IL CONCILIO VATICANO II,
TRA SOGNI, RIMPIANTI E REVISIONI
L'irriducibile pattuglia cattocomunista
si lancia ancora al contrattacco.
Il maldestro tentativo di apologia del Concilio di
Trento
di Alberto Melloni,
vecchio epigono della monumentale e falsificante storia
del Concilio
della tristemente famosa scuola di Bologna
L'articolo di Melloni
La puntualizzazione di Mons. Fellay (con la
replica di Melloni)
Il nostro commento
L'articolo di Melloni
Corriere della Sera, 22.11.2005, p. 41
Elzeviro: Il Concilio di Trento. - di Alberto Melloni
I due volti della Tradizione
"Tridentino" è una parola che nel linguaggio comune
ha perso la sua connotazione storico-religiosa, per ripiegare su più
comode allusioni turistiche. E anche quando si sente evocare ciò
che uscì dal Concilio Tridentino, aperto nel 1545 e finito, dopo
pause e itinerari, nel 1563, è usuale che ciò accada in un
contesto fatto di pruriti antipatizzanti contro Papa Roncalli e Papa Montini,
declamazioni retoriche che rievocano una età delle certezze, e una
nostalgica evocazione di un passato al quale si chiede di fornire asilo
in un presente che avrebbe perduto il senso della tradizione. Già,
la tradizione: la tradizione senza la quale la Chiesa non può vivere,
perché essa esiste nella consegna (la traditio) del messaggio da
uomo a uomo, da generazione a generazione, da età ad età.
Ma come insegnava il padre Congar, c’è una "Tradizione" maiuscola,
che preserva ed affina l’intelligenza della verità, e c’è
invece una "tradizione" con la minuscola, che è fatta di approssimazioni
nostalgiche con le quali qualche anima vecchia rimpiange modi d’essere
della propria gioventù e piange calde lacrime per quella che ? al
massimo ? può essere solo una "tradizione". Al contrario la "Tradizione"
in senso forte è fatta di scelte, di intuizioni del tempo e della
storia, di discontinuità storiche imboccate coraggiosamente proprio
per evitare che, in nome di qualche illusoria perpetuazione, si perda il
contenuto più profondo della verità cristiana.
Il Concilio di Trento è stato, da questo punto
di vista, un atto teso a custodire la Tradizione: custodirla nel momento
in cui ? per quasi trent’anni prima della sua apertura ? i predicatori
luterani evangelici portavano a fondo la critica al papismo romano e dunque
ponevano l’esigenza di chiarire i punti controversi; custodirla nel momento
in cui, dopo l’inutile attesa della riforma della Chiesa nel capo e nelle
membra, diventava necessario rimettere ordine in un organismo ecclesiastico
sfibrato dall’abuso.
Chi dunque ? come fanno oggi i circoli lefebvriani ?
si batte contro la liturgia del Vaticano II in nome del Messale di San
Pio V fa quasi sorridere: perché dimentica che quel Messale nacque
da un atto di riforma non meno forte, coraggioso, drammatico: Ne rende
ragione una immensa opera iniziata da Manlio Sodi e dal compianto Achille
M. Triacca e che vede ora la conclusione: i sei volumi dei Monumenta Liturgica
Concilii Tridentini (sei tomi, oltre quattromila pagine in vendita a 180
e), infatti, riproducono annotano e studiano ciò che il Tridentino
ordinò e ciò che venne da sé.
In questa riedizione anastatica, resa preziosa dalla
perfezione della Libreria Editrice Vaticana e ancor più dal corredo
di note, strumenti, introduzioni, sono infatti usciti il Messale e il Breviario
che il Concilio stabilì di produrre. Due volumi identici in tutta
la Chiesa latina, che però già allora (1568-1570) aveva dimensioni
planetarie: una operazione monumentale, che creava ex nihilo l’uniformità
cattolica, ricopriva le secolari e multiformi tradizioni locali (solo il
rito ambrosiano si salvò miracolosamente), imponeva un salto di
qualità da una pratica liturgica spesso rozza, ampliava l’area di
materie sottratte alla decisione e alla dispensa papale.
Dopo i primi due tomi, i liturgisti della Pontifica Università
Salesiana hanno ristampato anche i libri liturgici che il Tridentino non
aveva espressamente comandato (il Martirologio, il Cerimoniale dei vescovi,
il Rituale e il Pontificale), ma che erano venuti a chiudere fra il 1584
e il 1614 il cerchio della ritualità romana, fornendo una regola
rigida e alta, della quale danno conto le introduzioni dei diversi curatori
dei tomi che presentiamo e i fortunati ritrovamenti che li accompagnano
(ad esempio le note manoscritte del cardinale Bellarmino a margine del
Rituale Romanum).
Come spiegano gli studiosi qui coinvolti, dall’inizio
del Seicento alla metà del Novecento tale ritualità tridentina
avrebbe avuto più di tre secoli di indiscutibile fortuna, e avrebbe
collassato lentamente, man mano che le devozioni alzavano un muro di reciproca
estraneità fra il popolo che recitava le "sue" preghiere e la celebrazione
dei misteri, divenuti peculio del sacerdote: il crollo di quel muro sarebbe
stata l’altra grande riforma conciliare della liturgia, quella del Vaticano
II, alla quale l’antenata cinque-seicentesca oggetto di tali studi rigorosi
può insegnare qualcosa. Giacché una Chiesa che non sappia
mantenere la vitalità del proprio pregare non può che compromettere
anche il proprio credere: e d’altronde, proprio mentre incide nella carne
viva delle abitudini per salvare questa equivalenza ("lex orandi, lex credendi"
diceva un famoso adagio), smaschera le inerzie, irrita le pigrizie. Un’opera
di erudizione come sono questi Monumenta lo ricorda, per un tempo ormai
lontano, ma anche per il tempo prossimo.
In sei volumi si rispecchia una svolta fondamentale della
Chiesa. |
La puntualizzazione di Mons. Fellay
(con la replica di Melloni)
Corriere della Sera, 29.11.2005, pag. 37
sezione: Lettere al Corriere - data: 2005-11-29
num: - pag: 37
BREVI INTERVENTI E REPLICHE
Concilio Vaticano II: la riforma della Messa
L'articolo intitolato "I due volti della tradizione", apparso
nel Corriere della Sera del 22 novembre, merita una replica. L'autore
stabilisce un parallelo tra la riforma della Messa dopo il Concilio di
Trento e quella elaborata in seguito al Concilio vaticano II. Secondo l'autore
"quel messale (di San Pio V, ndr) nacque da un atto di riforma non meno
forte, coraggioso,
drammatico" rispetto al messale di Paolo VI. Ma
questo tentativo di mostrare una continuità tra le due riforme viene
smentito dai fatti.
San Pio V codificando il messale romano non ha fatto altro
che restituire il rito tradizionale, mentre la riforma di Paolo VI ha inventato
un nuovo rito. Il dibattito è proprio su questo punto: restaurazione
o invenzione. D'altro canto i preti e i fedeli attaccati alla Messa tridentina
non oppongono San Pio V al Vaticano II in ragione di un preteso errore
di prospettiva storica, ma essi deplorano la rottura tra un rito nuovo
— i cui autori hanno confessato le proprie intenzioni ecumeniche — e la
fede cattolica nella sua integrità.
Contrariamente ai rinnovatori conciliari, San Pio V non
ha soppresso i riti che potevano vantare più di 200 anni di esistenza,
non solamente il rito ambrosiano, come ricorda l'autore dell'articolo,
ma anche il rito certosino, il rito domenicano, il rito di Braga, il rito
lionese...
È certo che la Chiesa deve mantenere la vitalità
della sua preghiera che è l'espressione della vitalità della
sua fede. Ma i fatti parlano da soli: la caduta vertiginosa delle vocazioni,
l'abbandono in massa della pratica religiosa mostrano in modo più
eloquente di tanti discorsi e articoli se la nuova Messa sia spiritualmente
feconda. Queste statistiche allarmanti non sono né tridentine né
lefebvriane. Ci sono e basta. Contro questi fatti non serve a nulla piangere:
è più utile reagire.
Ritornare verso il tesoro della tradizione cattolica
bimillenaria non è una scelta nostalgica, ma è una reazione
vitale per oggi.
Un'ultima cosa: secondo l'autore dell'articolo la ritualità
tridentina avrebbe "collassato lentamente, man mano che le devozioni alzavano
un muro di reciproca estraneità fra il popolo" e la celebrazione
dei misteri. Comunque sia, nella Messa di San Pio V il popolo avvertiva
il respiro dell'eternità. Questo nel rito di Paolo VI è
completamente scomparso.
Monsignor Bernard Fellay
Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale
San Pio X
Bernard Fellay rimane dunque convinto che Paolo VI abbia
tradito "la fede cattolica nella sua integrità" e che il Vaticano
II abbia "inventato" una liturgia
priva del "respiro dell'eternità" che per lui
parla solo latino.
Speravo — devo confessarlo — che un autorevole interlocutore,
col quale il superiore della fraternità san Pio X ha avuto il privilegio
di conversare durante l'estate l'avesse fatto riflettere sulla sicumera
antistorica con cui parla del Vaticano II, il Concilio di cui celebreremo
fra poco i 40 anni e che continua a essere strattonato fra chi lo accusa
d'aver tradito la tradizione e chi lo vorrebbe imbalsamare in un continuismo
senza orizzonte.
Se nel tentativo di riconciliare Fellay con la verità
delle cose e la realtà della comunione cattolica non c'è
riuscito Benedetto XVI, non potevo certo riuscirci io...
Alberto Melloni |
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Il nostro commento
Questo articolo di Alberto Melloni non meriterebbe neanche
di essere preso in considerazione, poiché si tratta della ripresentazione
di argomentazioni che francamente hanno fatto ormai il loro tempo, non
tanto perché noi stessi siamo stufi di risentire sempre le stesse
cose cervellotiche e partigiane, ma quanto perché, grazie a Dio,
una certa retorica parolaia pro Vaticano II ha già mostrato le corde
ormai da qualche anno.
E tuttavia, un certo interesse questo articolo lo riveste
proprio per il fatto che rivela un profondo e diffuso disagio che ormai
attanaglia la già agguerrita pattuglia di sfondamento che negli
anni recenti ha svolto il compito di presentare in maniera accattivante
l’impresentabile riforma liturgica postconciliare.
Nella messa a punto inviata da mons. Fellay, e che
qui abbiamo riprodotta, si precisano alcune cose importanti, che l’autore,
nella sua breve replica, dimostra di non voler capire: non v’è infatti
peggior sordo di chi non vuol sentire.
Noi qui abbiamo pensato che fosse il caso di sottolineare
alcuni punti, non tanto per indurre a miglior consiglio l’autore, cosa
che non ci riguarda affatto, quanto per mettere a nudo il disagio a cui
accennavamo prima.
L’autore afferma che:
“Già, la tradizione: la tradizione senza la
quale la Chiesa non può vivere, perché essa esiste nella
consegna (la traditio) del messaggio da uomo a uomo, da generazione a generazione,
da età ad età.”
Ora, nelle lingua italiana il termine “consegna”
non rende il termine latino “traditio”, come afferma l’autore,
in italiano si rende la “traditio” latina con la “trasmissione”,
non con la “consegna”.
Sembra una sofisticheria, ma non lo è. L’idea di
trasmissione implica il concetto di mantenimento dell’integrità
della cosa trasmessa, integrità che deve mantenersi sempre: prima
durante e dopo ogni passaggio. L’idea di consegna, invece, si limita ad
indicare il semplice passaggio da una mano all’altra: l’affidamento puro
e semplice senza alcuna necessità di “trasmissione”, appunto.
Anche l’altra accezione di “consegna”, come compito da
svolgere, non include l’idea di trasmissione.
Qualcuno potrebbe pensare che l’autore abbia usato ad
arte quel termine, ben sapendo di cosa si tratti, cercando così
di confondere le idee, ma in realtà non è così: l’autore
ha solo una idea tutta sua della “tradizione”, che sia minuscola o sia
maiuscola; e questa idea, un po’ personale e oggettivamente distorta della
tradizione è quella che oggi va per la maggiore: quindi nessuna
malafede, l’autore è in perfetta buonafede, solo che non è
bene informato: è stato educato male e male istruito.
Precisa infatti:
“la "Tradizione" in senso forte è fatta di
scelte, di intuizioni del tempo e della storia, di discontinuità
storiche imboccate coraggiosamente proprio per evitare che, in nome di
qualche illusoria perpetuazione, si perda il contenuto più profondo
della verità cristiana.”
Come si vede: si pretende di sostenere che la tradizione
(la trasmissione della verità cristiana), per non perdere il suo
contenuto più profondo, deve perpetuarsi con scelte e intuizioni
temporali e storiche, frammiste a discontinuità da imboccare
…
Dal suo punto di vista l’autore ha ragione, ma solo
perché sta parlando di qualcosa di diverso da quello che si intende
veramente e seriamente per tradizione, sia dal punto di vista etimologico,
sia dal punto di vista concettuale.
Secondo lui la tradizione non sarebbe altro che la consegna
di una data cosa in una data epoca a coloro che vengono dopo perché
la usino a loro piacimento con scelte, intuizioni e discontinuità.
È ovvio che così facendo, da generazione in generazione,
si finisca con l’instaurare una modalità, una costumanza, un modo
di fare, tale da perpetuare una incessante e incessabile discontinuità.
In siffatta “consegna”, secondo l’autore, consisterebbe
la vera tradizione: nel perpetuarsi di una costumanza.
Come si vede siamo ai livelli della propaganda da pro
loco, ove per tradizione si intende la noiosa e annosa durata della fiera
della patata.
Del contenuto di quanto trasmesso, non v’è più
traccia. Tranne che nelle affermazioni apodittiche dell’autore. Poiché
nessuna logica potrebbe sostenere una contraddizione così elementare
tra scelte, intuizioni contingenti e discontinuità, da una parte,
e conservazione del contenuto, dall’altra.
Attenzione, però, perché l’autore parla
in realtà di “contenuto profondo”. Il che significa, secondo il
modo moderno di esprimersi, che si tratta del contenuto inteso correttamente
solo da coloro che se ne intendono: come l’autore, per esempio, e il padre
Congar che lui chiama a testimone.
Quest’ultimo, che fu uno dei famosi tessitori della vischiosa
e mefitica tela conciliare, precisa che la vera Tradizione, quella con
la maiuscola, “preserva ed affina l’intelligenza della verità”.
Cosa che, in parole povere, significa che la vera Tradizione,
quella con la maiuscola, non è il deposito della fede (depositum
fidei), ma la sua più aggiornata libera interpretazione.
E siamo sempre al solido pregiudizio progressista, che
nella pretesa di offrirsi come verità ineluttabile non si accorge
di affermare la sua stessa inconsistenza.
Se questa è la tradizione (e non lo è!),
sarà inevitabile che il futuro “affinamento dell’intelligenza della
verità” finisca col relegare l’intelligenza attuale tra il vecchiume
da abbandonare, instaurando una concezione talmente mutevole della verità
da vanificarne ogni possibile significato, vero e falso che fosse, ogni
possibile comprensione, giusta o sbagliata che fosse.
È esattamente quello che è accaduto a partire
dal Concilio: il caos e il disconoscimento degli insegnamenti cattolici
sia nella catechesi, sia nella liturgia, sia nella dottrina.
Basta leggere i documenti emanati dai vari uffici competenti
sia romani, sia nazionali, tesi a porre rimedio a tale caos, ma con scarsi
risultati.
Su un punto l’autore si esprime con maggiore puntualità:
quando afferma che il Concilio di Trento intese “custodire la Tradizione”
a fronte dei “predicatori luterani evangelici” e di un “un organismo ecclesiastico
sfigurato dall’abuso”.
E, aggiungiamo noi, questo dell’ “a fronte” fu anche
il limite del Concilio di Trento o, per meglio dire, del dopo Concilio
di Trento: per l’essersi lasciato condizionare dall’esigenza di andare
“contro”.
Prevalse infatti l'istanza della "contro"riforma, soprattutto
in termini di comunicazione, che oscurò di fatto il grande lavoro
di mantenimento della tradizione, permettendo poi a uomini moderni
e confusi come l’autore di affermare che l’universalizzazione della liturgia
dei Padri, conservatasi fino ad allora a Roma, debba considerarsi come
“ un atto di riforma non meno forte, coraggioso, drammatico”.
In realtà non vi fu alcuna riforma, né alcun
dramma, né servì chissà quale coraggio, né
tampoco l’applicazione delle disposizioni del Concilio di Trento ebbe alcunché
di forte, tant’è che in molte delle stesse diocesi ove si prescriveva
che potessero rimanere le forme liturgiche consolidate, chierici e fedeli
preferirono adottare spontaneamente e liberamente i libri liturgici usati
a Roma e riproposti dal Concilio.
La forza si esercitò nei confronti di tutte le
deviazioni che si erano prodotte in contrasto con la Tradizione, arrivando
perfino a concedere l’indulto perpetuo ai celebranti che volendosi conformare
al dettato conciliare avrebbero potuto trovare degli oppositori tra i vescovi:
indulto valido ancora oggi, tanto che potrebbe essere invocato da tanti
celebranti moderni contro le deviazioni e gli abusi dei vescovi post Vaticano
II. (vedi il riquadro qui a fianco).
L’autore sembra far finta di non conoscere queste cose.
In realtà, per quanto possa sembrare paradossale, l’autore non le
conosce davvero, perché appartiene a quella stessa categoria di
male informati da cui vennero pescati i famosi liturgisti che nel dopo
Concilio Vaticano II si inventarono a tavolino una liturgia ex novo, che,
anche in forza della loro ignoranza, si sforzarono di gabellare per “ritorno
alle origini”.
Questo è confermato da tutti gli studi condotti
in questi anni, ivi compresi gli appunti pubblicati da diversi contemporanei
che assistettero personalmente alla redazione dei nuovi libri liturgici
postconciliari.
(si vedano: lo
studio del R. P. Nicola Giampietro;
intervista al Canonico
Rose)
E l’ignoranza dell’autore si sposa poi con una profonda
malafede, poiché, a quarant’anni dal Concilio, solo una persona
in mala fede si può permettere di affermare che l’attuale riforma
liturgica corrisponde alla volontà espressa dai Padri conciliari
nei documenti del Vaticano II. |
Costituzione Apostolica
Quo primum tempore
§§ 6 e 7
… Dunque, ordiniamo a tutti e singoli […] [che] cantino
e leggano la Messa secondo il rito, la forma e la norma, che Noi abbiamo
prescritto nel presente Messale; e, pertanto, non abbiano l'audacia di
aggiungere altre cerimonie o recitare altre preghiere che quelle contenute
in questo Messale.
Anzi, in virtú dell'Autorità Apostolica,
Noi concediamo, a tutti i sacerdoti, a tenore della presente, l'Indulto
perpetuo di poter seguire, in modo generale, in qualunque Chiesa, senza
scrupolo veruno di coscienza o pericolo di incorrere in alcuna pena, giudizio
o censura, questo stesso Messale, di cui dunque avranno la piena facoltà
di servirsi liberamente e lecitamente: cosí che Prelati, Amministratori,
Canonici, Cappellani e tutti gli altri Sacerdoti secolari, qualunque sia
il loro grado, o i Regolari, a qualunque Ordine appartengano, non siano
tenuti a celebrare la Messa in maniera differente da quella che Noi abbiamo
prescritta, né, d'altra parte, possano venir costretti e spinti
da alcuno a cambiare questo Messale. |
Non v’è una sola riga della Sacrosanctum
Concilium che avalli una tale pretesa.
Si può dire che il documento in questione è
equivoco, si può dire che, in certi passi, è perfino contraddittorio,
si può dire che sia espressione di chissà quale inespressa
volontà, ma di certo non si può dire che esso stabilisca
la sostituzione della liturgia esistente nella Chiesa da duemila anni,
con una liturgia completamente nuova.
Che poi Paolo VI abbia promulgato dei libri liturgici
che non corrispondono a quanto previsto dalla Sacrosanctum Concilium,
ed abbia lasciato che si affermasse l’uso di ogni abuso, paradossalmente
anche in aperto contrasto perfino con gli stessi libri liturgici “rinnovati”,
è
questione che l’autore avrebbe il dovere di risolvere con la propria coscienza,
senza nascondersi dietro il paravento dei “pruriti antipatizzanti contro
Papa Roncalli e Papa Montini”, che sono poi solo dei richiami di un’evidente
e sofferta valenza autobiografica.
Tutti sanno infatti che l’autore appartiene a quel gruppo
di “pensatori” cattolici la cui specificità è costituita
dall’antipatia viscerale per tutto ciò che precede il Vaticano II
e comunque contrasti con la loro supponenza accademica.
Ignoranza e malafede che l’autore stesso ha voluto mettere
in risalto citando la riproduzione anastatica del Messale e del Breviario
decretati col Concilio di Trento come esempio di “una operazione
monumentale, che creava ex nihilo l’uniformità cattolica, ricopriva
le secolari e multiformi tradizioni locali (solo il rito ambrosiano si
salvò miracolosamente), imponeva un salto di qualità da una
pratica liturgica spesso rozza, ampliava l’area di materie sottratte alla
decisione e alla dispensa papale.”
L’autore non ha mai letto la Bolla con cui San Pio V
promulgò il Messale, perché se l’avesse letta saremmo autorizzati
a dichiarare che mente sapendo di mentire. Non un solo rito secolare venne
“ricoperto”, infatti. (vedi il riquadro qui a fianco)
È da credersi realmente che non l’abbia mai letta,
così come non ha mai gettato neanche uno sguardo sui libri liturgici
usati in diversi posti prima del Concilio di Trento (Milano, Braga o Toledo,
per esempio), perché allora non avrebbe potuto parlare di “liturgia
spesso rozza”, salvo dichiarare preventivamente che lui di liturgia non
capisce proprio niente. Cosa che è ben più comprensibile
e giustificata della malafede.
Nella stessa ottica va fatta rientrare la sottile vena
agiografica che traspare nei confronti del Concilio di Trento, usata in
maniera strumentale per poter poi sostenere che il Vaticano II non avrebbe
fatto altro che lo stesso lavoro benemerito di Trento, fatte salve, diciamo
noi, le famose scelte, intuizioni e discontinuità così care
all’autore. |
Costituzione Apostolica
Quo primum tempore
§ 5
Non intendiamo tuttavia, in alcun modo, privare del loro
ordinamento quelle tra le summenzionate Chiese che, o dal tempo della loro
istituzione, approvata dalla Sede Apostolica, o in forza di una consuetudine,
possono dimostrare un proprio rito ininterrottamente osservato per oltre
duecento anni. Tuttavia, se anche queste Chiese preferissero far uso del
Messale che abbiamo ora pubblicato, Noi permettiamo che esse possano celebrare
le Messe secondo il suo ordinamento alla sola condizione che si ottenga
il consenso del Vescovo o dell'Ordinario, e di tutto il Capitolo. |
Insomma, pur di far passare per meritevoli le sconclusionate
attuazioni postconciliari, l’autore è disposto a fare l’elogio del
Concilio di Trento.
Un’altra “operazione monumentale”, dice
quindi l’autore, si rese necessaria per il collassamento della ritualità
tridentina, causata dalle “devozioni [che alzarono] un
muro di reciproca estraneità fra il popolo che recitava le "sue"
preghiere e la celebrazione dei misteri … : il crollo di quel muro sarebbe
stata l’altra grande riforma conciliare della liturgia, quella del Vaticano
II…”.
Ora, anche a voler ammettere che prima del Vaticano II
esistesse una situazione di rilassamento, una cattiva comprensione della
liturgia da parte dei preti e una altrettanta cattiva ricezione della stessa
da parte dei fedeli, non si capisce perché sarebbe stata necessaria
l’invenzione di una liturgia ex novo solo per abbattere il famoso “muro”
denunciato dall’autore. Se il problema era il muro, bastava rimuoverlo:
ed ecco che la “ritualità tridentina”, come la chiama molto impropriamente
l’autore, sarebbe ritornata a risplendere in tutta la sua “qualità”,
quella “qualità” che sembrerebbe riscuotere il plauso dello stesso
autore.
Perché questo non è avvenuto?
Perché, per esempio, non ci si limitò
ad introdurre solo alcuni aggiustamenti, come peraltro raccomandato dalla
Sacrosanctum
Concilium?
Perché, dopo quarant’anni, siamo ancora qui
a chiederci qual è il modo per uscire dalla grave crisi che attanaglia
la Chiesa?
Queste sono le domande che ancora oggi aspettano una
risposta, e che cattolici come l’autore continuano ad ignorare nascondendosi
dietro la retorica pro Concilio ad ogni costo.
Con costoro non si va più da nessuna parte:
si continuerà a scivolare verso la miscredenza.
È ora di cambiare musica!
(IMUV dicembre.2005)
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