La lingua nella liturgia di Rito Romano: latino e lingua
volgare
Discorso pronunciato dal Card. Francis Arinze,
Prefetto della Congregazione per il Culto divino e
la Disciplina dei Sacramenti,
alla conferenza liturgica di Gateway (St. Louis, Missouri,
USA)
11 novembre 2006
Il testo in italiano è stato pubblicato dall'Agenzia
Fides
http://www.fides.org/aree/news/newsdet.php?idnews=11432&lan=ita
1. La dignità superiore della preghiera liturgica
2. Diversi riti nella Chiesa
3. Vantaggi del latino nella liturgia romana
4. Il Canto gregoriano
5. Il Vaticano II ha scoraggiato l’uso del latino?
6. La lingua volgare. Introduzione. Diffusione. Condizioni
7. Le traduzioni in vernacolo
8. Cosa ci si aspetta da noi?
1. La dignità superiore della
preghiera liturgica
La Chiesa fondata dal nostro Signore e Salvatore Gesù
Cristo si sforza di riunire insieme uomini e donne di ogni razza, lingua,
popolo e nazione (cfr Ap 5,9), così che “ ogni lingua proclami che
Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil. 2,11).
Nel giorno di Pentecoste vi erano uomini e donne “di ogni nazione che è
sotto il cielo” (cfr Atti 2,5) ad ascoltare gli Apostoli che narravano
le prodigiose opere di Dio.
Questa Chiesa, questo nuovo popolo di Dio, questo corpo
mistico di Cristo, prega. La sua preghiera pubblica è la voce di
Cristo e della Chiesa sua sposa. Capo e membra. La liturgia è un
esercizio del magistero sacerdotale di Gesù Cristo. In essa, il
culto pubblico viene compiuto dall’intera Chiesa, ossia, Cristo che associa
a lui i suoi membri. “Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto
opera di Cristo Sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è
azione sacra per eccellenza, e nessun'altra azione della Chiesa ne uguaglia
l'efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado” (Sacrosanctum Concilium,
7). Dalla sacra sorgente della liturgia, tutti noi che abbiamo sete delle
grazie della redenzione attingiamo acqua viva (cfr Gv 4,10).
La consapevolezza che Gesù Cristo è il
Sommo Sacerdote in ogni atto liturgico dovrebbe istillare in noi una grande
reverenza. Come afferma Sant’Agostino, “Prega per noi come nostro Sacerdote;
prega in noi come nostro Capo; è pregato da noi come nostro Dio.
Riconosciamo, dunque, in lui la nostra voce, e in noi la sua voce” (Enarratio
in Psalmum, 85; CCL 39, 1176). (torna all'indice)
2. Diversi riti nella Chiesa
Nella liturgia sacra la Chiesa celebra i misteri di Cristo
per mezzo di segni, simboli, gesti, movimenti, elementi materiali e parole.
Nella nostra riflessione ci concentreremo sulle parole usate nell’adorazione
divina di rito romano o latino. Gli elementi chiave della liturgia sacra,
i sette sacramenti, ci vengono da nostro Signore Gesù Cristo stesso.
Man mano che la Chiesa si diffondeva e cresceva tra popoli e culture diverse,
vennero sviluppati diversi modi per celebrare i misteri di Cristo. Possiamo
individuare quattro riti originali: antiocheno, alessandrino, romano e
gallicano. Essi diedero vita a nove riti principali nell’attuale Chiesa
cattolica: nella Chiesa latina domina il rito romano e tra le chiese orientali
troviamo il rito bizantino, armeno, caldeo, copto, etiope, malabarico,
maronita e siriano. Ogni “rito” rappresenta una miscela di liturgia, teologia,
spiritualità e diritto canonico. Le caratteristiche fondamentali
di ogni rito risalgono ai primi secoli, i tratti essenziali all’era apostolica
se non addirittura all’epoca di nostro Signore.
Il rito romano, che è oggetto della nostra riflessione,
nella sua epoca moderna, come abbiamo detto, è l’espressione liturgica
predominante della cultura ecclesiastica da noi chiamata rito latino. Come
saprete, all’interno della arcidiocesi di Milano è in uso un “rito
fratello” che prende il nome da Sant’Ambrogio, il grande Vescovo di Milano:
il rito “ambrosiano”. In alcuni luoghi e in alcune occasioni speciali in
Spagna la liturgia è celebrata secondo un antico rito ispanico o
mozarabico, Queste rappresentano due venerabili eccezioni di cui non ci
occuperemo in questa sede.
La Chiesa di Roma utilizzò il greco fin dal principio.
Solo gradualmente fu introdotto il latino fin quando, nel quarto secolo,
la Chiesa di Roma fu definitivamente latinizzata (cfr A G. Martimort ed.;
La Chiesa in preghiera, Collegeville, 1992, I, p. 161-165).
Il rito romano si diffuse ampiamente in quella che oggi
chiamiamo Europa occidentale e nei continenti evangelizzati per lo più
da missionari europei in Asia, Africa, America e Oceania. Oggi, con la
più facile circolazione delle persone, ci sono cattolici di altri
riti (generalmente chiamate Chiese orientali) in tutti questi continenti.
La maggior parte di questi riti possiede una lingua originale,
che dà anche a ogni rito la propria identità storica. Il
rito romano ha il latino come lingua ufficiale. Le edizioni tipiche dei
suoi libri liturgici sono state sempre pubblicate in latino fino ad oggi.
E’ un fenomeno importante il fatto che molte religioni
del mondo, o le loro ramificazioni principali, abbiano una lingua che gli
è cara. Non possiamo pensare alla religione ebrea senza pensare
alla lingua ebrea. L’Islam ha l’arabo come lingua sacra nel Corano. L’induismo
classico considera il sanscrito come lingua ufficiale, il buddismo ha i
propri testi sacri in Pali.
Sarebbe superficiale da parte nostra considerare questa
tendenza come qualcosa di esoterico, strano o fuori moda, vecchio o medievale.
Vorrebbe dire ignorare un fine elemento della psicologia umana. Nelle questioni
religiose, le persone tendono a conservare quel che hanno ricevuto dalle
origini, il modo in cui i loro predecessori hanno articolato la propria
religione e pregato. Le parole e le formule usate dalle prime generazioni
sono care a coloro che oggi le ereditano. Se è vero che non si può
certo identificare una religione con una lingua, la maniera in cui essa
si comprende può rappresentare un legame affettivo con una particolareespressione
linguistica in uso nel suo classico periodo di crescita. (torna
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3. Vantaggi del latino nella liturgia
romana
Come già detto, nel quarto secolo, il latino aveva
ormai sostituito il greco come lingua ufficiale della Chiesa di Roma. Tra
i Padri latini più importanti della Chiesa
che scrissero in maniera estensiva e bella in latino
figurano Sant’Ambrogio (339-397), Sant’Agostino d’Ippona (354-430), San
Leone magno (+ 461) e Papa Gregorio Magno (540-604). Papa Gregorio in particolare,
portò il latino ai massimi splendori nella liturgia sacra, nei suoi
sermoni e nell’uso generale della Chiesa.
La Chiesa di rito romano mostrò un eccezionale
dinamismo missionario, Ciò spiega perché gran parte del mondo
fu evangelizzata dagli araldi del rito latino. Molte lingue europee che
oggi consideriamo moderne affondano le proprie radici nella lingua latina,
alcune più di altre. Esempi sono l’italiano, lo spagnolo, il rumeno,
il portoghese e il francese. Ma anche l’inglese e il tedesco possiedono
molti elementi di latino.
I Papi e la Chiesa romana trovarono il latino molto adatto
per molte ragioni. E’ la lingua giusta per una Chiesa che è universale,
una Chiesa in cui tutti i popoli, lingue e culture dovrebbero sentirsi
a casa, e nessuno viene considerato straniero. Inoltre, la lingua latina
ha una certa stabilità che le lingue parlate quotidianamente,
in cui le parole spesso cambiano di sfumature di significato,
non possono avere. Un esempio è la traduzione del latino “propagare”.
La Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, quando fu fondata nel
1627 fu chiamata “Sacra Congregatio de Propaganda Fide”. Ma all’epoca del
Concilio Vaticano II molte lingue moderne usavano il termine “propaganda”
nel senso in cui noi intendiamo la “propaganda politica”. Perciò
nella Chiesa oggi si preferisce evitare l’espressione “de propaganda fide”,
a favore dell’”Evangelizzazione dei popoli”. Il latino ha la caratteristica
di possedere parole ed espressioni che mantengono il loro significato di
generazione in generazione. Questo è un vantaggio quando si tratta
di articolare la nostra fede cattolica e preparare documenti papali o altri
testi della Chiesa. Anche le moderne università apprezzano questa
caratteristica e alcuni dei loro titoli solenni sono in latino.
Il beato Papa Giovanni XXIII nella sua Costituzione Apostolica,
Veterum Sapientia, pubblicata il 22 febbraio 1962, dà queste due
ragioni e ne fornisce una terza. Lalingua latina ha una nobiltà
e una dignità non trascurabili (cfr Veterum Sapientia, 5, 6, 7).
Possiamo aggiungere che il latino è conciso, preciso e poeticamente
misurato.
Non è ammirevole che persone, specialmente chierici,
se ben formati possano incontrarsi a riunioni internazionali ed essere
capaci di comunicare tra loro almeno in latino? Ciò che è
più importante, è forse cosa da poco che più di un
milione di giovani si siano potuti incontrare alla Giornata Mondiale della
Gioventù a Roma nel 2000, a Toronto nel 2002 e a Colonia nel 2005,
e cantare parti della Messa, e specialmente il Credo, in latino ? I teologi
possono studiare i testi originali dei primi Padri latini e degli scolastici
senza troppe difficoltà perché questi testi sono stati scritti
in latino.
E’ vero che c’è la tendenza, sia all’interno della
Chiesa che nel mondo in generale, a prestare più attenzione alle
lingue moderne, come l’inglese, il francese e lo spagnolo, che possono
aiutarci a trovare un lavoro più velocemente nel moderno mercato
del lavoro o al Ministero degli Affari Esteri di un paese. Ma l’esortazione
di Papa Benedetto XVI agli studenti della facoltà di lettere classiche
e cristiane della Pontificia Università Salesiana di Roma, alla
fine dell’Udienza generale del mercoledì del 22 febbraio 2006, mantiene
la sua validità e rilevanza. E la pronunciò in latino! Ve
ne do qui una libera traduzione: “giustamente i nostri predecessori avevano
insistito sullo studio della grande lingua latina in modo che si potesse
imparare meglio la dottrina salvifica che si trova nelle discipline ecclesiastiche
e umanistiche. Allo stesso modo vi invitiamo a coltivare questa attività
in modo che il maggior numero di persone possibile possa avere accesso
a questo tesoro e apprezzare la sua importanza” (L’Osservatore Romano,
45 - 23 febbraio 2006, p.5). (torna all'indice)
4. Il Canto gregoriano
"L’azione liturgica diventa più nobile quando
i riti sacri sono resi solenni nel canto (Sacrosanctum Concilium, 113).
C’è un vecchio detto: bis orat qui bene cantat, che vuol dire, “colui
che canta prega due volte”. Questo perché l‘intensità che
la preghiera acquista quando viene cantata, aumenta il suo ardore e moltiplica
la sua efficacia (cfr Paolo VI: Discorso alla Schola Cantorum italiana
del 25 settembre 1977, Notitiae 136 (nov. 1997) p. 475).
La buona musica aiuta a promuovere la preghiera, ad elevare
gli animi dei fedeli a Dio e a dare alle persone un assaggio della bontà
di Dio.
Nel rito latino quel che è conosciuto come canto
gregoriano è sempre stato tradizionale. Un canto liturgico caratteristico
esisteva invero a Roma prima di San Gregorio Magno (+ 604). Ma è
stato questo grande pontefice a dare a questo canto la più grande
prominenza. Dopo San Gregorio questa tradizione del canto continuò
a svilupparsi e ad essere arricchita fino agli sconvolgimenti che posero
fine al Medioevo. I monasteri, specialmente quelli dell’ordine benedettino,
hanno fatto molto per preservare questa eredità.
Il canto gregoriano è caratterizzato da una cadenza
meditativa emozionante. Tocca le profondità dell’animo. Mostra gioia,
dispiacere, pentimento, petizione, speranza,
lode o ringraziamento, come può indicare la festa
particolare, parte della Messa o un’altra preghiera. Rende più vivi
i Salmi. Possiede un fascino universale che lo rende adatto a tutte le
culture e tutti i popoli. E’ apprezzato a Roma, Solesmes, Lagos, Toronto
e Caracas. Risuona nella cattedrali, nei seminari, nei santuari, nei centri
di pellegrinaggio e nelle parrocchie tradizionali.
Il Santo Papa Pio X celebrò il canto gregoriano
nel 1904 (Tra le Sollecitudini, 3). Il Concilio Vaticano II lo lodò
nel 1963: “La Chiesa riconosce il canto gregoriano
come canto proprio della liturgia romana a cui occorre
riservare, a parità di condizioni, il primo posto nelle azioni liturgiche”
(Sacrosanctum Concilium, 116). Il
Servo di Dio, Papa Giovanni Paolo II ripeté questa
lode nel 2003 (cfr Chirografo per il centenario di Tra le Sollecitudini,
4-7; in Congr. per il Culto divino e la
disciplina dei Sacramenti: Spiritus et Sponsa, 2003,
p. 130). Papa Benedetto XVI incoraggiò l’associazione internazionale
dei Pueri Cantores in occasione dell’incontro a Roma alla fine del 2005,
che assegna un posto privilegiato al canto gregoriano. A Roma e in tutto
il mondo la Chiesa è benedetta con molti cori importanti, sia professionisti
che amatoriali, che interpretano in modo bellissimo il canto, e comunicano
il loro entusiasmo per esso.
Non è vero che i fedeli laici non vogliono cantare
il canto gregoriano. Quello che chiedono è che i sacerdoti, i monaci
e le religiose condividano questo tesoro con loro. I CD prodotti dai monaci
benedettini di Silos, dalla loro casa generalizia a Solesmes e da molte
altre comunità sono molto venduti tra i giovani. I monasteri vengono
visitati da persone che vogliono cantare lodi e specialmente vespri. Nel
corso di una cerimonia per l’ordinazione di undici sacerdoti che ho celebrato
in Nigeria lo scorso luglio, circa 150 sacerdoti hanno cantato la prima
preghiera eucaristica in latino. E’ stato molto bello. I fedeli presenti,
anche se non erano scolastici latini, l’hanno molto apprezzata. Dovrebbe
essere normale che nelle parrocchie dove ci sono quattro o cinque Messe
la domenica una di queste Messe fosse cantata in latino. (torna
all'indice)
5. Il Vaticano II ha scoraggiato l’uso
del latino?
Alcuni pensano, o hanno l’impressione che il Concilio
Vaticano II abbia scoraggiato l’uso del latino nella liturgia. Non è
così.
Appena prima di aprire il Concilio, il beato Papa Giovanni
XXIII nel 1962 scrisse una Costituzione apostolica, per insistere sull’uso
del latino nella Chiesa. Il Concilio Vaticano II, sebbene abbia ammesso
un certa introduzione della lingua volgare, insistette sul posto del latino:
“L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei
riti latini (Sacrosanctum Concilum, 36). Il Concilio richiese anche ai
seminaristi di “acquistare quella conoscenza della lingua latina che è
necessaria per comprendere e utilizzare le fonti di tante scienze e i documenti
della Chiesa (Optatam Totius, 13). Il Codice di Diritto Canonico pubblicato
nel1983 decreta: “La celebrazione eucaristica venga compiuta in lingua
latina o in altra lingua, purché i testi liturgici siano stati legittimamente
approvati” (Canone 928).
Coloro quindi che vogliono dare l’impressione che la
Chiesa abbia voluto togliere il latino dalla liturgia si sbagliano. Una
manifestazione dell’accettazione della liturgia latina ben celebrata da
parte delle persone si è avuta a livello mondiale nell’aprile 2005,
quando milioni di persone seguirono in televisione le esequie di Papa Giovanni
Paolo II e, due settimane dopo, la Messa d’insediamento di Papa Benedetto
XVI.
E’ importante il fatto che i giovani accettino volentieri
la Messa celebrata a volte in latino. Certo i problemi non mancano. Ci
sono anche dei malintesi o degli approcci sbagliati da parte dei sacerdoti
sull’uso del latino. Ma per meglio centrare la questione, è necessario
prima esaminare l’uso del vernacolo nella liturgia di rito romano oggi.
(torna all'indice)
6. La lingua volgare. Introduzione.
Diffusione. Condizioni.
L’introduzione delle lingue locali nella sacra liturgia
di rito latino non fu un fenomeno che si sviluppò in modo improvviso.
Dopo la parziale esperienza acquisita in alcuni paesi negli anni precedenti,
già il 5 e 6 dicembre 1962, dopo lunghi dibattiti a volte molto
accesi, i Padri del Concilio Vaticano II adottarono il principio secondo
il quale l’uso della lingua madre, nella Messa o in altre parti della liturgia,
poteva essere spesso a vantaggio delle persone. L’anno seguente il Concilio
votò l’applicazione di questo principio alla Messa, il rituale e
la Liturgia delle Ore (cfr Sacrosanctum Concilium, 36, 54, 63°, 76,
78, 101).
Seguì poi un uso più esteso del vernacolo.
Ma come se i Padri del Concilio avessero previsto la possibilità
che il latino perdesse sempre più terreno, insistettero perché
il latino fosse mantenuto.
Come già citato, l’articolo 36 della Costituzione
della Liturgia Sacra comincia con il decretare che “L’uso della lingua
latina, salvo diritti particolari, sia conservato
nei riti latini. L’articolo 54 dettava i passi da seguire
per “ permettere ai fedeli di recitare o cantare insieme, anche in lingua
latina, le parti dell’ordinale della messa
che gli spettano”. Nella celebrazione della Liturgia
delle Ore, secondo la tradizione secolare del rito latino, viene chiesto
ai chierici di mantenere la lingua latina”. (SC, 101).
Ma pur stabilendo dei limiti, i Padri del Concilio anticiparono
la possibilità di un uso più esteso del volgare. L’articolo
54 in effetti aggiunge: “Se poi in qualche
luogo sembrasse opportuno un uso più ampio della
lingua nazionale nella messa, si osservi quanto prescrive l'art. 40 di
questa costituzione”. L’articolo 40 dà direttive sul ruolo delle
Conferenze Episcopali e della sede apostolica su una materia così
delicata. Il vernacolo era stato introdotto. Il resto è storia.
Gli sviluppi furono così rapidi che alcuni chierici, religiosi e
fedeli laici oggi non sono consapevoli del fatto che il Concilio Vaticano
II non introdusse la lingua volgare in tutte le parti della liturgia.
Richieste ed estensioni dell’uso del vernacolo non si
fecero attendere. Su urgente richiesta di alcune Conferenze Episcopali,
papa Paolo VI prima autorizzò la celebrazione della Prefazione della
Messa in vernacolo (cfr Lettera del Cardinale Segretario di Stato, 27 aprile
1965), poi dell’intero Canone e delle preghiere di ordinazione nel 1967.
Infine, il 14 giugno 1971, la Congregazione per il Culto Divino mandò
una comunicazione in cui si affermava che le Conferenze Episcopali potevano
autorizzare l’uso del vernacolo in tutti i testi della messa, e ogni ordinale
poteva dare la stessa autorizzazione per la celebrazione corale o privata
della Liturgia delle Ore (sull’intero sviluppo vedi A. G. Martimort: Il
dialogo fra Dio e il suo popolo, in A.G. Martimort: La Chiesa in preghiera,
I, p.166)
Le ragioni dell’introduzione della lingua madre non sono
difficili da ricercare. Essa promuove una miglior comprensione di quel
che la Chiesa prega, poiché E’ ardente desiderio della madre Chiesa
che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva
partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla
natura stessa della liturgia…(e alla quale) il popolo cristiano ha diritto
e dovere in forza del battesimo (SC 14).
Allo stesso tempo, non è difficile immaginare
quanto sia complicato e delicato il lavoro di traduzione. Ancora più
difficile è la questione dell’adattamento e inculturazione, specialmente
quando pensiamo alla sacralità dei riti sacramentali, la tradizione
secolare del rito latino, e lo stretto legame tra fede e culto riscontrabile
nell’antica formula: lex orandi lex credendi.
Passiamo ora alla questione spinosa delle traduzioni
in vernacolo della liturgia. (torna all'indice)
7. Le traduzioni in vernacolo
La traduzione di testi liturgici dall’originale latino
nelle
varie lingue vernacolari è un elemento molto importante nella vita
di preghiera della Chiesa. Non è una questione di preghiera privata,
ma di preghiera pubblica offerta dalla santa madre Chiesa, che ha il suo
Capo in Cristo. I testi latini sono stati preparati con grande cura per
la dottrina, un’esatta dicitura “libera da qualsiasi influenza ideologica
e che possiede quelle qualità attraverso le quali i sacri misteri
della salvezza e l’indefettibile fede della Chiesa vengono efficacemente
trasmessi per mezzo del linguaggio umano alla preghiera, e la degna adorazione
offerta all’Altissimo (Liturgiam Authenticam, 3). Le parole usate nella
sacra liturgia manifestano la fede della Chiesa e sono guidate da essa.
La Chiesa pertanto necessita di una gran
cura nel dirigere, preparare e approvare le traduzioni,
in modo che neanche una parola inappropriata possa essere inserita nella
liturgia da un individuo che abbia uno scopo personale o che semplicemente
non sia consapevole della serietà dei riti.
Pertanto le traduzioni dovrebbero essere fedeli al testo
originale latino. Non dovrebbero essere delle libere composizioni. Come
lo ribadisce la Liturgiam Authenticam, il principale documento della Santa
Sede che fornisce direttive sulle traduzioni: “ La traduzione dei testi
liturgici della liturgia romana non è un lavoro di innovazione creativa
ma si tratta piuttosto di tradurre i testi originali con fedeltà
e accuratezza nelle lingue volgari” (n. 20).
Il genio del rito latino dovrebbe essere rispettato.
La tripla ripetizione è una delle sue caratteristiche. Alcuni esempi
sono: “mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”; Kyrie Eleison, Christe
eleison, Kyrie eleison”, “Agnus Dei qui tollis…”, tre volte. Un attento
studio del “Gloria in Excelsis Deo” mostra anch’esso “triplette” Le traduzioni
non dovrebbero eliminare o appiattire tale caratteristica.
La liturgia latina esprime non solo fatti ma anche sentimenti,
sensazioni, per esempio, di fronte alla trascendenza di Dio, alla sua maestà,
la sua misericordia e amore infinito (cfr Liturgiam Authenticam, 25). Espressioni
come “ Te igitur, cementissime Pater”, "Supplices te rogamus", "Propitius
esto", "veneremur cernui", "Omnipotens et misericors Dominus", "nos servi
tui", non dovrebbero essere sgonfiate o democratizzate da una traduzione
iconoclasta. Alcune di queste espressioni latine sono difficili da tradurre.
Sono necessari i migliori esperti di liturgia, classici, patrologia, teologia,
spiritualità, musica e letteratura in modo da elaborare delle traduzioni
che risultino belle sulle labbra della santa Madre Chiesa. Le traduzioni
dovrebbero riflettere reverenza, gratitudine e adorazione davanti alla
maestà trascendente di Dio a la fame dell’uomo di Dio che sono molto
chiare nei testi latini. Il papa Benedetto XVI nel suo Messaggio alla riunione
del comitato inglese della “Vox Clara” il 9 novembre 2005, parla di traduzioni
che “riusciranno a trasmettere i tesori della fede e la tradizione liturgica
nel contesto specifico di una celebrazione eucaristica devota e riverente”
(In Notitiae, 471-472 (nov-dic 2005) p. 557).
Molti testi liturgici sono ricchi di espressioni bibliche,
segni e simboli. Essi possiedono modelli di preghiera che risalgono ai
Salmi. Il traduttore non può ignorare questo.
Una lingua parlata oggi da milioni di persone avrà
senza dubbio molte sfumature e variazioni. C’è una differenza tra
l’inglese usato nella Costituzione di un paese, quello parlato dal Presidente
di una Repubblica, la lingua convenzionale dei lavoratori di porto o quella
degli studenti o la conversazione tra genitori e bambini. Il modo di esprimersi
non può essere lo stesso in tutte queste situazioni, anche se tutti
usano l’inglese. Quale forma dovrebbero adottare le traduzioni liturgiche?
Senza dubbio il vernacolo liturgico dovrebbe essere intelligibile
e facile da proclamare e da capire. Allo stesso tempo dovrebbe essere dignitoso,
sobrio, stabile e non soggetto a cambiamenti frequenti. Non dovrebbe esitare
a usare alcune parole non generalmente usate nel linguaggio quotidiano,
o parole che sono associate alla fede e al culto cattolico. Pertanto si
dovrebbe dire calice e non semplicemente coppa, patena e non piatto, ciborio
e non recipiente, sacerdote e non celebrante, ostia sacra e non pane consacrato,
abito e non vestito. Pertanto la Liturgiam Authenticam afferma: “ mentre
la traduzione deve trasmettere il tesoro perenne di orazioni tramite un
linguaggio comprensibile nel contesto culturale per cui essa è intesa,
… non dovrebbe sorprendere che tale lingua differisca in qualche modo dal
modo di parlare quotidiano” (n. 47).
L’intelligibilità non dovrebbe voler dire che
ogni parola deve essere capita da tutti immediatamente. Guardiamo attentamente
al Credo. E’ un “simbolo, una dichiarazione solenne che riassume la nostra
fede. La Chiesa ha dovuto convocare alcuni Consigli Generali per un’esatta
articolazione di alcuni articoli della nostra fede. Non tutti i cattolici
a Messa capiscono immediatamente e appieno alcune forme liturgiche cattoliche
quali l’Incarnazione, la Creazione, la Passione, la Risurrezione, della
stessa sostanza del Padre, che procede da padre in figlio, transustanziare,
presenza reale e Dio onnipotente. Questa non è una questione di
inglese, francese, italiano, hindi o swahili.
I traduttori non dovrebbero diventare degli iconoclasti
che distruggono o danneggiano man mano che traducono. Non tutto può
essere spiegato durante la liturgia.
La liturgia non esaurisce l’intera azione della Chiesa.
(cfr Sacrosanctum Concilium, 9). C’è bisogno anche di teologia,
catechesi e predicazione. E anche quando di offre una buona catechesi,
un mistero della nostra fede rimane un mistero.
In realtà possiamo dire che la cosa più
importante nel culto divino non è quella di capire ogni parola o
concetto. No. La considerazione più importante è che ci troviamo
in un atteggiamento di reverenza e di timore di fronte a Dio, che adoriamo,
lodiamo e ringraziamo. Il sacro, le cose di Dio, vanno affrontate senza
idee preconcette.
Nella preghiera, la lingua è prima di tutto un
contatto con Dio. Senza dubbio la lingua serve anche per una comunicazione
intelligibile tra esseri umani. Ma il contatto con Dio ha la priorità.
Nella mistica, tale contatto con Dio si avvicina e a volte raggiunge l’ineffabile,
il silenzio mistico dove cessa il linguaggio.
Non sorprende dunque che il linguaggio liturgico differisca
in qualche modo dal nostro linguaggio quotidiano. Il linguaggio liturgico
cerca di esprimere la preghiera cristiana nella quale si celebrano i misteri
di Cristo.
Come per riunire questi vari elementi necessari per produrre
delle buone traduzioni liturgiche, permettetemi di citare il discorso di
Papa Giovanni Paolo II ai vescovi americani provenienti dalla California,
Nevada e Hawaii durante la loro visita a Roma nel 1993. Il Papa chiedeva
a loro di preservare tutta l’integrità dottrinale e la bellezza
dei testi originali. Una delle nostre responsabilità a questo riguardo
è di rendere disponibili traduzioni appropriate dei libri liturgici
ufficiali in modo che, in seguito alla revisione e la conferma da parte
della Santa Sede, possano essere strumento e garanzia di una condivisione
genuina nel mistero di Cristo e della Chiesa.
Lex orandi, lex credendi. Il compito arduo della traduzione
deve badare a mantenere la piena integrità dottrinale e, secondo
il genio di ogni lingua, la bellezza dei testi originali. Quando così
tante persone sono assetate del Dio vivente - la cui maestà e misericordia
sono al cuore della preghiera liturgica - la Chiesa deve rispondere con
una lingua di lode e di culto che esalti il rispetto e la gratitudine per
la grandezza di Dio, la sua compassione e il suo potere. Quando i fedeli
si riuniscono per celebrare l’opera del nostro Redentore, il linguaggio
della preghiera - libero da ambiguità dottrinali o da influenze
teologiche - dovrebbe esaltare la dignità e la bellezza della celebrazione
stessa, esprimendo fedelmente la fede della Chiesa e l’unità. (In
Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XVI, 2 (1993) p. 1399-1400).
Da queste considerazioni, ne consegue che la Chiesa deve
esercitare un’attenta autorità sulle traduzioni liturgiche. La responsabilità
per la traduzione dei testi spetta alla Conferenza episcopale che sottomette
le traduzioni alla Santa Sede per la necessaria recognitio (cf SC 36; C.I.C.
Canone 838; Lit. Authenticam, 80).
Ne consegue che nessun individuo, nemmeno un sacerdote
o un diacono, ha l’autorità per cambiare la dicitura approvata nella
liturgia sacra. Questo è anche buon senso. Ma a volte notiamo che
il buon senso non è molto diffuso. Perciò la Redemptionis
Sacramentum ha dovuto dire espressamente “Si ponga fine al riprovevole
uso con il quale i Sacerdoti, i Diaconi o anche i fedeli mutano e alterano
a proprio arbitrio qua e là i testi della sacra Liturgia da essi
pronunciati. Così facendo, infatti, rendono instabile la celebrazione
della sacra Liturgia e non di rado ne alterano il senso autentico” (Red.
Sacramentum, 59; cfr anche Istruzione Generale sul Messale Romano n. 24).
(torna all'indice)
8. Cosa ci si aspetta da noi?
Per concludere queste riflessioni, possiamo chiederci
cosa ci si aspetta da noi.
Dovremmo fare del nostro meglio per apprezzare la lingua
che la Chiesa usa nella liturgia e unire i nostri cuori e le nostre voci,
seguendo le indicazioni di ogni rito liturgico. Non tutti sanno il latino,
ma i fedeli laici possono almeno imparare le risposte più semplici
in latino. I sacerdoti dovrebbero dare più attenzione al latino,
celebrare una Messa in latino di tanto in tanto. Nelle grandi chiese dove
si celebrano molte Messe la domenica o nei giorni festivi, perché
non celebrare una di queste Messe in latino? Nelle parrocchie rurali una
Messa latina dovrebbe essere possibile, diciamo una volta al mese. Nelle
assemblee internazionali, il latino diventa ancora più urgente.
Ne consegue che i seminari dovrebbero prestare attenzione a preparare e
formare i sacerdoti anche all’uso del latino (cfr ottobre 2005 Sinodo dei
Vescovi, Prop. 36).
Tutti i responsabili per le traduzioni in lingua volgare
dovrebbero sforzarsi di fornire il meglio, seguendo la guida dei documenti
della Chiesa, specialmente la Liturgiam Authenticam. L’esperienza insegna
che non è superfluo osservare che i sacerdoti, i diaconi e tutti
coloro che proclamano i testi liturgici, dovrebbero leggerli con chiarezza
e con la dovuta reverenza.
La lingua non è tutto. Ma è uno degli elementi
più importanti che necessitano di attenzione per delle buone celebrazioni
che siano belle e ricche di fede.
E’ un onore per noi diventare parte della voce della
Chiesa nella preghiera pubblica. Che la beata Vergine Maria, Madre del
Verbo fatto carne i cui misteri
celebriamo nella sacra liturgia, ottenga per tutti noi
la grazia di fare la nostra parte per partecipare col canto alle lodi al
Signore sia in latino che in vernacolo. (torna
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Francis Card. Arinze (Agenzia Fides 20/12/2006; righe
346, parole 4630)
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Gennio 2007
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