Intervista di  Mons. Malcom Ranjith 

Segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti

condotta da Anthony Valle per il mensile Inside The Vatican
(edito a Roma)

21 febbraio 2007

L'intervista verte sulla liberalizzazione della 
celebrazione della S. Messa tradizionale,
sulla crisi della Chiesa e sugli abusi liturgici 

Si veda il testo in inglese




I neretti  sono nostri

Mons. Malcom Ranjith: “È il Santo Padre che deciderà”


Tutti coloro che sono interessati alla liturgia della Chiesa sono sorpresi per il fatto che il Papa pubblicherà presto un Motu Proprio che permetterà la celebrazione della “Vecchia Messa”, e (se questo accadrà) qual è il suo significato ?
Uno dei liturgisti vaticani fa luce sui disegni del Papa.

 

Anthony Valle: Eccellenza, Lei, fin da quando è divenuto Segretario della Congregazione per il Culto Divino, ha generosamente concesso diverse interviste alla stampa internazionale a proposito della liturgia. Alcune sue dichiarazioni sono state fraintese e, contrariamente all’intenzione chiarificatrice, hanno suscitato delle controversie.
Pensa che si debba precisare qualcosa ?

Arcivescovo Malcom Ranjith: In quelle interviste ho inteso sottolineare che la riforma liturgica post-conciliare non è stata in grado di realizzare le auspicate aspettative circa il rinnovamento spirituale e missionario della Chiesa, così che oggi ci si possa considerare giustamente contenti in proposito.
Indubbiamente, ci sono stati anche risultati positivi, ma gli effetti negativi sembrano prevalere e causano molto disorientamento al nostro interno.
Le chiese si sono svuotate, la liturgia a ruota libera è all’ordine del giorno, mentre sono stati oscurati il vero scopo e il vero significato di ciò che si celebra.
Ci si deve chiedere, quindi, se il processo di riforma, nei fatti, sia stato condotto correttamente. Occorre guardare attentamente a ciò che è accaduto, pregare e riflettere sulle cause e, con l’aiuto di Dio, apportare le necessarie correzioni. 
Anthony Valle: Sembra che il Papa Benedetto XVI promulgherà un Motu Proprio per liberalizzare l’uso della Messa tradizionale o Tridentina. Si spera che il Motu Proprio del Papa istituisca una struttura giuridica che permetterà ai preti di celebrare la Messa tradizionale senza essere ingiustamente attaccati e continuamente ostacolati, non da gente che professa altre religioni o dalle autorità secolari, ma, ironia della sorte, dai loro stessi Pastori e Vescovi. 
Si tratta di una speranza realistica ?  E questa struttura giuridica è necessaria ?
Mons. Ranjith: Bene. Vi è una crescente richiesta per la restaurazione della Messa Tridentina. Perfino dei personaggi di primo piano hanno lanciato recentemente, in alcuni giornali, degli appelli pubblici per questa Messa.
Sono certo che il Santo Padre abbia preso nota di questo e deciderà cos’è meglio per la Chiesa.
Lei parla della possibile realizzazione di nuove strutture giuridiche per l’attuazione di tali decisioni. Non penso che possa essere questo l’aspetto più importante della questione. Ritengo piuttosto che la cosa più importante sia un’attitudine pastorale.
Il rifiuto delle richieste della Messa Tridentina, opposto dai vescovi e dai preti, crea la necessità di strutture giuridiche per assicurare l’applicazione di una decisione del Papa ? 
È così che dovrebbe andare ?
Sinceramente spero che non sia così.
La domanda appropriata devono farsela i pastori: Come posso, come vescovo o prete, condurre una persona più vicina a Cristo e alla Sua Chiesa ?
Non si tratta tanto della Messa Tridentina o del Novus Ordo, ma si tratta propriamente di una questione di responsabilità e di sensibilità pastorale.
Quindi, se la Messa Tridentina è la via per realizzare perfino un migliore livello di arricchimento spirituale per il fedele, i pastori dovrebbero permetterla.
La cosa importante non è tanto “cosa”, quanto “come”. La Chiesa dovrebbe cercare sempre di aiutare il nostro fedele ad essere più vicino a Cristo, a sentirsi sfidato dal Suo messaggio, a rispondere generosamente alla Sua chiamata. E se questo può essere ottenuto con la celebrazione del Novus Ordo o della Messa di San Pio V, bene,  si dovrebbe dare a tutti la migliore possibilità, invece di mettere avanti inutili cavilli teologici che creano divisioni.
Queste cose devono essere decise col cuore non con la testa.
Dopo tutto, il Papa Giovanni Paolo II ha fatto un appello personale ai vescovi nell’Ecclesia Dei Adflicta del 1988, chiamandoli ad essere generosi con coloro che desiderano celebrare o partecipare alla Messa Tridentina.

Inoltre, ci dovremmo ricordare che la Messa Tridentina non è qualcosa che appartiene solo ai seguaci dell’Arcivescovo Lefebvre. Essa è parte del nostro patrimonio, in quanto membri della Chiesa Cattolica.
Come ha molto chiaramente dichiarato il Papa Benedetto XVI nel suo discorso ai membri della Curia, nel dicembre 2005, il Concilio Vaticano II non ha previsto un ricominciamento del tutto nuovo, ma un moto di continuità, con un rinnovato senso di entusiasmo ed una nuova prospettiva che rispondessero meglio ai bisogni missionari del tempo.
Per di più, noi abbiamo il serio problema della diminuzione del numero dei fedeli in alcune delle Chiese del mondo Occidentale. Dobbiamo chiederci che cosa è accaduto in queste Chiese e prendere le necessarie misure correttive.
Io non penso che questa situazione sia dovuta solo alla secolarizzazione. Ritengo che abbiano svolto la loro parte una profonda crisi della fede insieme con la spinta alla sperimentazione e alle novità liturgiche. Vi sono insieme troppo formalismo e una visibile fatuità.
Occorre allora recuperare nel culto il vero senso del sacro e del mistico. E se il fedele sente che la Messa Tridentina gli offre questo senso del sacro e del mistico, dovremmo avere il coraggio di accettare la sua richiesta.
Riguardo ai tempi e alla natura del Motu Proprio, non si sa niente. È il Santo Padre che deciderà.
E quando lo farà, noi dovremo accettare in tutta obbedienza ciò che egli ci indica, sforzandoci di aiutarlo con un genuino amore per la Chiesa. Ogni atteggiamento contrario potrebbe solo nuocere alla missione spirituale della Chiesa e contrastare la volontà del Signore.


Anthony Valle: Come molti cattolici, oggi, mia moglie ed io finiamo con l’uscire dalla celebrazione del Novus Ordo esasperati e perplessi, piuttosto che spiritualmente rinvigoriti. Perché ?

Mons. Ranjith: Nella celebrazione del Novus Ordo dobbiamo essere molto seri su ciò che facciamo sull’altare. Non posso sognare la notte cosa farò alla Messa del giorno dopo, e poi condurmi all’altare dando inizio ad una celebrazione con ogni tipo di invenzione circa le rubriche da seguire e le azioni da compiere.
La Santa Eucarestia appartiene alla Chiesa. Di conseguenza essa ha dei significati suoi propri che non possono essere lasciati all’eccentricità del singolo celebrante.
Nella liturgia della Chiesa, ogni elemento ha una sua lunga storia, sia per lo sviluppo sia per la rilevanza; e certamente esso non è materia da tradizioni private, né può essere oggetto di manipolazione da parte di tutti.
La Sacrosanctum Concilium, infatti, stabilisce che tranne la Sede Apostolica e i vescovi, “assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica.” (SC 22). Quando quindi, in certe zone della Chiesa, vediamo oggi troppa indipendenza in materia liturgica, ciò è fondamentalmente dovuto ad una scorretta comprensione della teologia liturgica.

Per esempio, il mistero della Santa Eucarestia è stato spesso mal compreso o compreso parzialmente, così da lasciare la porta aperta ad ogni genere di abuso liturgico.
Nella celebrazione della Santa Eucarestia si è posto troppo l’accento sul ruolo presidenziale del prete, ma noi sappiamo che il prete non è realmente l’agente principale di ciò che avviene sull’altare.
Questo agente è Gesù stesso.
Inoltre, ogni celebrazione liturgica ha anche una dimensione celeste, essa “ viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini.” (SC 8).
Altri guardano all’Eucarestia secondo un’ottica che pone l’accento sulla sua dimensione conviviale, collegandola alla “comunione”. Si tratta di una considerazione importante, ma bisognerebbe ricordare che la comunione non è generata tanto da quelli che prendono parte all’Eucarestia, quanto dallo stesso Signore.
Attraverso l’Eucarestia il Signore ci assume in Sé, e in Lui siamo posti in comunione con tutti gli altri che si uniscono a Lui. Si tratta quindi non di una esperienza sociologica, ma mistica. È proprio in quanto “comunione” che l’Eucarestia è un’esperienza celeste.

La dimensione sacrificale dell’Eucarestia è quella più importante. Ogni volta che celebriamo l’Eucarestia, riviviamo il Sacrificio del Calvario, celebrandolo come il momento della nostra salvezza.
Questo fatto costituisce anche l’unica dignità e l’unica fonte della dignità del prete. Egli è stato istituito da Cristo per celebrare il mistero meraviglioso della conversione di un pezzo di pane corruttibile nel Corpo Glorioso di Cristo e di un po’ di vino nel Sangue di Cristo, versato nel Sacrificio del Calvario per la salvezza del mondo.  E questo dev’essere vissuto, capito e creduto dal prete ogni volta che celebra l’Eucarestia.
In effetti, la Sacrosanctum Concilium pone l’accento sull’efficacia sacrificale e salvifica della Messa. 
Il prete diventa così un altro Cristo, per così dire. 
Che grande vocazione!
Se noi celebriamo l’Eucarestia devotamente, il fedele potrà trarne immenso beneficio spirituale e potrà ritornare ripetutamente in cerca di questa alimentazione celeste.


Anthony Valle: Alcuni sostengono che la soluzione della crisi liturgica, e in fondo della crisi della fede, che affliggono oggi la Chiesa Cattolica, consisterebbe nel ritorno all’uso esclusivo della Messa Tridentina. Altri invece sostengono che ciò di cui abbiamo realmente bisogno è una “riforma della riforma”, cioè una riforma del Novus Ordo.
Lei che ne pensa ?

Mons. Ranjith: Un atteggiamento da “aut-aut” polarizzerebbe inutilmente la Chiesa, mentre invece i fattori motivazionali dovrebbero essere la carità e la preoccupazione pastorale.
Se il Santo Padre lo desiderasse, entrambi potrebbero coesistere.
Questo non significa che dovremmo abbandonare il Novus Ordo, ma nell’interazione delle due tradizioni romane è possibile che l’una possa influenzare l’altra.
Non possiamo dire che tutto è completato e finito, che niente di nuovo può accadere.
In realtà, il Concilio Vaticano II non ha mai sostenuto l’immediato cambio della liturgia. Piuttosto ha preferito “che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti.” (SC 23). 
Come ha annotato nel suo diario il Cardinale Antonelli, un membro molto importante del Consilium che intraprese la revisione della liturgia dopo il Concilio, alcuni cambiamenti liturgici sono stati introdotti senza tanta riflessione, a casaccio, e fatti diventare successivamente una pratica accettata.
Per esempio, la Comunione sulla mano non è stata studiata prima correttamente e non si è riflettuto prima che la Santa Sede l’accettasse. Essa è stata introdotta a casaccio in alcuni paesi del Nord Europa e solo più tardi è divenuta una pratica accettata , poi diffusasi in molti altri posti. Si tratta di una cosa che avrebbe dovuto essere evitata. Il Concilio Vaticano II non ha mai sostenuto un simile metodo per la riforma liturgica.


Anthony Valle: Lex orandi, lex credendi, lex vivendi. È vero che il nostro modo di rendere il culto e di pregare influenza ciò che crediamo e questo influisce su come viviamo ? 
In altre parole: la liturgia influenza in definitiva la nostra vita morale o no ?

Mons. Ranjith: Si. 
Come possiamo convincere il fedele a fare sacrifici nelle sue scelte morali ed etiche, senza che innanzi tutto sia toccato e ispirato profondamente dalla grazia di Dio ? 
E questo accade specialmente nel culto, quando l’anima umana può avvertire più intimamente la Grazia salvifica di Dio. Nel culto la fede si interiorizza e trabocca con forza e ispirazione, permettendo di attuare le opzioni morali che sono in armonia con la stessa fede.
Nella liturgia dovremmo avvertire la prossimità di Dio al nostro cuore, così intensamente da cominciare a credere con fervore e sentirci costretti ad agire correttamente.


Valle: Quali sono alcune delle attuali tendenze o problemi liturgici che necessitano di una correzione ?

Mons. Ranjith:
Una di queste è la tendenza, in vari paesi, a praticare le liturgie ecumeniche invece della Messa domenicale. 
Nel corso di esse cattolici laici e ministri protestanti celebrano insieme e vengono poi invitati a pronunciare l’omelia.
Le domenicali liturgie della Parola, con distribuzione della Santa Comunione, forma concessa nei casi in cui non può essere presente un prete, se trasformate in eventi ecumenici possono offrire al fedele un segnale sbagliato. Possono portare all’idea della Domenica senza Eucarestia.
Com’è noto, l’Eucarestia fa la Chiesa (Ed E. 21), ed è l’elemento centrale per noi cattolici. Se la si sostituisce così facilmente con le liturgie della Parola o, peggio ancora, con i cosiddetti servizi di preghiera ecumenici, si mette in discussione la stessa identità della Chiesa Cattolica. Sfortunatamente sentiamo anche di casi in cui la stessa Eucarestia viene celebrata in vario modo con i pastori protestanti.
Questo è del tutto inaccettabile e costituisce uno dei graviora delicta (dei peccati più gravi) (RM 172).
L‘ecumenismo non è qualcosa lasciata alla scelta individuale di qualche prete. Il vero ecumenismo, come quello fatto proprio dal Vaticano II, viene dal cuore della Chiesa. 
Per esempio, la strada al vero ecumenismo incomincia con la seria riflessione condotta da coloro che sono reputati competenti in materia, come il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani e lo stesso Santo Padre. Non tutti hanno la competenza per sapere in che direzione può essere condotta questa delicata ricerca dell’unità. Sono necessarie tanta riflessione e tanta preghiera. 
In tema di ecumenismo, quindi, non dovrebbe essere sperimentata individualmente alcuna novità liturgica.

Una seconda tendenza preoccupante è quella della graduale sostituzione della Messa celebrata da un prete con un servizio paraliturgico condotto da un laico. Certo, questo può legittimamente accadere quando non è disponibile un prete e le opportunità per l’adempimento dell’obbligo domenicale sono limitate. 
Ma si tratta di un’eccezione, non della regola. 
La cosa pericolosa è di mettere da parte il prete anche quando fosse disponibile, sostituendolo con gruppi di laici che si arrogano il diritto di svolgere mansioni riservate ai preti. È da qui che deriva la tendenza di mettere un laico a pronunciare l’omelia al posto del prete, anche quando questi è presente, o adibirlo alla distribuzione della Santa Comunione mentre il prete siede inattivo all’altare.
È opportuno sottolineare che, come ha affermato il Concilio Vaticano II, il sacerdozio comune dei fedeli è il sacerdozio ministeriale dei preti “differiscono essenzialmente e non solo di grado” (LG 10). 
Così che è gravemente abusivo assegnare ai laici le mansioni sacre riservate ai preti. 
La cosa brutta è che la tendenza universale a laicizzare il prete e a clericalizzare il laico è in crescita.
Anche questo è contra mentem (contro l’intenzione) del Concilio.

Vi è anche la tendenza a considerare come una pratica “normale” lo spostamento della Messa domenicale al sabato. Invece di tenere la Domenica come il giorno del Signore, e quindi un giorno di riposo spirituale e fisico, vi è la tendenza a ridurne l’importanza, facendola diventare un giorno di distrazioni mondane. In Dies Domini, il Papa Giovanni Paolo II ha messo in guardia contro questa tendenza preoccupante.

Infine, vorrei segnalare alcune pratiche introdotte in terra di Missione, per esempio in Asia, dove, in nome del cambiamento, si va anche contro l’eredità culturale dei luoghi.
In alcuni paesi asiatici vi è la tendenza ad introdurre la Comunione sulla mano con i fedeli in piedi. 
Questo non è coerente con la cultura asiatica. 
I Buddisti rendono il culto prostrati a terra con la fronte che tocca il pavimento. 
I Musulmani si tolgono le scarpe e si lavano i piedi prima di entrare in moschea per il culto. Gli Indù entrano nel tempio a petto nudo in segno di sottomissione. 
Quando la gente si avvicina al Re di Tailandia o all’imperatore del Giappone, lo fa in ginocchio, in segno di rispetto. 
La Chiesa, invece, in molti paesi dell’Asia, al posto dell’inginocchiamento, ha introdotto la pratica del semplice inchino al Santissimo Sacramento, mentre la Santa Comunione viene ricevuta in piedi e sulla mano. E noi sappiamo che queste pratiche non possono essere considerate conformi alla cultura asiatica.
Per di più, quando si prendono tali decisioni, il laico che oggi vede ampliare il proprio ruolo nella Chiesa, non viene neanche consultato.

Tutte queste situazioni non sono di buon auspicio per la Chiesa, ed è necessario correggere queste tendenze, se vogliamo che l’Eucarestia che celebriamo diventi, come dice Sant’Ignazio d’Antiochia, “medicina di immortalità e antitodo contro la morte (Ef. 20).




marzo  2007

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