscí ad accettare la nuova situazione e, inevitabilmente, finí con lo stabilire un rapporto di tacita intesa con la Fraternità San Pio X.
Sorsero iniziative diverse, pubblicazioni, organizzazioni. Si ebbero proteste e suppliche. Si organizzarono pellegrinaggi. Ma ormai, si diceva, Roma aveva parlato, non v’era piú niente da fare, se non porsi all’ubbidienza di Roma.
I fedeli, chierici e laici, che non intendevano rinunciare alla liturgia tradizionale, si dibattevano nell’angoscioso problema di come rimanere fedeli alla Santa Sede pur sentendo la necessità di dover resistere alle novità.

Si dovette aspettare l’elezione al Soglio Pontificio dell’attuale Pontefice per giungere alla prima timida apertura nei confronti dei fedeli legati alla Tradizione.
Fu nel 1984 che il Papa Giovanni Paolo II autorizzò i Vescovi a permettere la celebrazione della S. Messa col Messale tradizionale. Il famoso indulto. Indulto ribadito con forza nel 1988 con il Motu Proprio Ecclesia Dei.
Che cosa era accaduto in quei diciotto anni?
A parte la situazione che vedeva protagonista la Fraternità San Pio X, la quale in quei diciotto anni, non solo non era scomparsa, ma si era tanto ampliata da trovarsi nella necessità di aver bisogno di nuovi Vescovi per reggere l’opera di apostolato che svolgeva ormai in quasi tutto il mondo cattolico. A parte questa situazione, si era verificato ciò che da piú parti era stato facilmente previsto fin dall’inizio.
Se la riforma liturgica era stata varata per dare inizio ad una “nuova primavera” della Chiesa ? per usare una espressione cara ai novatori ? in diciotto anni si erano visti, sí, tanti giorni assolati: ma di un sole crepuscolare, da autunno e da inverno, piuttosto che da primavera.
Crisi delle vocazioni, crollo della pratica religiosa, interminabili polemiche sul Concilio e su quello che veramente il Concilio aveva stabilito, scomparsa o ridimensionamento della pietà popolare, scomparsa degli oratorii, riduzione al minimo della catechesi, ridimensionamento della figura del sacerdote che da pastore d’ànime era diventato rovinosamente un qualsiasi assistente sociale. 
E l’elenco sarebbe lungo.
Per farla breve, si può dire in tutta tranquillità che ogni rosea speranza ed ogni fiduciosa attesa era stata smentita dai fatti. E se l’albero si riconosce dai suoi frutti, furono in molti a capire che i mancati frutti o i frutti marci erano stati prodotti dall’albero guasto della riforma postconciliare.
Un esempio per tutti. 
Il Card. Joseph Ratzinger era stato uno dei consiglieri teologici che nel corso del Concilio si erano adoperati attivamente per la riforma, in quei diciotto anni egli capí che i frutti del Concilio erano riusciti a produrre dei guasti. Da novatore divenne critico delle innovazioni, e fu uno dei primi, anche in forza della sua posizione di Prefetto dell’ex  sant’Uffizio, a segnalare la necessità di un ritorno alla Tradizione.
Il caso del Card. Ratzinger, logicamente, è solo indicativo di un malessere che attraversava gran parte dell’ecumene cattolico. 
Si trattò dei primi segni di quella che abbiamo chiamato la “riscoperta della tradizione gregoriana”.

Su un altro versante, alla crisi delle vocazioni e alla drastica riduzione della pratica della fede, faceva riscontro il gran numero di vocazioni sacerdotali e religiose che interessavano i gruppi sacerdotali e i monasteri che avevano mantenuto la liturgia tradizionale. Dalla Fraternità San Pio X, alla Fraternità San Pietro, all’Istituto Cristo Re ? che è qui a due passi, a Gricigliano ? ad alcuni monasteri benedettini, per citare solo i piú importanti.
Ma soprattutto furono i fedeli che si resero conto della necessità del mantenimento della liturgia tradizionale. Mentre quelli della prima ora potevano essere sospettati di semplice “conservatorismo”, non si poteva certo dire lo stesso per i tanti che in quei diciotto anni andarono ad ingrossare le loro fila: qui si trattava di fedeli che, stanchi e delusi dalle novità, avevano deciso di “ritornare” alla liturgia tradizionale; ma ancor piú si trattava di fedeli che, per la loro età, avevano letteralmente “scoperto” la ricchezza, la sacralità, la profondità, della liturgia dei nostri padri, dopo aver invano cercato tutto questo nella liturgia rinnovata.

Quando nel 1998 questi fedeli si radunarono a Roma, in occasione del decennale del Motu Proprio Ecclesia Dei, per ringraziare il Santo Padre dell’attenzione dimostrata nei confronti della Tradizione, si toccò con mano questa nuova realtà: tra i sacerdoti e i fedeli convenuti a Roma la percentuale dei giovani superava il 60%. Da tutte le parti del mondo giunsero a Roma intere famiglie i cui genitori portavano a spalla due, tre, quattro figli in tenera età.

E il fenomeno, che si andò ampliando nel decennio 1988-1998, da quest’ultimo anno assunse le connotazioni di un ruscello che diventa torrente ingrossato dalle acque di primavera.
Cos’era accaduto?
Nulla. Si era semplicemente verificato un lento ma inesorabile processo di decantazione. Tutti i nodi venivano al pettine. Non si trattava piú di insoddisfazione, ma del bisogno di un ancoraggio sicuro per mantenere e per praticare la fede. E questo ancoraggio lo si trovava solo nella Tradizione: senza discorsi, senza diatribe, senza distinguo: solo in forza della sua essenza. 

E in questi ultimi cinque anni il fenomeno ha veramente assunto proporzioni inaspettate: il numero dei fedeli che chiedono di poter praticare l’esperienza della Tradizione è cosí in aumento che la stessa Curia romana ha incominciato a porsi il problema di come corrispondere a questo bisogno che monta silenzioso ma pressante tra i figli devoti della Santa Madre Chiesa.

Sia ben chiaro che non stiamo parlando di un fenomeno che passa attraverso i consueti canali della informazione di massa. Non ci si aspetti quindi chissà quali riscontri sui giornali o nella televisione, tranne qualche occasionale articolo qua e là, magari dovuto alla particolare sensibilità di qualche giornalista piú attento.
Ma chi, come noi, in qualche modo vive a contatto, per quanto possibile, con l’àmbito religioso, ha potuto constatare che il numero di coloro che si volgono alla Tradizione della Santa Chiesa di Dio, in questi ultimi cinque anni è aumentato quanto meno del 300%.
Un fenomeno che non tocca i soli fedeli, ma che annovera la presenza di un numero sempre piú grande di sacerdoti e, soprattutto, di seminaristi.

Ma c’è di piú.
Se possiamo parlare con ragione di “riscoperta” della liturgia tradizionale, possiamo farlo anche in forza del fatto che la stessa Santa Sede, lo stesso Papa, e un numero sempre crescente di Cardinali hanno visto nel ritorno alla liturgia tradizionale l’unico argine in grado di porre un freno al dilagare dell’indifferentismo religioso e delle deviazioni teologiche e liturgiche.

Quando, nel 2000, in occasione del Giubileo, la Fraternità San Pio X si recò a Roma in pellegrinaggio per lucrare le indulgenze; e si presentò con piú di cinquecento tra sacerdoti e religiosi e piú di cinquemila fedeli, composti, oranti, genuflessi in San Pietro a pregare per il Papa regnante e per il bene della Chiesa; fu Roma a chiedere alla Fraternità di ricomporre l’annosa diatriba. E una delle motivazioni che spinsero il Card. Castrillon Hoyos, Prefetto della Congregazione per il Clero, a sollecitare la Fraternità in tal senso fu proprio il riconoscimento che il formale reinserimento della Fraternità nel seno della compagine cattolica avrebbe aiutato la Chiesa a fronteggiare quella crisi che la affligge orami da anni. E questo non perché i Vescovi e i sacerdoti della Fraternità fossero dei maghi: ma solo per il fatto che avevano mantenuto interamente la dottrina, la liturgia e la pastorale tradizionali.
Roma riconosceva apertamente la necessità del mantenimento della liturgia tradizionale.
Non solo.
Quando la Fraternità chiese, per il bene della Chiesa, la liberalizzazione dell’uso del Messale tradizionale, ponendo in secondo piano l’interesse della stessa Fraternità, a cui si offriva una soluzione canonica davvero favorevole; lo stesso Card. Castrillon si dimostrò d’accordo per l’opportunità della richiesta.  E non fu possibile giungere a tanto, solo per l’opposizione di certi Vescovi.

Ma la Santa Sede si decise comunque a sancire la legittimità della liturgia tradizionale, prima con la costituzione dell’Amministrazione Apostolica di Campos, che del tutto pari ad una diocesi, può adesso esercitare il suo apostolato usando esclusivamente i libri liturgici e la disciplina liturgica di San Pio V, e poi con l’ordinazione episcopale di Mons. Rifan, come Vescovo coaudiutore della stessa Amministrazione Apostolica, ordinazione effettuata dallo stesso Card. Castrillon Hoyos e da due altri Vescovi, secondo il rito di San Pio V.
A piú di trent’anni dalla presunta abolizione dei libri liturgici tradizionali, la Chiesa torna ad ordinare un successore degli Apostoli usando la liturgia di San Pio V. Torna ad assicurare la successione apostolica, e quindi la continuità stessa della Chiesa di Cristo, servendosi della sua millenaria liturgia.

Siamo ai primi del 2002. E questo atto ha segnato definitivamente una sorta di svolta nella vita della Chiesa, tanto che in un nostro articolo sull’ultimo numero del nostro giornale abbiamo potuto parlare di “conversione liturgica” del Vaticano.

Per concludere, possiamo dire che ci troviamo davvero in una nuova fase, per la quale tutti i giuochi devono ancora essere definiti: ma che possiamo e dobbiamo considerare esaurita la fase che ha visto i fedeli legati alla Tradizione come viventi nelle catacombe. C’è ancora molta strada da fare per giungere alla totale legittimazione della liturgia tradizionale, ma adesso possiamo e dobbiamo farla non piú sommessamente e quasi timidamente, ma a testa alta, con decisione e con forza, apertamente: non piú chiedendo, ma, ove necessario, esigendo ciò che la stessa Santa Sede considera come una pratica ordinaria della Chiesa.

Beninteso, se noi fossimo oggi qui per esigere qualcosa che attiene a noi stessi, alle nostre preferenze, alle nostre individualità, personali o di gruppo, commetteremmo un grave errore e arrecheremmo un grave danno alla fede e alla Tradizione.
Noi siamo tradizionalisti proprio perché non è il nostro interesse che conta, non è il nostro piacere che ci muove: sappiamo bene che a fronte della Santa Chiesa siamo ben poca cosa. Ed è giusto che sia cosí.
Noi siamo qui oggi, perché ciò che ci sta massimamente a cuore è il bene della Chiesa, l’onore della vera religione, la gloria dell’Altissimo. Siamo qui oggi perché abbiamo piú che mai presente la consapevolezza che noi siamo niente, mentre Iddio è tutto. Che noi non esistiamo neanche senza di Lui. Mentre Lui è e sarà sempre anche senza di noi.

E ci rivolgiamo supplici al Signore perché ci aiuti a vivere compiutamente l’anelito espresso nel salmo 113: 
Non nobis, Domine, non nobis, sed Nomini tuo da gloriam. 
Non a noi, o Signore, non a noi, ma al tuo Nome da’ gloria. 
Amen.
 
 

Testo della conferenza tenuta a Pisa, nella sala delle Baleari del Palazzo Comunale, il 1 marzo 2003, dal Presidente dell’Associazione Inter Multiplices  Una Vox, Calogero Cammarata.
 



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