BANALIZZAZIONE DEL SACRO: UN CARDINALE DENUNCIA
LA LITURGIA NON È UNA “SPECIALITÀ DELLA CASA”

INTERVISTA RILASCIATA DAL CARD. FRANCIS ARINZE
Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti

ALLA RIVISTA L'HOMME NOUVEAU
Pubblicata nel n° 1313 del 7.12.2003


 
 

Card. Arinze, voi siete il Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e parlate inglese. Si dice che uno dei problemi liturgici che preoccupano maggiormente le autorità romane attente alle derive postconciliari sia quello delle traduzioni difettose in materia liturgica e biblica, specialmente in inglese. Potete parlarne? Per altro, le celebrazioni sono esse stesse delle "traduzioni" della fede della Chiesa. L’enciclica Ecclesia de Eucharistia fa notare che vi è un grave deficit nella liturgia cosí come viene spesso celebrata. Non si tratta spesso di una "cattiva traduzione" della dottrina eucaristica?

Card. Arinze ­ La vostra non è una domanda sola. Parliamo prima delle traduzioni.
Un documento del dicastero del Culto Divino, Liturgiam authenticam, già te anni fa aveva per tema principale: la Chiesa approva le lingue locali nella liturgia, ma, per il rito latino, le traduzioni devono essere fedeli al testo latino originale. La direttiva generale è la seguente: tutte le traduzioni fatte da trent’anni a questa parte devono essere riviste in maniera tale che siano veramente fedeli al testo originale. Vero è che in certe lingue è difficile fare una traduzione letterale, ma non possono essere ammesse le traduzioni ideologizzate. Per esempio: quando il messale latino fa dire al celebrante: "Orate fratres ut meum ac vestrum sacrificium acceptabile fiat apud Deum Patrem omnipotentem" [Pregate fratelli perché il mio e il vostro sacrificio sia accettabile da Dio Padre onnipotente], un traduttore che non ammette la differenza tra il popolo e il celebrante dirà: "Pregate fratelli, perché il nostro sacrificio…". È questo tipo di traduzione ideologizzata che dev’essere evitata. Ma non si tratta solo del caso della lingua inglese! Anche i Francesi… Guardate come traducete l’Orate fratres…: "Preghiamo insieme nel momento di offrire il sacrificio di tutta la Chiesa". Tutto qui. Non è una traduzione, è una bella frase, una bellissima frase, ma non una traduzione del testo latino. La risposta all’invito del celebrante, nel messale latino è la seguente: ": Suscipiat Dominus sacrificium de manibus tuis ad laudem et gloriam nominis sui, ad utilitatem quoque nostram, totiusque Ecclesiae suae sanctae [Il Signore riceva dalle tue mani il sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa]. Come dite voi in francese? "Per la gloria di Dio e la salvezza del mondo". Non è una traduzione.
Ma le traduzioni non sono la causa principali delle difficoltà. La causa principale consiste nel fatto che il celebrante non segue il testo approvato. Se ogni celebrante seguisse i libri liturgici approvati dall’episcopato del suo paese e dalla Congregazione romana che agisce in nome del Papa, avremmo molti meno problemi e abusi. I problemi sono legati al fatto che non pochi preti credono che la creatività è la cosa piú interessante da promuovere. Secondo loro, ogni prete deve celebrare la messa per dare prova della sua personalità in grado di fabbricare qualcosa che gli confaccia, inventando ogni volta qualcosa di personale.

Ma i riti della liturgia di Paolo VI, di per sé, non stimolano una grande creatività? Voi dite che occorre rivedere le traduzioni, non bisognerebbe talvolta rivedere anche i riti?

Card. Arinze ­ Si, forse si tratta di una buona idea. Ma la colpa non è del messale. Vero è che esso lascia spazio qua e là a delle scelte, a delle possibilità, a delle alternative. Per esempio, incominciando la messa il celebrante può dire: "La grazia del Signore nostro Gesú Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano sempre con voi"; come può dire: "Il Signore sia con voi"; oppure usare delle altre forme di saluto approvate dalla Chiesa locale. Questa possibilità di scelta è una buona cosa. Ridurre ad una sola possibilità sarebbe un po’ rigido. In questo senso il messale non è rigido. Ma la sua non rigidità non significa creatività, come se il celebrante imitasse un padrone di casa che presenta ai suoi invitati il piatto che ha preparato dicendo: "Ecco la specialità della casa!". Non bisogna inventare, salvo quando è permesso, come nella preghiera universale. Ma la colletta, la preghiera dopo la comunione, il saluto liturgico sono fissi. Se il celebrante cominciasse la messa dicendo: "Buongiorno a voi tutti, spero che abbiate dormito bene", non si tratterebbe di un saluto liturgico, ma di una banalizzazione del sacro. Questo non sta scritto nei libri liturgici.

Ma ciò che sta scritto nei libri liturgici è intangibile? Non si potranno scrivere altre cose?

Card. Arinze ­ Si, si possono avere delle opinioni su questo punto. Alcuni possono dire che il messale di trent’anni fa lascia troppo spazio alla libertà, ecc.… Questo messale è stato fatto da uomini non da angeli.

Voi sapete, Eminenza, fino a che punto è disastrato il clero francese: in certe diocesi è quasi in via di estinzione. Ma i giovani preti hanno una sensibilità liturgica molto diversa da quella dei loro fratelli anziani, che hanno "fatto" il concilio e il Sessantotto. Spesso sono molto prossimi alla sensibilità liturgica tradizionale. Non credete che sia giunto il momento di avviare  giustamente "una riforma della riforma", un ritorno ad una liturgia piú trascendente?

Card. Arinze ­ La vostra domanda presuppone che la liturgia attuale non sia trascendente. Su questo è permesso avere delle opinioni, ma io credo che il problema principale consista nella mancanza di fede, di devozione e di riverenza sufficienti. Se ogni prete avesse fede e amore per la Chiesa insieme alla fedeltà al senso liturgico, se celebrasse con molta convinzione e una grande riverenza, senza nulla inventare, si avrebbero molti meno problemi e il senso della trascendenza divina non andrebbe perduto. I problemi nascono quando vi è troppo di ciò che ho chiamato banalizzazione e desacralizzazione. Bisogna dire però che anche molti preti ordinati dieci anni fa hanno piú senso della Chiesa. I grandi seminari hanno molta importanza. Occorre guardare a come vanno le cose nei grandi seminari: è necessario dare una formazione e non solo una informazione.

La sparizione, in molti posti, dei confessionali dimostra la carenza del senso del peccato e il disprezzo delle disposizioni necessarie per accostarsi al Corpo del Signore. Per esempio, in Francia, nel corso dei funerali, si verifica che si comunicano tutti, anche i miscredenti o i non cattolici, e quando il prete spiega che qualche volta è bene confessarsi, viene trattato da "fanatico".

Card. Arinze ­ Dio è santo, tre volte santo. Egli abita nella luce inaccessibile, Che resta della nostra religione se non riconosciamo che noi siamo delle creature e delle creature peccatrici? Nel Padre Nostro diciamo: "Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo…" [nel testo il cardinale cita la versione francese: "Perdona le nostre offese, come noi perdoniamo…"]. Dobbiamo accettare di aver peccato e di aver bisogno di perdono. La fede cattolica non è cambiata, e la nostra fede ci dice che per ricevere la santa comunione con frutto, si dev’essere in stato di grazia santificante e non in stato di peccato mortale. Peccato mortale vuol dire offesa grave contro Dio o il prossimo. I dieci comandamenti non sono cambiati. Colui che ha violato l’uno o l’altro dei dieci comandamenti in materia grave ha commesso un peccato grave. Costui non ha piú la grazia di Dio con lui. Se riceve il Corpo di Cristo, lo farà come Giuda; poiché è vero che Giuda ha ricevuto il Corpo e il Sangue di Cristo nella Cena, ma è vero anche che non era ben disposto. Colui che si comunica cosí, non solo non riceve la grazia, ma commette un nuovo peccato, un sacrilegio, che si somma a quello che portava con sé prima. È terribile! Questo non si deve mai fare, e se un prete collabora dicendo: Venite a comunicarvi tutti, e se qualcuno che non è in stato di grazia si accosta alla comunione a causa di questo, questo prete invece di aiutarlo ad andare verso Dio, lo conduce al sacrilegio. Il sacrilegio non è una invenzione della Chiesa, è qualcosa di oggettivo. San Paolo ci ha detto che è necessario il discernimento: "Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del Corpo e del sangue del Signore". Sarebbe bello che tutti fossero in stato di grazia e potessero ricevere la comunione, ma ciascuno deve esaminare sé stesso e non gli altri, se non si trova in stato di grazia non deve ricevere Cristo, ma prima deve confessarsi accettando di essere peccatore. Deve dire: "Per mia colpa, per mia colpa, per mia massima colpa. Non è colpa del governo, non è colpa di mia moglie, di mio figlio". Bisogna accettare semplicemente questo e chiedere perdono a Dio, col proposito di non farlo piú, Se non si accetta di confessarsi ad un prete, non si accetta la volontà di Cristo che ha detta ai suoi Apostoli: "tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo". La Chiesa intende queste parole come quelle che esprimono il potere che essa ha di rimettere i peccati nel sacramento della penitenza. Questo sacramento rimane importantissimo, si può perfino giudicare la salute spirituale di un popolo dal fatto che i fedeli pratichino questo sacramento. D’altronde, se nessuno andasse a confessarsi, mi verrebbe da chiedere: "Siete immacolati come la era la Vergine Maria, concepita senza peccato, che non ha commesso alcun peccato personale?". Se i piú grandi santi andavano a confessarsi frequentemente, perché anche noi non andiamo a confessarci? I preti devono dunque incoraggiare i fedeli in questo senso. È un modo per far sentire la santità di Dio. Diversamente verrebbe a mancare qualcosa alla religione di Cristo.

Eminenza, in diverse interviste rilasciate a delle riviste, avete lasciato capire che dovrebbe essere concessa una piú ampia libertà al rito tradizionale. Potete confermarlo o lasciarlo intendere anche adesso?

Card. Arinze ­ Dopo il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha ricevuto il messale di Paolo VI, come aveva  ricevuto il messale di Pio V dopo il Concilio di Trento. Ma il papa Giovanni Paolo II ha detto che se vi erano dei gruppi che preferivano la messa che chiamiamo tridentina, il vescovo l’avrebbe permessa indicando il luogo e il tempo. È la pratica odierna. Questa celebrazione della messa tridentina è affidata alla Commissione Ecclesia Dei. La nostra Congregazione del Culto Divino è invece incaricata della celebrazione col messale odierno. La preoccupazione della nostra Congregazione è la fedeltà al rito sacro. Per il resto, la chiesa di Francia e le chiese di tutti gli altri paesi esaminano le soluzioni. Non sarebbe giusto che io dessi una ricetta, né per la Francia, né per gli altri paesi, ma la nostra Congregazione è aperta a ogni discussione.

Eminenza, voi venite da un paese, la Nigeria, che, insieme al cattolicesimo africano, ha la singolarità di essere oggi in crescita numerica. Il rinnovamento del clero è assicurato, poiché il vostro paese è quello che ha il numero piú alto di seminaristi per prete (1,19 seminaristi per ogni prete, secondo le statistiche della Congregazione per il Clero). La secolarizzazione che colpisce l’Occidente, non tocca la Nigeria?

Card. Arinze ­ La secolarizzazione colpisce piú o meno tutti i paesi del mondo. Tuttavia è vero che la crescita del cristianesimo è piú elevata in Africa, non in assoluto, ma in percentuale. In Africa non mancano i problemi: instabilità di questo o di quel paese, conflitti, talvolta guerre, ma la gente accetta il cristianesimo: diventare cristiani è considerata una buona cosa, il che è confortante. Tuttavia, vi sono molte differenze, dall’Algeria, al Nord, al Sudafrica, dalla Mauritania, all’Ovest, alla Tanzania. Ma visto che voi parlate del mio paese, la Nigeria, effettivamente il numero dei cristiani è in aumento. Le chiese costruite vent’anni fa non bastano piú. Quando un prete dice la messa la gente accorre, quando un altro confessa, la gente fa la coda. Molti preti non ce la fanno piú, perché hanno un lavoro enorme. Il numero dei giovani che entrano in seminario è cosí elevato che si parla di boom. Lo stesso dicasi per i religiosi. Per esempio, venti cinque anni fa io ho fondato a Umuoji, nell’arcidiocesi di Onitsha, in Nigeria, una comunità di benedettine di clausura, con tre italiane e una nigeriana provenienti da Monte Mario a Roma; adesso vi sono centoquaranta monache professe, senza contare quelle che sono state rifiutate e quelle che sono partite. Questo monastero ne ha fondato un altro in Nigeria, con quaranta monache, ed ha inviato in Italia sette religiose per aiutare un monastero italiano che non ha piú novizie. Si, il Signore ci dona la crescita. L’arcidiocesi di Onitsha, prima di essere divisa, l’anno scorso, aveva trecentocinquanta seminaristi in filosofia e teologia e ottocento piccoli seminaristi. La parrocchia della cattedrale invia ogni anno almeno venticinque giovani nel piccolo seminario, quasi tutti chierichetti ben formati per il servizio all’altare. Un buon prete non mancherò mai di far sbocciare delle vocazioni, specialmente se rivolge l’attenzione alla formazione dei chierichetti. Bisogna dire che i missionari d’Irlanda che hanno evangelizzato il nostro paese hanno fatto un buon lavoro: catechesi di base, vita ecclesiale, sacramenti. È anche vero che la provvidenza divina aveva preparato la gente a ricevere il Vangelo. Gli Europei, a proposito delle religioni dell’Africa, parlano di "animismo", pensando che gli Africani siano persuasi che gli alberi, i fiori, il fulmine abbiano un’anima. Invece bisogna parlare di "religione tradizionale", con cui la gente crede ad un Dio supremo, ad un mondo di spiriti buoni e cattivi e ad un mondo di antenati. Quando sono arrivati i missionari hanno trovato il terreno pronto per la predicazione del Vangelo. Vi è stata una "preparazione evangelica".

A questo proposito, voi siete stato prima Presidente del Consiglio per il Dialogo interreligioso, La Nigeria, dove c’è questa esplosione numerica dei cattolici e dove vi sono numerose vocazioni, è un paese musulmano. Spesso si sente dire che bisogna evitare il "proselitismo", che non bisogna proporre la conversione, ma  che bisogna solo dialogare nel rispetto di tutte le opzioni religiose.

Card. Arinze ­ Precisiamo che la Nigeria non è un paese musulmano. La maggioranza dei Nigeriani è cristiana, e il numero aumenta sempre. In certe regioni vi è una maggioranza musulmana, come intorno a Sokoto, Maiduguri e Kano. Ma vi sono delle diocesi del nord della Nigeria che hanno cento preti autoctoni. In effetti la realtà è molto diversa. Il Concilio Vaticano II ci ha lasciato sedici documenti. Il documento di base è Lumen gentium, sulla Chiesa e la sua natura di casa in cui sono invitati ad entrare tutte le nazioni, come è detto al n° 13. Il n° 14 precisa che è attraverso la fede e il battesimo che noi entriamo nella Chiesa. Colui che ha piena conoscenza di ciò e rifiuta di entrare nella Chiesa non può essere salvato. Chi ne è a conoscenza ed esce dalla Chiesa sarà perduto. In altri termini, la Chiesa è necessaria alla salvezza, secondo l’adagio “extra Ecclesiam, nulla salus”, fuori dalla Chiesa non v’è salvezza, se ben spiegato e con tutte le precisazioni necessarie. Il Vaticano II ci ha anche lasciato la costituzione Gaudium et spes: la Chiesa ha le mani tese verso il mondo. Lo stesso Concilio ci ricorda, nel decreto Ad gentes, che bisogna evangelizzare tutte le nazioni. San Paolo ci ha detto: "Guai a me se non predicassi il Vangelo!". Gesú non ha fondato la sua Chiesa perché fosse un’accademia in cui si dialoga, nella quale si argomenti in maniera acrobatica sul tema: "Siamo tutti amici, noi restiamo dove siamo e voi restate dove siete, e alla fine ci ritroveremo tutti figli di Dio". Se i missionari avessero fatto tali ragionamenti non avrebbero mai lasciato i loro paesi, San Bonifacio non sarebbe andato mai in Germania, Sant’Agostino di Chanterbury non sarebbe stato mai inviato in Inghilterra, e i missionari irlandesi non sarebbero mai venuti in Nigeria. Noi dobbiamo veramente condividere il Vangelo che abbiamo ricevuto. D’altronde, come ha detto il papa Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptoris missio, la missione salvifica è appena cominciata: i cattolici sono solo il 18% dell’umanità, gli altri cristiani il 15%; tutti insieme sono solo il 33% della popolazione mondiale. E gli altri? Non sarebbero chiamati a diventare figli di Dio? Gesú non sarebbe morto sulla croce per loro? Gesú è il solo salvatore, non ve ne sono altri. Il Nuovo testamento è l’ultima parola che Dio aveva da dire agli uomini nel suo Figlio unigenito fatto uomo, Gesú Cristo. Gesú è morto sulla croce per la redenzione di tutti gli uomini. San Paolo dice a Timoteo che Dio desidera la salvezza di tutta l’umanità. Ora, non v’è che un solo mediatore di salvezza tra Dio e gli uomini: Gesú Cristo, nel quale Dio vuole che tutti giungano alla Verità. Il Vaticano II, nella dichiarazione Nostra Aetate, al n° 2, ha detto che la Chiesa rispetta tutto ciò che c’è di buono, di vero e di santo nelle altre religioni, ma che annuncia e deve sempre annunciare Gesú Cristo, che la pienezza della Verità. Questo per dire che il dialogo non si oppone all’annuncio di Cristo.

Voi interpretate dunque il documento sul dialogo religioso, Nostra Aetate, alla luce di Ad gentes, il documento sulla missione della Chiesa?

Card. Arinze ­ La Nostra Aetate si deve interpretare alla luce della Lumen gentium, perché, naturalmente, la Lumen gentium è il grande documento sulla missione totale della Chiesa. Peraltro, la Nostra Aetate dev’essere interpretata anche alla luce di Ad gentes, di Gaudium et spes, di Presbyterorum ordinis, il documento sul sacerdozio. Ad gentes è l’ordine di Cristo: "Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura". O ancora: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni". Il dialogo è una delle attività della Chiesa, ma non è tutta l’attività della Chiesa. Il servizio sociale è un’altra attività della Chiesa ­ pensate al servizio per i poveri della beata Madre Teresa di Calcutta -, ma il servizio sociale non è tutto il Vangelo. Bisogna anche catechizzare, battezzare. È lo stesso Gesú che ha dato da mangiare il pane alla moltitudine che ha detto: "Chi non crederà sarà condannato". Lo stesso Gesú dolce e umile di cuore. D’altronde, io ho diciotto anni di esperienza nel dialogo interreligioso e devo dire che non ho mai avuto dei problemi con i membri di buona volontà di altre religioni, che capiscono che noi abbiamo la nostra identità cattolica e, considerando la nostra fede come una buona cosa, è normale che vogliamo dividerla con altri. Non imporla, ma proporla in tutta libertà. Se colui al quale io propongo la fede in Gesú Cristo non vuole accettarla, non userò la forza fisica, psicologica o economica per costringerlo a diventare cristiano. Se io usassi la forza per obbligarlo a credere, questo sí che sarebbe "proselitismo" e sarei condannabile. Ma proporre il messaggio evangelico e far sí che colui che lo riceve lo accetti in tutta libertà, non è "proselitismo", è evangelizzazione. Tutti gli uomini hanno il diritto di sentir parlare del Vangelo, e noi cristiani abbiamo il dovere di annunciarlo. La Chiesa non è di nostra proprietà, essa appartiene a Cristo. È per questo che il papa, nell’enciclica Redemptoris missio, al n°55, scrive che il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. Questo significa che esso è un elemento di testimonianza che noi diamo di Cristo. Se l’altro non vuole diventare cristiano, almeno stabiliamo dei contatti e la grazia di Dio lavora in lui come in me. Si tratta di una creatura di Dio e Gesú Cristo è morto per lui. Noi possiamo ascoltare un musulmano o un buddista, lavorare con lui perché il mondo sia un po’ migliore. Se un giorno accettasse di diventare cristiano, ecco che finisce il dialogo e comincia l’annuncio. E se non vuole diventare cristiano, noi dobbiamo continuare a dialogare con lui: in tal modo resteremo per lui testimoni di Cristo. Che l’altro creda o non creda, è Dio che giudicherà il suo comportamento di fronte alla grazia che gli ha donato. Dio non ha bisogno di noi per giudicare, non ci ha fatti membri del suo consiglio. Ma è chiaro che la salvezza viene unicamente da Cristo: tutti quelli che giungono in cielo, vi giungono per la grazia di Gesú Cristo. E se qualcuno arriva in cielo senza conoscere espressamente Gesú Cristo, saprà allora che anche lui è stato salvato per la grazia di Cristo.



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