LA PARTECIPAZIONE ALLA SACRA LITURGIA

CONFERENZA TENUTA A PARIGI, IL 22 NOVEMBRE 2003,

DAL CARDINALE JORGE ARTURO MEDINA ESTEVEZ
Prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino
Arcivescovo enerito di Valparaiso


Introduzione

L’idea della partecipazione alla liturgia si basa su dei principi dottrinali che, a loro volta,  hanno come fondamento l’ecclesiologia cattolica. Ora se le attività ecclesiali, secondo il Concilio Vaticano II (cf, Lumen Gentium, 25; Christus Dominus, 12-16; Presbyterium ordinis, 4-6), si svolgono intorno all’annuncio della Parola di Dio, alla celebrazione liturgica e alle azioni che derivano dal governo pastorale del Popolo di Dio, sarebbe errato considerare l’aspetto attivo di queste stesse attività come dipendente dai soli ministri ordinati, poiché in tal modo la partecipazione dei fedeli risulterebbe solo passiva. Lo schema “dare-ricevere” non corrisponde esattamente alla natura profonda dell’ecclesiologia cattolica, ma costituisce una eccessiva semplificazione di una realtà che è molto piú ricca. Certo, non si tratta di negare il ruolo necessario e insostituibile del ministero dei Vescovi e dei preti, bensí di dar conto della sana teologia cattolica, cosí come è stata proposta dal Concilio Vaticano II.

Ecco alcuni testi che illustrano questo concetto:

"Le azioni liturgiche non sono azioni private ma celebrazioni della Chiesa, che è “sacramento dell'unità”, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi . Perciò tali azioni appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano; ma i singoli membri vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, degli uffici e della partecipazione effettiva" (Sacrosanctum Concilium, 26).


La logica conclusione del testo precedente è che 

"Ogni volta che i riti comportano, secondo la particolare natura di ciascuno, una celebrazione comunitaria caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli, si inculchi che questa è da preferirsi, per quanto è possibile, alla celebrazione individuale e quasi privata." (Sacrosanctum Concilium, 27).


E piú concretamente 

"Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio si limiti a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza" (Sacrosanctum Concilium, 28).


È importante notare come la terminologia impiegata dal Concilio indichi una preferenza per l’uso del termine “celebrazione”, termine che sottolinea la dimensione ecclesiale e comunitaria delle azioni liturgiche. Nel nuovo Codice di Diritto Canonico, questo termine “celebrazione” è impiegato molto spesso, senza tuttavia escludere il termine “amministrazione” dei sacramenti, espressione che veicola anch’essa degli importanti concetti sul piano teologico in vista di una corretta comprensione della natura e dell’efficacia dei sacramenti. Di conseguenza, non stupisce il fatto che il termine “celebrazione” abbia acquisito una importanza tutta particolare nella catechesi liturgica e nella terminologia ordinaria dei preti e dei fedeli.

Proseguiamo la nostra riflessione citando altri testi del Concilio Vaticano II:

"Giustamente perciò la liturgia è considerata come l'esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo. In essa, la santificazione dell’uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio a ciascuno di essi; in essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesú Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra" (Sacrosanctum Concilium, 7, 2).
"Effettivamente per il compimento di quest’opera così grande, con la quale viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati, Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua sposa amatissima, la quale l’invoca come suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all’eterno Padre" (Sacrosanctum Concilium, 7, 1).

"Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado" (Sacrosanctum Concilium, 7, 3).


Dopo aver considerato alcuni aspetti complementari dell’insegnamento della Costituzione Sacrosanctum Concilium, è necessario richiamare la dottrina del Concilio Vaticano II sul sacerdozio comune dei fedeli, dottrina che, nel riprendere un tema molto antico, esplicita in maniera eccellente il fondamento della partecipazione dei fedeli alla celebrazione liturgica. Ecco la citazione di questo testo capitale della Costituzione Lumen Gentium:

"Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli uomini (cfr. Eb 5, 1-5), fece del nuovo popolo “un regno e sacerdoti per il Dio e il Padre suo” (Ap 1, 6; cfr. 5, 9-10). Infatti per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre li chiamò all’ammirabile sua luce (cfr. 1 Pt 2, 4-10). Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cfr. At 2, 42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cfr. Rm 12,1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza che è in essi di una vita eterna (cfr. 1 Pt 3, 15).
"Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’offerta dell’eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e la carità operosa" (Lumen Gentium, 10).


La vita cristiana, dunque, dev’essere considerata come un inno di "lode a gloria della grazia di Dio" (Ef, 1, 6-12-14), come un’offerta di noi stessi a Dio, come vittime viventi e sante, consapevoli di ciò che è a Lui gradito e di ciò che è perfetto (Rom 12, 1-2). Ora, questa lode trae il suo valore dal fatto che noi siamo incorporati a Cristo fin dal nostro battesimo e che la lode perfetta che Egli compie sulla Croce implica la nostra, o meglio, in altri termini, che la nostra lode si incorpora a quella di Cristo proprio per l’intervento della rinnovata presenza del  suo sacrificio, compiuto una volta per tutte (Eb 7, 27; 9, 12-28; 10, 12-14) sul Calvario. Si può dunque affermare che, in questo senso, la vita cristiana è una vita sacerdotale, cioè una vita consacrata alla gloria di Dio, o meglio ancora una "vita liturgica", e questo non solo nel corso della celebrazione del culto liturgico propriamente detto, ma anche, partendo da esso, nel viverlo come il culmine (Sacrosanctum Concilium, 10) di una vita in cui esso si affaccia in tutte le nostre azioni, ivi comprese quelle che derivano direttamente dalle responsabilità temporali o che portano l’impronta di ciò che è provvisorio o incompiuto.

II La partecipazione

Per continuare ad approfondire questo tema della partecipazione nel quadro della Liturgia, è molto importante tenere conto delle riflessioni precedenti.

Il testo piú esplicito del Concilio Vaticano II sulla partecipazione dei fedeli alla Liturgia, afferma:

"Ad ottenere però questa piena efficacia, è necessario che i fedeli si accostino alla sacra liturgia con retta disposizione d’animo, armonizzino la loro mente con le parole che pronunziano e cooperino con la grazia divina per non riceverla invano. Perciò i pastori di anime devono vigilare attenta mente che nell’azione liturgica non solo siano osservate le leggi che rendono possibile una celebrazione valida e lecita, ma che i fedeli vi prendano parte in modo consapevole, attivo e fruttuoso (Sacrosanctum Concilium, 11).
 
I tre aggettivi con i quali il testo conciliare qualifica la partecipazione sono: "consapevole", "attivo" e "fruttuoso", ma il testo afferma che queste tre caratteristiche vanno al di là dalla semplice osservanza di una celebrazione valida e lecita, poiché devono essere le conseguenze di una "retta disposizione d’animo" di una cooperazione con la grazia divina.
In questo senso, "prendere parte", "far parte di un tutto", "agire", "incorporarsi" e "mettersi in comune" sono delle espressioni che non riguardano solo gli aspetti esteriori, ma soprattutto e innanzi tutto le attitudini interiori e spirituali. Se questo non si verifica è inevitabile che la celebrazione liturgica diventi una sorta di spettacolo o, se si vuole, una espressione di tipo folkloristico, o peggio ancora un vuoto ritualismo o anche un esercizio ginnico o coreografico!
Le disposizioni interiori richieste per una fruttuosa partecipazione alla celebrazione della Liturgia corrispondono fondamentalmente alle virtú teologali: fede, speranza e carità.

Se è vero che, come afferma San Paolo a piú riprese: "Il giusto vivrà per la fede" (Rom 1, 17; Eb 10, 38; Gal 3, 11), è evidente che il culmine della vita cristiana, che è la Liturgia, non può esistere al di là della luce della fede e senza lo spirito di fede.

È vero anche che la fede cristiana, che è la virtú propria della nostra condizione di pellegrini, si accompagna necessariamente alla speranza. La fede ci mostra il senso della nostra esistenza in questo mondo e i mezzi che dobbiamo adottare per raggiungere lo scopo ultimo della nostra vita. La speranza, da parte sua, ben conscia delle nostre debolezze e delle ferite che il peccato ha lasciato nella nostra ànima, guarda con fiducia verso lo scopo ultimo del nostro pellegrinaggio con la certezza di potervi pervenire grazie all’aiuto di Dio, che solo può introdurci in una relazione di "connaturalità" con Dio, fonte dell’essere, della salvezza e della vita beata.

La fede e la speranza normalmente devono condurre alla carità, che, in maniera, indissolubile, ha per oggetto Dio stesso, da una parte, e il prossimo per amore di Dio, dall’altra. Si tratta evidentemente dell’amore di Dio con tutto il nostro cuore, con tutte le nostre forze e con tutto il nostro essere e, al tempo stesso, dell’amore dei nostri fratelli secondo le caratteristiche commoventi descritte da San Paolo (I Cor 13, 1-13).

In vista di una partecipazione fruttuosa alla Liturgia, alle tre virtù teologali si può aggiungere un’altra disposizione interiore indispensabile: la virtú di religione. Questa espressione ha il significato di rispetto profondo, di umile adorazione di Colui che è Tre Volte Santo e a cui noi non siamo degni di accostarci (Es 3, 1-6; I Re 19, 9-13). Si può affermare che la virtú di religione è come l’ànima della Liturgia; infatti, anche se non si può mai dimenticare che Dio è nostro Padre, nondimeno Egli è anche un Padre di immensa maestà, è il Signore onnipotente, è il Re dell’eterna gloria.

1) La fede
Ritorniamo adesso alla virtú teologale della fede, per approfondirne i diversi aspetti.
Poiché le realtà divine appartengono al mistero della fede, è vero che si può accedere alle realtà invisibili ai nostri occhi umani solo per mezzo della fede (Eb 11, 1), e senza la fede non si può neanche giungere alla convinzione che tutto ciò che si vede proviene da ciò che non si vede (Eb 11, 3). Infatti, la fede scopre ciò che è invisibile attraverso ciò che è visibile, la fede trascende le esperienze sensibili e ci permette di accedere al mistero; infine, è proprio la fede che ci permette di percepire il significato efficace dei gesti liturgici nel corso della storia della salvezza, poiché la Liturgia non è una costruzione astratta e fuori del tempo, ma è invece una celebrazione radicata negli avvenimenti che costituiscono il tessuto della realizzazione del disegno eterno della salvezza, cosí come l’ha voluto il Padre, come si è manifestato col Verbo incarnato e come continua a realizzarsi per l’azione dello Spirito Santo nella Chiesa.

2) I segni
Affrontiamo adesso la questione specifica dei segni liturgici.
È possibile affermare che, senza alcun dubbio, la ragion d’essere dei segni propri della Liturgia derivano dalla natura umana, considerata nella sua realtà ad un tempo corporea e spirituale; essa deriva anche dal mistero dell’Incarnazione, grazie al quale l’accesso al Dio invisibile diventa possibile attraverso l’umanità reale di Gesú Cristo. Infatti, come l’umanità di Cristo è lo strumento dell’azione salvifica del Verbo, i segni liturgici contengono e trasmettono la potenza salvifica di Dio; per mezzo di essi la grazia di Dio è comunicata o intensificata in tutti coloro che hanno già ricevuto la giustificazione, l’adozione divina e l’incorporazione nella Chiesa.

È certo che la comprensione dei segni liturgici è inclusa nella partecipazione cosciente e fruttuosa alla Liturgia; tuttavia, anche se questi segni esercitano comunque, con la loro semplice presenza, un ruolo pedagogico nei confronti di coloro che li percepiscono con una coscienza limitata dal punto di vista del loro contenuto, essi esigono la presenza di una mistagogia permanente e di una formazione, basate sulla catechesi liturgica, tali da permettere sia ai fedeli sia ai ministri di progredire nella conoscenza del mistero che viene celebrato. Questa precisazione è particolarmente importante quando si è alla presenza di un rito che non è celebrato abitualmente, come per esempio del rito delle ordinazioni o della dedicazione di una nuova chiesa. Niente è piú nocivo alla partecipazione spirituale dei fedeli ad una celebrazione liturgica, dell’atteggiamento troppo frettoloso o distratto del celebrante, o del compimento meccanico dei suoi gesti liturgici.
Vi sono tre termini, derivati da una preghiera tradizionale, che riassumono bene l’atteggiamento che dovrebbe essere proprio di ogni celebrante: "degno", "attento", "devoto", tant’è vero che lo stesso celebrante è un segno. In quanto persona consacrata e strumento dell’azione di Cristo glorioso, che è l’autore principale delle azioni sacramentali, il ministro ordinato, al pari del fedele laico deputato in base alle norme del diritto, deve lasciare trasparire il mistero che viene celebrato, in modo tale che la comunità possa essere in grado di percepire che il ministro non è un attore di teatro, né un funzionario, ma un credente attento alla presenza ineffabile di Colui che non può essere visto con gli occhi della carne, ma che è piú reale di tutto ciò che appartiene all’universo dell’esperienza sensibile.
Una celebrazione liturgica "degna" dev’essere innanzi tutto impregnata della bellezza del luogo in cui si svolge, e degli oggetti del culto che vi sono impiegati, anche se si tratti di una bellezza semplice ed essenziale. Essa comporta anche l’accuratezza dei paramenti liturgici e la qualità dei vasi sacri. Di contro, se una tale celebrazione riveste un aspetto teatrale, essa non può essere considerata come veramente "degna";  infatti, lungi dall’essere uno spettacolo, una celebrazione liturgica ha una dimensione innanzi tutto religiosa e spirituale. Infine, questa nozione della dignità include la necessità che le celebrazioni siano accompagnate con dei movimenti appropriati alla Liturgia, dei movimenti cioè che siano compiuti senza fretta, con una certa posatezza ed eleganza, ma senza affettazione.

Una celebrazione liturgica dev’essere poi "attenta", il che esige uno sforzo particolare da parte del celebrante, affinché, nella misura del possibile, eviti le distrazioni, soprattutto quelle volontarie. Quest’aggettivo "attenta" permette di insistere sulla volontà del celebrante di concentrare il suo spirito, il che esige una disciplina dei sensi atta ad evitare di lasciarsi distrarre dai tanti oggetti che cadono sotto il suo sguardo e distolgono la sua attenzione. La musica, evidentemente, non costituisce in sé un ostacolo per questa attenzione, poiché essa fa parte integrante della partecipazione del coro e dei fedeli; tuttavia, si deve deplorare il fatto che certi pezzi musicali che accompagnano certe celebrazioni liturgiche, non favoriscono l’attenzione del celebrante e dei partecipanti. Infatti, esistono dei generi musicali, troppo marcati da uno stile teatrale, che mettono in evidenza in maniera eccessiva le qualità artistiche degli interpreti, il che finisce col provocare delle spiacevoli distrazioni tra coloro che partecipano alla celebrazione liturgica. È dunque del tutto deplorevole che, in certi casi, la celebrazione della Santissima Eucarestia sia percepita in qualche modo come un elemento secondario in rapporto all’esecuzione di un pezzo musicale celebre, il quale mette in rilievo la qualità del compositore e il virtuosismo degli interpreti. È certo che le pratiche di questo tipo non contribuiscono a rafforzare il senso religioso e il raccoglimento e, a questo proposito, è il caso di far notare che l’impiego del canto gregoriano e della polifonia della migliore qualità, entrambe al servizio della Liturgia, non comportano invece questo tipo di conseguenze particolarmente nefaste.

L’"attenzione" esige anche il silenzio, e cioè innanzi tutto il "silenzio interiore", o, se si vuole, un cuore placato e calmo, il che a sua volta implica evidentemente il silenzio esteriore. Le chiacchere e i commenti dei concelebranti tra loro o con gli altri ministri seduti loro vicini, sono il segno di uno spirito senza disciplina e costituiscono un cattivo esempio per i fedeli. L’attenzione richiesta nel corso di una celebrazione liturgica esige invece, come condizione previa, una accurata preparazione della celebrazione stessa, senza che si abbia l’impressione che i suoi diversi elementi siano lasciati all’improvvisazione.

Infine, la celebrazione dev’essere "devota", il che significa che è necessaria un’attitudine intrisa di rispetto, di amore di Dio, di senso religioso e di attenzione nei confronti di ciò che è "l’unica cosa necessaria" (Lc 10, 42). In francese l’aggettivo "devoto" può essere reso col termine "pio". È possibile definire questo termine nel modo seguente: "una persona devota è quella che è cosciente che la sua vita non ha alcun senso se non è collegata intimamente a Dio"; in altri termini, si tratta dell’attitudine di colui che vuol vivere in maniera totalmente coerente con la sua consacrazione battesimale, seguendo il programma che San Paolo riassume in poche parole: "Se viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore. Vivi o morti, noi apparteniamo al Signore" (Rom 14, 8). Questo significa che una persona devota è "totalmente votata al Signore".

Colui che partecipa ad una azione liturgica non dovrebbe giungere alla celebrazione senza una adeguata pausa, passando cioè immediatamente dalle preoccupazioni profane, anche se buone e rispettabili, alla preghiera comunitaria. È necessario rispettare un certo lasso di tempo, anche breve, caratterizzato dal silenzio, dal raccoglimento e dalla preghiera. Un esempio eclatante, a riguardo, è quello dei monaci che prima di entrare nella chiesa del monastero per celebrarvi l’Ufficio Divino ­ anche chiamato Liturgia delle Ore ­ restano in piedi e in silenzio nel chiostro, allo scopo di raccogliere il loro spirito prima di iniziare la salmodia. La stessa finalità hanno in vista le preghiere che il celebrante recita nel rivestire i paramenti liturgici, appena prima della celebrazione.

In conclusione, si può affermare che le riflessioni appena esposte derivano dalla prima tra le disposizioni richieste per una partecipazione autentica alla celebrazione liturgica: la fede, che sola svela i diversi significati, molto ricchi, dei segni liturgici; la fede, che sola permette al ministro ordinato di calarsi nel ruolo sacro di strumento di Cristo e di servitore del suo Corpo, la Santa Chiesa.

3) La grazia di Dio
È indispensabile adesso studiare un altro elemento essenziale della piena partecipazione alla celebrazione liturgica: e cioè la grazia di Dio o, piú esattamente,  lo stato di grazia.
La partecipazione alle azioni liturgiche ha lo scopo di ottenere la grazia che non si possiede ancora (è questo il caso del battesimo dei bambini e della penitenza per coloro che sono in stato di peccato), nonché lo scopo di rafforzare la grazia di coloro che sono già giustificati. La grazia è l’espressione concreta della salvezza, il frutto della redenzione e il pegno della gloria che ci attende nel Regno dei Cieli.

Il fatto di essere presente ad una azione liturgica in stato di peccato mortale, e senza avere almeno il desiderio della conversione, non costituisce una vera partecipazione, anche se la persona in questione partecipa ai movimenti, ai canti, alle acclamazioni o ad altre azioni nel corso della celebrazione; poiché, in questo caso a costui manca l’orientamento fondamentale verso Dio e verso la sua gloria, cosa questa che è l’ànima della Liturgia. Ciò non significa che bisogna escludere dalla celebrazione coloro che non hanno la disposizione interiore richiesta, poiché è possibile che una tale presenza, che non possiede tutte le condizioni per essere qualificata come una vera partecipazione, costituisca nondimeno un mezzo per la grazia attuale, che condurrà la persona in questione alla conversione. Resta il fatto, però, che bisogna escludere dai ministeri, che si svolgono nel corso della celebrazione, le persone il cui stato pubblico di peccato è noto, poiché, diversamente, esse sarebbero dei cattivi esempi tali da provocare lo scandalo e la confusione tra i fedeli. Certo, la valutazione dei diversi casi concreti richiede una grande prudenza pastorale, insieme ad un modo di fare pieno di delicatezza, ma è conveniente non attenuare mai le esigenze che sono incluse nei principi determinati dalla morale e dal diritto della Chiesa.

4) Gli atti esteriori di partecipazione
Ai giorni nostri, in certi ambienti poco chiari e, ancor meglio, che non sono stati formati alla scuola della buona teologia, si considera che la "partecipazione" equivalga unicamente all’espressione di certi atteggiamenti corporali. Vero è che questi sono espressione della partecipazione, ma non bisogna mai dimenticare che sono sempre delle espressioni esteriori della partecipazione interiore. In altri termini, si può dire che questi elementi sono la parte "materiale" e visibile della partecipazione, mentre l’elemento "formale", nel senso forte del termine, e cioè l’elemento essenziale e invisibile, è costituito dalle virtú teologali: fede, speranza e carità, dalla virtú di religione e dallo stato di grazia; ora, è solo quest’ultimo che pone la creatura umana in uno stato di consacrazione alla gloria di Dio, sulla base della coerenza tra la fede che è professata e l’amore di Dio e del prossimo che sono vissuti in maniera concreta in tutte le scelte dell’esistenza.

Il Concilio Vaticano II indica un certo numero di elementi destinati a promuovere la partecipazione attiva. Ma prima di elencarli occorre dire una cosa molto importante: questi elementi non costituiscono, da soli e in loro stessi, la partecipazione liturgica; essi si limitano ad esprimerla e a favorirla. In effetti, bisogna sempre ricordarsi che la partecipazione che si può qualificare come "sostanziale" proviene da quegli elementi che abbiamo presentato prima, in quanto "elementi formali".

Ecco il testo del Concilio Vaticano II:

"Per promuovere la partecipazione attiva, si curino le acclamazioni dei fedeli, le risposte, il canto dei salmi, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo. Si osservi anche, a tempo debito, un sacro silenzio.
"Nella revisione dei libri liturgici si abbia cura che le rubriche tengano conto anche delle parti dei fedeli" (Sacrosanctum Concilium, 30 e 31).
 
Certo, gli elementi esteriori della partecipazione, citati nel testo conciliare, non possono essere biasimati, poiché la persona umana, la cui natura è spirituale e corporea al tempo stesso, ha bisogno delle espressioni sensibili. Di piú, gli elementi esteriori contribuiscono a rafforzare le attitudini interiori. Infine, poiché l’uomo ha una natura che lo porta a vivere in società, ha bisogno delle espressioni sensibili che lo aiutino a vivere questa esperienza della vita comunitaria e a manifestare il culto come una realtà sociale e non solo individuale. È per questo che è assolutamente impossibile immaginare un culto cattolico sprovvisto di elementi sensibili.
C’è di piú, se, per avventura, si tentasse di eliminare da questo culto alcune delle espressioni cosí connaturate nella natura umana, si avrebbe per effetto di privarlo di una parte essenziale di ciò che esso è per natura. Del pari, è del tutto errato imporre certe espressioni esteriori in maniera eccessiva e sproporzionata, col rischio di fare della celebrazione liturgica una successione di gesti compiuti in maniera meccanica e dunque, in qualche modo,  senz’ànima.
A questo proposito, occorre comprendere che situazioni soggettive differenti possono condurre alcune persone a non adottare un atteggiamento rigorosamente uniforme ad un momento dato, ma questo non equivale ad un allontanamento nei confronti di ciò che abbiamo chiamato prima "partecipazione formale". Sarebbe dunque un errore pensare che perché non rispetta rigorosamente un dato atto esteriore, la persona in questione non possieda le disposizioni richieste per una partecipazione reale e autentica. In effetti, bisogna dire che può accadere che certi attori della liturgia, che compiono con gran minuzia e con una rigorosa disciplina gli atti esteriori richiesti dalle rubriche, rimangano in realtà molto lontani dalla vera partecipazione interiore.

5) I ministeri
Il n° 30 della Costituzione Sacrosanctum Concilium, citato nel paragrafo precedente, parla di forme di partecipazione "comuni" all’insieme del popolo di Dio. Tuttavia, esistono anche delle forme particolari di partecipazione, nel senso che esse non costituiscono un bisogno per tutti i fedeli e non comportano l’esercizio di un "diritto" propriamente detto;  in cambio esse presuppongono certe qualità, come anche un appello esplicito da parte di colui che ha la responsabilità dell’ordinato andamento della celebrazione liturgica. Il principio generale stabilito dalla Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium è che "Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio si limiti a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza" (Sacrosanctum Concilium, 28).

Tra i diversi ministeri liturgici è il caso di citare innanzi tutto le funzioni relative a coloro che, per l’ordinazione sacramentale, appartengono al clero: i Vescovi, i preti e i diaconi. È proprio di questi ministeri ordinati "strutturare" la Chiesa, Corpo visibile di Cristo, nella quale la gerarchia sacra è ad un tempo il segno di salvezza, che viene dall’Alto, come dono gratuito, e lo strumento dell’azione salvifica, la cui fonte prima è il Signore Gesú, Pontefice unico della Nuova Alleanza, che esercita il suo ruolo di mediatore tramite i ministri ordinati. Questi ministeri sono talmente necessari che Sant’Ignazio di Antiochia dichiara che senza Vescovi, né preti, né diaconi, non si può parlare di Chiesa (cf. Ad Trall.).

Tuttavia, esistono altri ministeri non ordinati che contribuiscono alla dignità della celebrazione liturgica.
Si possono citare i "lettori", incaricati di leggere le letture della Sacra Scrittura, ad eccezione del Vangelo. Il lettore può essere "istituito" (in questo caso si tratta necessariamente di un uomo ­ vir -: can, 230 § 1), o solamente "benedetto", o anche semplicemente chiamato per una determinata celebrazione. Il compito di lettore non è un segno onorifico e, al tempo stesso, non costituisce una sorta di riconoscimento ufficiale dei presunti meriti di una persona, ma è innanzi tutto e unicamente un servizio che tiene in considerazione il bene del popolo di Dio che partecipa alle celebrazioni. È importante che il lettore sia una persona onorevole, che dia prova di uno stato ecclesiale irreprensibile, dotato di buona reputazione e che, in piú, sia capace di leggere bene, e cioè in maniera distinta e con un eloquio chiaro, tale che permetta al popolo di comprendere l’articolazione delle frasi del testo sacro. Cosí, una persona pia e rispettabile, ma incapace di leggere, e cioè di farsi capire dal popolo che partecipa alla celebrazione, non deve essere chiamato al ministero di lettore.

Anche i "serventi d’altare" (o "giovani del coro"), chiamati anche "accoliti", possono essere "istituiti" (si tratta allora di uomini adulti (viri): can, 230 § 1), "benedetti" o semplicemente chiamati a prestare tale servizio in maniera occasionale, o piú o meno permanente. Essi hanno bisogno di ricevere una adeguata formazione per poter compiere la loro funzione con dignità, e cioè senza commettere quegli errori che arrecherebbero inevitabilmente pregiudizio alla qualità e all’armonia della celebrazione. Spetta al Vescovo diocesano autorizzare, per delle ragioni particolari, delle persone di sesso femminile ad esercitare eccezionalmente questo ministero, tenendo comunque conto della preferenza che la Chiesa accorda tradizionalmente agli uomini e ai ragazzi.

La Lettera circolare della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina del Sacramenti ai Presidenti delle Conferenze Episcopali, del 15 marzo 1994 (Notitiae 39 ­ 1994 ­ 333-335), in applicazione alla Risposta del Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi a proposito dell’interpretazione autentica del canone 230 § 2 (nelle funzioni liturgiche che i laici, uomini e donne, possono svolgere ai sensi del can. 230 §2, è compreso il servizio all’altare? Affermativo e iuxta instructiones a Sede Apostolica dandas. Cf AAS 86 ­1994 ­ 541), stabilisce in particolare che è compito del Vescovo della diocesi, dopo aver inteso il parere della Conferenza Episcopale, emettere un giudizio prudenziale su ciò che è opportuno fare per lo sviluppo armonioso della vita liturgica nella sua diocesi. In piú, resta sempre l’obbligo di continuare a favorire il servizio all’altare affidato ai ragazzi, che ha permesso uno sviluppo incoraggiante delle vocazioni sacerdotali. In una Lettera del 27 luglio 2001 (Notitiae 421-422 ­ 2001 ­ 397-399), la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina del Sacramenti precisa che, per un verso, la libertà del Vescovo diocesano non può essere condizionata da eventuali decisioni dei Vescovi limitrofi in favore del servizio all’altare delle donne, e per altro verso l’eventuale autorizzazione del Vescovo deve sempre lasciare la possibilità ai preti della diocesi di ricorrere solo a dei gruppi di serventi composti unicamente da ragazzi, in base all’obbligo contenuto nella Lettera citata prima del 1994 circa lo sviluppo delle vocazioni sacerdotali.

La musica fa parte integrante delle celebrazioni liturgiche; è per questo che la Chiesa ha riconosciuto nei secoli il ruolo della "schola cantorum"; questa ha il compito di interpretare certi pezzi della musica liturgica. Tuttavia, occorre rilevare che, a questo proposito, sarebbe un abuso accordare alla schola cantorum un posto tale da sopprimere la partecipazione del popolo al canto nella celebrazione liturgica. Ancora peggio se i membri della schola agissero in maniera da attirare l’attenzione su di loro a detrimento dell’azione liturgica, invece che limitarsi al loro ruolo che consiste nel porgere un aiuto atto a rafforzare lo spirito religioso dei partecipanti alle celebrazioni liturgiche. Resta il fatto che il ruolo della schola cantorum è stato riconosciuto dalla Costituzione sulla Liturgia come un vero ministero cultuale (Cf Sacrosanctum Concilium, 29).

La mancanza di ministri ordinati per la distribuzione della santa Comunione giustifica il servizio di ministri straordinari per la distribuzione della santa Eucarestia. Questi ministri possono essere costituiti in maniera stabile, oppure essere chiamati in casi imprevisti. Si tratta di un ministero di supplenza e in nessun caso di una sorta di "promozione" del laicato.

L’insufficienza del numero dei preti o dei diaconi per la celebrazione del sacramento del battesimo può indurre il Vescovo ad autorizzare dei laici come ministri straordinari di questo sacramento (Cf can.230 §3). L’Istruzione interdicasteriale Ecclesiae de mysterio, del 15 agosto 1997 (Disposizioni pratiche art. 11) precisa che occorre fare attenzione alle interpretazioni troppo estensive ed evitare di concedere questa facoltà in forma abituale. Cosí, per esempio, all’assenza o all’impedimento che rendono lecita la deputazione dei fedeli non ordinati ad amministrare il battesimo, non si può assimilare il lavoro eccessivo del ministro ordinario, né il fatto che egli risieda fuori dal territorio della parrocchia, né tampoco la sua indisponibilità nel giorno previsto dalla famiglia. Nessuna di queste ragioni costituisce un motivo sufficiente (AAS 89 ­ 1997 ­ 874).
Per questo stesso motivo, il Vescovo può designare dei laici come testimoni qualificati per la celebrazione canonica del matrimonio (can 1112). Il can. 1112 esige un parere favorevole della Conferenza Episcopale e l’autorizzazione della Santa Sede. In Francia una tale possibilità di delegare i laici non esiste.

Si possono anche autorizzare dei laici a presiedere il culto domenicale in assenza del prete (can 1248 §2; Sacra Congregazione per il Culto Divino, Direttorio perle celebrazioni domenicali in assenza dei preti Christi Ecclesia, 10 giugno 1988, preliminari, Cf Notitiae 263 ­ 1988 ­ 366-378. ). L’Istruzione interdicasteriale Ecclesiae de mysterio, del 15 agosto 1997 (Disposizioni pratiche art. 7) precisa che il fedele non ordinato che guida questo genere di celebrazioni deve avere un mandato speciale da parte del Vescovo, che abbia cura di dare delle indicazioni opportune relative alla loro durata, il luogo, le condizioni e il prete che ne è responsabile. Per di piú, queste celebrazioni, i cui testi devono essere sempre quelli approvati dall’autorità ecclesiastica, costituiscono sempre delle soluzioni temporanee. È proibito inserire degli elementi propri alla liturgia del sacrificio, soprattutto la "Preghiera eucaristica", anche sotto forma narrativa. Occorre anche ripetere sempre ai partecipanti che queste celebrazioni non sostituiscono il Sacrificio eucaristico e che si assolve al precetto di santificare le feste solo partecipando alla Messa, ognuno è libero di partecipare o meno ad una celebrazione domenicale in assenza del prete, ma lo stesso non vale per la partecipazione al Santo Sacrificio. Nel caso in cui le  distanze e le condizioni fisiche lo permettono, i fedeli devono essere incoraggiati e aiutati a fare il possibile per assolvere al precetto (AAS 89 ­ 1997 ­ 869-870).

Infine si può permettere a dei laici di presiedere alle esequie (Cf Ordo Exsequiarum, praenotanda, n° 19). L’Istruzione interdicasteriale Ecclesiae de mysterio, del 15 agosto 1997 (Disposizioni pratiche art. 12) ricorda che una tale possibilità esiste solo nel caso della reale mancanza di ministri ordinati. Per di piú, dato che nelle attuali circostanze di crescente decristianizzazione e di allontanamento dalla pratica religiosa, le esequie possono talvolta divenire una delle occasioni pastorali piú opportune per permettere ai ministri ordinati di incontrare direttamente i fedeli che non praticano abitualmente, è auspicabile, anche a prezzo di qualche sacrificio (cum magna deditione), che i preti e i diaconi presiedano personalmente ai riti funebri (AAS 89 ­ 1997 ­ 874).

Tra i ministeri che sono d’aiuto ai ministri ordinati durante la celebrazione liturgica, soprattutto quella della santissima Eucarestia, è il caso di citare il "maestro delle cerimonie", incaricato di vegliare a che la celebrazione si svolga in maniera ordinata e ciascuno dei ministri svolga esattamente il suo ruolo. Questo compito non è strettamente riservato ad un ministro ordinato, prete o diacono, anche se è opportuno che il maestro delle cerimonie sia scelto tra questi ultimi.
Infine, non bisogna dimenticare il "commentatore", il quale, con brevi  e discrete indicazioni, aiuta la comunità a comprendere le diverse parti della celebrazione liturgica. Va da sé che il commentatore deve conoscere bene il senso dei testi liturgici, il che presuppone che abbia ricevuto una formazione altamente qualificata, poiché non bisogna dare delle interpretazioni arbitrarie o fantasiose dei riti che si celebrano, ma occorre riferirsi unicamente ai testi e ai gesti liturgici approvati dalla Chiesa. Il luogo ove il commentatore esercita il suo ministero non è l’ambone, da dove si annuncia la Parola, ma un altro posto discreto e appropriato.

È evidente che tutte queste persone che partecipano alla celebrazione liturgica esercitando un tale "ministero", devono prepararsi con cura, tanto dal punto di vista spirituale quanto da quello liturgico, come anche al livello delle conoscenze proprie delle norme che reggono le cerimonie e di quelle che permettono di mettere in essere una celebrazione ordinata e intrisa di spirito religioso.
È opportuno insistere ancora una volta sul fatto che i ministeri di supplenza possono essere esercitati solo in assenza dei ministri ordinati, oppure quando questi non sono in numero sufficiente per condurre al meglio una celebrazione in un lasso di tempo ragionevole. È dunque indispensabile avere ben presente l’Istruzione interdicasteriale Ecclesiae de mysterio sulla collaborazione dei laici al ministero dei preti, del 15 agosto 1997 (AAS 89 ­ 1997 ­ 852-877).
 

III Conclusione

La Liturgia ha una dimensione "ascendente" poiché fa veramente salire, verso la Maestà di Dio, la lode che gli è dovuta come Creatore e come Redentore.
Questa lode di tutta la Chiesa, Capo e Corpo, è la fede personale e comunitaria: certo, essa impegna ogni fedele, ma al tempo stesso ogni fedele fa parte del Corpo mistico di Cristo, e poiché il Corpo di Cristo, che è la Chiesa, ha una struttura stabilita da Cristo stesso, suo divino Fondatore, la lode liturgica è presieduta da coloro che, essendo inseriti nella successione apostolica dall’ordinazione sacerdotale, possono agire in persona Christi. Ora, il culmine di questa dimensione ascendente si colloca nella celebrazione del Sacrificio eucaristico. Tuttavia, è vero anche che la Liturgia ha pure una dimensione "discendente", poiché è attraverso le celebrazioni, e in modo particolare quella dei sacramenti, che la salvezza raggiunge gli uomini per mezzo della grazia santificante e tutti i doni che l’accompagnano. Dio, nel suo eterno disegno di salvezza per l’umanità, ha voluto che degli atti visibili siano portatori della grazia invisibile. Questi atti, anche se sono destinati alla santificazione della persona, assumono la forma delle celebrazioni liturgiche in seno alla comunità dei credenti, la quale esprime la realtà ecclesiale concreta.

Giunti alla fine di questa riflessione, mi sembra quanto mai opportuno ritornare al testo iniziale della Costituzione del Concilio Vaticano II sulla santa Liturgia.
"La liturgia infatti, mediante la quale, specialmente nel divino sacrificio dell'eucaristia, “si attua l’opera della nostra redenzione”, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa. Questa ha infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo in modo tale, però, che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo incamminati" (Sacrosanctum Concilium, 2).
 

Il tema della partecipazione alla celebrazione liturgica ci fa veramente toccare con mano il mistero della salvezza, l’economia ammirabile con la quale il Padre misericordioso, per mezzo del suo Verbo incarnato,  ci rivela il suo disegno e lo compie tramite la forza dello Spirito Santo che rinnova tutte le cose.

Parigi, 22 novembre 2003
Cardinale Jorge Arturo Médina Estévez
Prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti
Arcivescovo emerito di Valparaiso



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