Intervista con il Cardinale Francis Arinze
Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti


 


30 Giorni ­ dicembre 2002

di Gianni Cardinale

Cosa dice il nuovo Prefetto della Congregazione per il Culto Divino
Attenzione alle traduzioni

Quando si passa dal latino al volgare, occorre essere fedeli all’originale, secondo le indicazioni fornite dal Concilio e dall’istruzione Liturgiam Authenticam. Un problema che riguarda il mondo anglofono, ma non solo…

Dal mese di ottobre, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha un nuovo Prefetto. E’ stato chiamato ad assumere quest’importante incarico il cardinale Francis Arinze, nigeriano, che ha già maturato una lunga esperienza curiale, perché per diciotto anni ha guidato di Dicastero vaticano che si occupa del dialogo con le religioni non cristiane.

Arinze, 70 anni compiuti da poco, ha partecipato, ancora giovane, all’ultima fase del Concilio Vaticano II. In effetti, dopo avere studiato filosofia nella sua patria e teologia a Roma, e dopo essere stato ordinato prete nell’Urbe nel 1958, nel luglio del 1965 fu nominato coadiutore dell’arcivescovo di Onitsha. Due anni più tardi fu posto a capo della metropoli nigeriana. Resta nel suo paese fino al 1984, quando Giovanni Paolo II lo chiama a dirigere il Segretariato per i non cristiani, l’attuale Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. E’ cardinale dal maggio 1985.

A due mesi dal suo insediamento, il cardinale africano ha accettato di rispondere ad alcune domande di 30 Giorni. L’intervista incomincia con la breve esperienza di Arinze al Concilio, il cui primo frutto fu la costituzione Sacrosanctum Concilium dedicata giustamente alla sacra liturgia.

30 Giorni ­ Eminenza, che le ricorda la sua breve esperienza conciliare?
Cardinale Francis Arinze ­ Per me fu una grande scuola. Come giovane vescovo non avevo gran che da dire, ma avevo molto da imparare. Soprattutto sull’universalità della Chiesa, e in che modo la Chiesa abbraccia il mondo, anche se non in maniera ingenua. In effetti, la Chiesa apprezza ciò che vi è di buono nel mondo, ma non ne ignora gli aspetti negativi.

30G. ­ Come ha vissuta la riforma liturgica postconciliare?
C. F. A. ­ Positivamente. La prima cosa che mi colpì fu che il Concilio favorì l’introduzione delle lingue volgari nella liturgia, senza abolire il latino, è opportuno ricordare questo punto. Ma questa novità non è senza problemi. Si usa dire, infatti, che il traduttore diviene facilmente traditore (traduttore/traditore). E poi certi passi della liturgia, preghiere che sono state recitate per secoli, non sono facili da tradurre. La questione delle traduzioni ha costituito un gran lavoro per le Chiese locali del mondo intero. Questo lavoro immenso si è anche dovuto fare per la Bibbia, da dove sono tratte le letture della messa, della liturgia delle ore e di altri riti sacri. Il Concilio, dunque ha dato molto lavoro alle Chiesa locali e alla Curia romana.
Adesso è necessario vedere se in questo lavoro siamo stati effettivamente fedeli al Concilio ­ a ciò che esso ha veramente detto, alla lettera del Concilio e non solo al suo spirito ­ e a ciò che la Chiesa ha indicato in seguito: i testi conciliari non entravano nei dettagli e sono stati esplicitati dai successivi documenti della Santa Sede.

30G. ­ Dunque, uno dei principali problemi del post-Concilio è stato quello delle traduzioni della liturgia in lingua volgare…
C. F. A. ­ Problemi molto sottili, in certi casi, che talvolta si possono riscontrare solo comparando con molta attenzione i testi in lingua volgare con l’originale latino. Problemi aggravati dal fatto che, talvolta, per certe lingue, non si è utilizzato l’originale latino come testo base, ma una traduzione in un’altra lingua volgare. Evidentemente, la questione si pone anche per la Bibbia. Ma questo non è stato il solo problema del post-Concilio. Si è riscontrato che molti vescovi e preti non hanno studiato come dovevano i testi conciliari… Si racconta di un prete ­ non africano ­ che aveva chiesto ad un suo confratello in partenza per Roma: “Puoi comprarmi un libro… non mi ricordo bene chi l’ha scritto… ma il titolo è Lumen gentium…”. Su questo versante anche la Chiesa deve fare un lavoro immenso.

30G. ­ In questi ultimi anni si è visto che la Santa Sede, e in particolare il suo Dicastero, hanno riservato un’attenzione speciale alle traduzioni liturgiche in lingua inglese. Questo significa che vi sono dei problemi solo nella zona anglofona?
C. F. A. ­ Il problema riguarda tutta la Chiesa universale e non solo l’anglofona. Tuttavia, la zona di lingua inglese è particolarmente importante perché è molto estesa e perché talvolta accade, per dei motivi pratici, che le traduzioni in certe lingue particolari vengano effettuate a partire dai testi inglesi e non direttamente dal latino, come si dovrebbe fare fin dall’inizio. Le traduzioni in inglese, dunque, meritano, se possibile, un’attenzione e una cura particolari. Ma, per questi stessi motivi anche le traduzioni francesi e spagnole meritano altrettanta attenzione. Mentre per altri motivi, ugualmente importanti, le traduzioni in italiano devono essere seguite con una cura particolare.

30G. ­ Qual è il criterio che si dovrebbe seguire nelle traduzioni liturgiche?
C. F. A. ­ I criteri sono spiegati bene nell’istruzione Liturgiam authenticam. Queste traduzioni devono essere accurate e fedeli all’originale latino; una volta approvate dagli episcopati locali devono essere inviate a questa Congregazione per ricevere la recognitio; ed è solo dopo aver ricevuto la recognitio che possono essere utilizzate nei diversi Paesi.

30G. ­ Nel periodo posconciliare si è parlato molto di “inculturazione liturgica”…
C. F. A. ­ Talvolta anche a sproposito… Ma, se si comprendono bene i documenti conciliari e la dottrina su cui si fondano, è difficile parlare di “inculturazione”.

30G. ­ Una modalità di inculturazione che è stata approvata dalla Santa Sede è quello che si chiama il “rito zairese”…
C. F. A. ­ L’antico Zaire è uno dei 53 Paesi africani, ed io ho avuto personalmente occasione di partecipare ad una liturgia di questo genere quand’ero ancora in Nigeria. Questo modo particolare di celebrare il rito latino mi sembra buono. E’ bene ricordare che il “rito zairese” è stato il frutto di uno studio molto serio a livello locale e di una revisione attenta da parte della Santa Sede. Se tutti i Paesi facessero lo stesso non vi sarebbero dei problemi. Questo rito non è celebrato in tutto l’antico Zaire, ma laddove è applicato mi dicono che è fatto bene. Si dice che questo ben corrisponde all’animo africano ed io non ho ragione di dubitare che sia vero. Personalmente sono molto aperto su questo punto.

30G. ­ Lei pensa che siano possibili altri adattamenti del rito romano, in Africa o altrove?
C. F. A. ­ Non lo escludo. Ma occorre evitare che qualcuno inventi qualcosa il sabato sera e lo esperimenti in qualche posto la domenica mattina, pretendendo poi di poterlo utilizzare sempre e in ogni caso. Questo genere di iniziative devono essere sempre ben studiate, devono essere sostenute dai vescovi del luogo e, infine, devono ricevere la recognitio da questa Congregazione.
Evidentemente, bisogna sempre ricordare che gli adattamenti non possono essere fatti che facendo salva l’autenticità del rito latino. Sull’essenziale occorre l’unità, su ciò che non è essenziale possono essere apportate delle legittime variazioni, debitamente approvate da Roma. Senza improvvisazioni, talvolta dettate da un entusiasmo mal riposto. La Chiesa infatti non è cominciata oggi, né si estinguerà con lei o con me.
La Chiesa è stabilita da Nostro Signore ed ha una tradizione, ha dei riti sacri che non possono essere rivoltati da un giorno all’altro. Certe formule della liturgia sono il frutto di discussioni secolari all’interno della Chiesa, sono delle formule con le quali la Chiesa ­ talvolta dopo lunghe e faticose riflessioni ­ è giunta ad una cocretizzazione verbale della fede. Non deve mai dimenticarsi la regola lex orandi lex credendi: come preghiamo scaturisce da ciò che crediamo, e come celebriamo influenza come crediamo.

30G. ­ Il cardinale Joseph Ratzinger, in questi ultimi anni, ha più volte espresso la sua perplessità di fronte ad un’eccessiva creatività nella celebrazione delle liturgie della domenica. Ultimamente lo ha fatto nel suo libro Introduzione allo spirito della liturgia
C. F. A. ­ E’ un libro che ho letto tre volte. Io sono perfettamente d’accordo con il cardinale Ratzinger. Se si esalta la creatività nella liturgia, finisce che ognuno celebra alla sua maniera, e possono aversi tanti tipi di messa per quanti preti ci sono. Bisogna sempre ricordarsi che è la Chiesa che celebra la liturgia, non il prete, né la semplice comunità, né tampoco la diocesi.

30G. ­ Lei è un figlio spirituale del padre Michael “Iwene” Tansi, il monaco cistercense della sua terra che il Papa ha proclamato beato quattro anni fa. Cosa le ha insegnato il beato Tansi sulla liturgia?
C. F. A. ­ La maniera sobria con cui celebrava la messa. Si vedeva che era un uomo di Dio, che non faceva del teatro, che non celebrava qualcosa che dipendeva da lui. E’ anche per questo suo modo di celebrare che la sua fede era contagiosa per noi giovani che partecipavamo a queste liturgie. La fede profonda del padre Tansi traspariva anche nella maniera in cui amministrava i sacramenti, e in modo particolare nel battesimo e nella confessione.

30G. ­ Eminenza, lei ha celebrato la messa secondo l’antico rito, quello di San Pio V, e secondo il novus ordo postconciliare. Quali sono i valori principali di questi due riti?
C. F. A. ­ Nel rito antico vi sono più gesti ­ genuflessioni, riverenze, segni di croce, silenzio ­ che ci aiutano a pregare. Il rito attuale aiuta meglio il prete a coinvolgere i fedeli presenti, ma esso esige un comportamento degno da parte di questo prete, ed una buona preparazione da parte dei laici che collaborano più attivamente alla liturgia. Chi fa le letture, chi dirige il coro, i coristi stessi, devono evitare accuratamente ogni deriva che li ponga in primo piano. In effetti, i preti, i giovani del coro, i lettori, i coristi, corrono il rischio di attirare l’attenzione su di loro, e non sul mistero che si celebra. Non si va a messa per far vedere fino a che punto si è dotati, né per applaudire. Il coro non canta per essere ammirato dal popolo (a questo proposito mi è capitato di osservare dei maestri di coro che si comportano da primi attori e trattano il celebrante come se fosse un ragazzo del coro). Chi predica, chi proclama le letture, non lo fa per sollecitare gli applausi… E’ chiaro che questo non è imputabile al nuovo rito, ma a colui che non lo segue correttamente.
In generale si può ammettere che vi siano dei fedeli che trovano l’antico rito più adatto alla loro pietà e all’adorazione, e che ve ne siano degli altri che invece trovano il nuovo rito più adatto alla celebrazione della comunità ecclesiale. Dev’esserci posto per gli uni e per gli altri. E’ questo che ha previsto Giovanni Paolo II nel suo motu proprio Ecclesia Dei adflicta, quando ha pregato i vescovi di essere generosi nell’applicazione dell’indulto per l’uso dell’antico messale alle condizioni stabilite.

30G. - Lei parla di applausi. Che ne pensa dell’uso di interrompere la liturgia con degli applausi?
C. F. A. ­ Dico solamente che il prete non deve cercare di essere applaudito. Se poi, da parte del popolo, vi è una reazione spontanea di approvazione all’ascolto di certe proposizioni, è un’altra cosa… Non è utile irreggimentare tutte le espressioni del popolo…

30G. ­ Celebra ancora la messa detta “di san Pio V”?
C. F. A. ­ No, non l’ho più celebrata da quando è stato approvato il novus ordo. Io ho fede nella Chiesa. E il nuovo rito mi va bene. I problemi cominciano quando è mal celebrato… Invece continuo a celebrare la messa in latino, sempre secondo il novus ordo. Sfortunatamente si deve constatare che in molte diocesi i fedeli non assistono da molto tempo ad una messa cantata in latino. E anche questo non va bene. Quand’ero arcivescovo di Onitsha, pregavo i miei curati di celebrare la messa cantata in latino almeno una volta al mese, e chiedevo che in ogni grande città si celebrasse una messa così ogni domenica, almeno in una chiesa.

30G. ­ Il cardinale Ratzinger, nel libro citato prima, ha ricordato il valore che nell’antica liturgia aveva la celebrazione versus orientem
C. F. A. ­ Come spiega bene nel suo libro il cardinale Ratzinger, l’importante è che si celebri versus Dominum. E’ per questo che egli ha suggerito che al centro dell’altare vi sia un crocifisso sufficientemente grande, così che, giustamente, nel corso della messa il celebrante e il popolo siano rivolti verso il Signore e non l’uno verso l’altro. E questo per evitare ancora meglio che le persone presenti si comportino da attori, e per confermare che l’unico attore dell’azione liturgica dev’essere il Signore.

30G. ­ Per numerosi anni lei è stato presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Che ne pensa della teoria di Huntington sullo choc delle civiltà?
C. F. A. ­ Il professor Samuel Huntington prevede, in un avvenire prossimo, il rischio di collisione tra la civiltà influenzata dal cristianesimo e la civiltà dominata dall’islam. Molti pensano che potrebbe accadere, ma non è certo che le cose debbano andare così.
Il che significa che questa collisione può essere evitata. Ed è nostro dovere fare in modo che questa profezia non si realizzi. Huntington non ha fatto male ad indicare questo tipo di pericolo. Ma il nostro dovere è di fare in modo che questo non succeda. Bisogna poi precisare che talvolta vi sono dei conflitti, degli episodi di violenza, che sembrano di natura religiosa e che invece hanno delle motivazioni politiche, economiche, razziali, che sono i frutti di ferite storiche del passato ­ vere o sentite come tali ­ non ancora cicatricizzate.

30G. - Si riferisce ai recenti avvenimenti della Nigeria?
C. F. A. ­ Si, anche. In Nigeria, numerose persone riconoscono che dietro ciò che è accaduto vi sono delle ragioni politiche e non principalmente religiose. L’anno prossimo vi saranno le elezioni federali, nazionali e locali. E certi vogliono creare dei problemi al governo centrale, o vogliono guadagnare qualche punto nei governi locali. Occorre ricordare che nel nord della Nigeria l’introduzione della sharia non è promossa dai capi religiosi, ma dagli uomini politici, nella speranza di guadagnare i voti dei fedeli islamici. Quanto ai disordini, poi, bisogna pensare che la maggior parte dei giovani che vi hanno partecipato sono senza lavoro, il loro avvenire non è radioso, e dunque sono facilmente manipolabili…

30G. ­ La guerra che potrebbe scatenarsi in Iraq può essere considerata come un effetto dello choc fra civiltà cristiana e musulmana?
C. F. A. ­ I cristiani dell’Iraq dicono di godere di una certa libertà. Adesso, quelli che vogliono la guerra contro l’Iraq devono dirci esattamente perché la vogliono, e ciò che vogliono. Io non sono del tutto convinto che sia necessaria una guerra. Sono convinto invece che una guerra potrebbe avere delle gravi conseguenze per tutti, musulmani e cristiani, come per i soldati che vi parteciperanno e per i civili che ne patiranno le conseguenze… Io vengo dall’Africa, ove gli occidentali, Europei e Nordamericani, si presentano come dei popoli civili. Allora chiedo loro: se siete effettivamente civili perché, con tutti i mezzi moderni di cui disponete, non riuscite a trovare un altro modo, diverso dalla barbarie della guerra, per risolvere i problemi internazionali? E’ la semplice domanda di un cardinale del terzo mondo. La guerra, anche questa guerra che si prepara, è una disfatta per l’umanità.
 





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