Intervista esclusiva 

di S. Ecc. Mons. Bernard Fellay 
Superiore Generale della Fraternità San Pio X

rilasciata al periodico Nouvelles de Chrétienté
n° 111, maggio-giugno 2008

Bilancio del Motu Proprio sulla Messa tradizionale
Un anno dopo




 
Avvertenza

Quest'intervista, rilasciata a fine maggio, è precedente all'incontro che Mons. Fellay ha avuto con il Card. Castrillon Hoyos. Pertanto non vi è alcun riferimento a tale incontro, tuttavia essa rappresenta sempre una sintesi completa della posizione ufficiale della Fraternità nelle attuali questioni inerenti ai rapporti con le autorità romane, come è espressamente dichiarato nel sito della Fraternità in Italia
http://www.sanpiox.it/primapag/ver.html


(I grassetti  sono nostri)



Nouvelles de Chrétienté: Monsignore, un anno dopo la promulgazione del Motu Proprio Summorum Pontificum si può fare un bilancio?

Mons. Fellay: Il Motu Proprio, nel contesto attuale, è un gesto che appartiene ai miracoli e per il quale il Papa ha diritto a tutta la nostra riconoscenza. Lo si deve considerare come una tappa importante e non come la conclusione della crisi che conosciamo da parecchi decenni. Direi anche che si tratta di una tappa che solleva nuovi problemi, perché questo documento modifica la configurazione generale in cui si trova la Chiesa a partire dal post-concilio.
In fondo, l’essenziale del Motu Proprio sta in queste due parole "numquam abrogatam", la Messa tridentina non è mai stata abrogata. Lo scopo di questo documento, che un è documento legislativo, è chiaramente quello di far rientrare nuovamente l’uso della Messa tradizionale nella pratica della Chiesa. Esso si presenta come una revisione dei testi precedenti che trattavano di questa materia, gli indulti del 1983 e del 1988. Ora, un indulto è una legge particolare, una privata lex che accorda un privilegio, che consente un’eccezione nei confronti della legge ordinaria. In genere questa eccezione è legata a delle condizioni, e i due indulti esprimevano con gran forza le condizioni richieste: riconoscimento del Concilio e della nuova Messa; senza parlare delle altre condizioni aggiunte arbitrariamente dai vescovi. Ebbene… nel Motu Proprio non vi è alcuna condizione.
Mi si potrebbe dire: " Si, ma si parla di riconoscere la santità della Messa". Questo non si trova nel documento vero e proprio, ma nella lettera di accompagnamento. Il fatto che vi siano due documenti obbliga a distinguere il loro valore. Se il Papa avesse voluto dare lo stesso valore ad entrambi, se fosse stato necessario comprendere il Motu Proprio alla luce della lettera di accompagnamento, egli avrebbe fatto un documento solo.
Questo Motu Proprio è un atto legislativo del tutto unico nella storia della Chiesa, perché solleva dei problemi nuovi che complicano la situazione per le autorità romane. 
In effetti, dichiarare che la Messa tradizionale non è stata abrogata, significa riconoscere il suo stato anteriore: quello di legge universale. Questa Messa è ed è sempre stata la Messa della Chiesa. Il problema sta nel fatto che le autorità romane hanno fatto dopo una nuova Messa, e dunque una nuova legge universale. Ordinariamente, quando il legislatore fa una nuova legge, questa sopprime la precedente. Facciamo un esempio semplice: se un legislatore decide che si guida a sinistra, e in seguito un altro legislatore decide che si guida a destra, con la promulgazione della seconda legge si abolisce la prima.
Ora, in tutta la storia della Chiesa, non s’era mai vista una revisione tale della lex orandi, come quella attuata dalla rivoluzione liturgica in base al Concilio Vaticano II. Ed è in questo contesto che il Papa afferma che la prima legge non è stata abrogata. È come se si dicesse che è possibile guidare a destra e a sinistra. È per questo che la prima parte del Motu Proprio cerca di spiegare, se non di giustificare, tale situazione, e cioè l’esistenza di due leggi universali riguardanti lo stesso argomento. Ed è per questo che ci si dice che vi sono due forme di una sola Messa: una forma ordinaria e una forma straordinaria.
Ma questa spiegazione è architettata per delle evidenti ragioni politiche. In realtà la cosa non sta in piedi. Questo è inaccettabile, poiché si scontra in pieno con l’evidenza dei fatti.
 

NDC: Tuttavia, questa equiparazione delle due Messe ha suscitato delle critiche da parte dei tradizionalisti.

Mons. Fellay: A giusto titolo, poiché è inaccettabile. Ma mi sembra che tale equiparazione sia più una conseguenza che un principio. Il Motu Proprio non ha lo scopo di affermare che le due Messe sono solo una, secondo una forma ordinaria e una forma straordinaria. No! Lo scopo di questo documento è di sancire un atto legislativo che reintroduce nella vita della Chiesa la Messa antica. Si tratta di un passo. La questione sta nel sapere: un passo in quale direzione? Noi speriamo che sia quella giusta!
Bisogna notare che in nessuna parte del documento si trova il termine “vietato”. In nessuna parte si dà, al parroco o al vescovo, il diritto di vietare questa Messa. Ogni volta i termini utilizzati sono invece " accordare volentieri", " accogliere favorevolmente la domanda". Si tratta sempre di aperture a favore della Messa antica. E laddove sorga un problema, bisognerà ricorrere all’autorità superiore, che dovrà cercare una soluzione. Occorrerà esaminare le cose per risolvere i problemi. È evidente che vi è la volontà del Papa per il ritorno della liturgia tradizionale nella Chiesa. Ma questo ritorno non è completo, non è esclusivo, esso pone dei problemi.
Tuttavia, bisogna riconoscere che quando si vede qualcuno che si è rotta una gamba e che, dopo essersi liberato del gesso, posa il piede per terra per la prima volta, si guarda con piacere a questo primo passo. Nessuno potrebbe pretendere che questo malato scorazzi come uno sano. Si applaudirà questo primo passo, anche se è instabile, e si aspetterà che il meglio venga dopo. Il Motu Proprio non è il miracolo del paralitico che, guarito in un istante, prende a saltellare col suo giaciglio sulle spalle. Questo atto giuridico è quanto meno claudicante, ma è un passo. Si è restituito il suo posto alla Messa di sempre, posto che essa non aveva più da 40 anni. Ecco perché si può veramente gioire.
 

NDC: E tuttavia, nella recente Lettera agli amici e benefattori della Fraternità San Pio X (n° 72), Lei scrive che la liturgia non è la prima cosa e che in fondo non è cambiato niente nella situazione della Chiesa.

Mons. Fellay: Effettivamente, io dico che la questione liturgica non è la prima e che essa lo diventa solo in quanto "espressione di un’alterazione della fede e contemporaneamente del culto dovuto a Dio." Poiché occorre sempre considerare la lex orandi, la liturgia, come l’espressione del dogma, la lex credendi. La Messa non è un semplice decoro, essa deve esprimere tutta la fede, tutto lo spirito cattolico, tale che ad un avanzamento in direzione della liturgia tradizionale, come è il caso del Motu Proprio, dovrebbe logicamente corrispondere un avanzamento in direzione della dottrina tradizionale. Ora, parecchi documenti romani recenti indicano chiaramente che in fondo non è cambiato nulla veramente, cosa che ci obbliga a trarre delle conclusioni pratiche di tutta evidenza.
In effetti, a partire da Benedetto XVI si dice che la dottrina conciliare non introduce alcun cambiamento nei confronti della Tradizione, come se il Papa avesse la volontà di rendere tradizionale il Concilio o di rendere conciliare la Tradizione. Prima tutti dicevano che il Vaticano II e le riforme conciliari costituivano un cambiamento, e cioè una rottura. L’attitudine comune era di vedere in questo Concilio l’inizio di una nuova era, e tutto quello che vi era stato precedentemente veniva obliato. Certi seminaristi mi hanno perfino confessato che nei seminari moderni non avevano imparato assolutamente niente di ciò che c’era stato prima del Vaticano II.
Con in testa questa idea del cambiamento, il Papa Giovanni Paolo II, a proposito del diritto canonico riformato, non aveva esitato a parlare di " nuova ecclesiologia ". Secondo lui, questo nuovo diritto canonico era l’espressione della nuova ecclesiologia del Vaticano II. Oggi, Benedetto XVI ci dice: " Attenzione! Continuità, non rottura. È necessario che il presente della Chiesa sia legato al suo passato ". Giungendo fino ad utilizzare il termine Tradizione. Tuttavia, in maniera abituale, non si tratta della Tradizione in sé, ma della tradizione vivente.
 

NDC: Può darci un esempio preciso di questo nuovo atteggiamento ?

Mons. Fellay: Il Papa ha sviluppato questa nuova prospettiva in uno dei documenti fondamentali del suo pontificato, il discorso del 23 dicembre 2005 alla Curia romana. Si tratta di un testo in cui si vede Benedetto XVI smarcarsi dall’ultra-progressismo. Egli vi condanna coloro che vogliono un Vaticano III, e che dicono che il Vaticano II ha aperto una strada, ha lanciato delle idee, ed occorre proseguire in questa direzione. Dunque, andare avanti per superare il Vaticano II! Il Papa condanna questo spirito di rottura. Ma, dopo aver sostenuto la necessaria relazione al passato, dichiara che il Vaticano II doveva dare alla Chiesa una nuova collocazione nei confronti del mondo. Ai suoi occhi, la grande questione del Vaticano II consisteva nel definire in che modo la Chiesa dovesse situarsi di fronte al mondo contemporaneo. Ed egli sviluppa questo tema in quattro punti. Ed ogni volta ripete la stessa frase: " Era necessario che la Chiesa desse una nuova definizione del rapporto tra…", tra Chiesa e Stato, tra Chiesa e altre religioni, tra Chiesa e giudaismo, e tra fede e scienza. E se era necessario che si avesse una nuova relazione è perché, dal suo punto di vista, l’interlocutore si era evoluto.
Infatti, Benedetto XVI spiega che nel XIX secolo il mondo, sotto diversi aspetti, aveva assunto una posizione radicale contro la Chiesa, cosa che costrinse i Papi a prendere una posizione altrettanto radicale contro il mondo. Ci si chiede certo se questo non contraddica la proposizione 80 del Sillabo, che condanna la necessità per il Papa di mettersi in armonia col mondo. No, sembra rispondere Benedetto XVI, perché dopo il XIX secolo vi è stato il XX, in cui il mondo è divenuto migliore, e in ogni caso non così radicale. E ci fa l’esempio dello Stato che non è più così radicalmente contrario alla fede, ed anche delle altre religioni con le quali oggi si può trovare un terreno d’intesa.
Chiaramente, egli condanna coloro che predicano la rottura e insiste nel dire che è necessaria una continuità con la Tradizione, ma al tempo stesso giustifica e ratifica tutti i cambiamenti del Vaticano II. In qualche modo li " tradizionalizza ". È necessario che vi sia continuità, non può essere diversamente, quindi vi è continuità. Non occorre provarlo, che vi sia continuità è una necessità della Chiesa, quindi vi è continuità. Ecco posto un problema molto serio.
 

NDC: Lei è sicuro che questo discorso costituisca la linea maestra del pontificato?

Mons. Fellay: Già il Motu Proprio afferma questa continuità, dicendo che le due Messe sono solo una, perché vi è una sola fede. E siccome non può esservi che una sola espressione dell’unica fede, vi è una sola Messa, ma sotto due forme, ordinaria e straordinaria.
Nei giorni successivi alla pubblicazione del Motu Proprio, la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicò un documento intitolato Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa. In realtà in questo documento viene trattato il problema del " subsistit in ". Ed ecco come! 
Alla domanda "Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha forse cambiato la precedente dottrina sulla Chiesa? ", la risposta è: "Il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato tale dottrina, ma ha voluto solo   svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente."
La seconda domanda è più precisa: " Come deve essere intesa l’affermazione secondo cui la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica ? ". Ad essa i teologi romani rispondono dicendo che nel n° 8 della Lumen Gentium "subsistere" significa proprio la perenne continuità storica e la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo nella Chiesa cattolica, nella quale concretamente si trova la Chiesa di Cristo su questa terra. Ma per aggiungere subito che " Secondo la dottrina cattolica… si può rettamente affermare che la Chiesa di Cristo è presente e operante nelle Chiese e nelle Comunità ecclesiali non ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica grazie agli elementi di santificazione e di verità che sono presenti in esse". E si osa affermare che questo è quello che la Chiesa ha sempre insegnato. Questi teologi non hanno paura della contraddizione.
La terza domanda ha il merito della chiarezza: "Perché viene adoperata l’espressione “sussiste nella” e non semplicemente la forma verbale “è”?". Risposta: " L’uso di questa espressione, che indica la piena identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica, non cambia la dottrina sulla Chiesa; trova, tuttavia, la sua vera motivazione nel fatto che esprime più chiaramente come al di fuori della sua compagine si trovino “numerosi elementi di santificazione e di verità”, “che in quanto doni propri della Chiesa di Cristo spingono all’unità cattolica”". In altre parole,  queste comunità ecclesiali sono fuori dalla Chiesa, ma hanno degli elementi che spingono all’unità.
Per ben comprendere questo documento, è utile riferirsi alle dichiarazioni del cardinale Kasper, il responsabile romano del dialogo ecumenico. In una conferenza sui fondamenti dell’ecumenismo, egli ha spiegato che il termine sussiste è stato introdotto al posto del verbo è, costantemente impiegato fino all’enciclica Mystici Corporis di Pio XII, per rendere possibile l’ecumenismo nella Chiesa cattolica. Per lui, quindi, questo termine sussiste è il fondamento dell’ecumenismo nella Chiesa cattolica. Se si sopprimesse questo termine e si usasse di nuovo è, sarebbe la fine dell’ecumenismo. E la Congregazione per la Dottrina della Fede vorrebbe convincerci che sussiste equivalga a è!
Il problema è che si tratta di un testo ufficiale emanato da Roma. I suoi autori ci dicono che intendono chiarire la posizione romana, ma si può leggerlo tre volte, cinque volte, dieci volte, se si vuole, senza capirci più niente.
 

NDC: Questo è sconcertante, ma non potrebbe trattarsi di un caso particolare che non andrebbe generalizzato?

Mons. Fellay: No, non si tratta di un caso isolato. Prendiamo il documento romano più recente intitolato Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione. Dopo aver affermato che l’evangelizzazione è molto importante e che è necessario che ogni cristiano abbia a cuore l’evangelizzazione, si arriva all’ecumenismo: "La missione della Chiesa è universale e non è limitata a determinate regioni della terra. L’evangelizzazione, tuttavia, si realizza diversamente, secondo le differenti situazioni in cui avviene". E là si distingue la missione in senso proprio, la missio ad gentes che si rivolge a coloro che non conoscono Cristo, dall’evangelizzazione in senso lato, per i cristiani che non sono più nella Chiesa: " Inoltre, vi è l’evangelizzazione in paesi dove vivono cristiani non cattolici, soprattutto in paesi di antica tradizione e cultura cristiana. Qui si richiede sia un vero rispetto per la loro tradizione e le loro ricchezze spirituali che un sincero spirito di cooperazione". 
È questa l’evangelizzazione?  Qui non si parla più di conversione! Nel quadro della missio ad gentes bisogna cercare di convertire i pagani, con gli altri, invece, si coopera. E se dev’esserci conversione al cattolicesimo da parte di questi cristiani, sarà in nome della libertà religiosa! Non mi invento niente: " Al riguardo va notato che se un cristiano non cattolico, per ragioni di coscienza e convinto della verità cattolica, chiede di entrare nella piena comunione della Chiesa cattolica, ciò va rispettato come opera dello Spirito Santo e come espressione della libertà di coscienza e di religione". 
 

NDC: A proposito della conversione, che pensa della preghiera per gli Ebrei, del Venerdì Santo, che è stata appena riformata?

Mons. Fellay: Il cardinale Kasper, che è anche responsabile delle relazioni con gli Ebrei, ha fatto un commento autorizzato su questa preghiera, ai microfoni di Radio Vaticana, il 7 febbraio, in perfetto accordo col cardinale Bertone, Segretario di Stato della Santa Sede. Entrambi spiegano che la missione è rivolta ad gentes, e non ad Iudeos. In altri termini, con questa nuova preghiera, la Chiesa, anche se non è detto esplicitamente, non cerca di convertire gli Ebrei. Si tratta di un’abile elaborazione. 
Questa preghiera è costituita da due parti. Nella prima non si parla più di tenebre, ma di illuminare,  e tuttavia normalmente la luce si dà a coloro che sono nelle tenebre. Ma, quanto meno, bisogna riconoscere Cristo, poiché, come dice San Pietro, non è dato alcun altro nome sotto il cielo per il quale si possa essere salvati, se non il Nome di Gesù. Se dunque si vuole che gli Ebrei siano salvati, occorre almeno dire che devono riconoscere Nostro Signore. Invece, nella seconda parte di questa preghiera è cambiato tutto. E la novità è tratta dalla lettera ai Romani, che non può essere sospettata di eterodossia, ma il versetto citato è fuori tema. Si chiede che alla fine dei tempi, quando tutte le nazioni saranno riunite, Israele si trovi salvato. Si tratta di una preghiera escatologica che si realizzerà comunque, poiché la Sacra Scrittura ci dice che alla fine dei tempi gli Ebrei si convertiranno. Ma non si chiede più che gli Ebrei si convertano oggi.
Con questo, penso che non ci sia bisogno di precisare quale preghiera si dica nella Fraternità San Pio X, il Venerdì Santo.
 

NDC: Come conciliare il Motu Proprio, che Lei dice essere un avanzamento, con questa volontà di mantenere l’insegnamento conciliare ?

Mons. Fellay: Su questo punto non si può che provare una forte perplessità. Tanto più che il Papa, mentre copre con la sua autorità questi documenti ufficiali, col Motu Proprio manifesta l’intenzione di riabilitare, non solo la Messa tridentina, ma tutta la liturgia tradizionale. Egli dichiara che è sempre in vigore la Messa in tutte le sue forme, la Messa del matrimonio, la Messa di Requiem, nonché il rituale tradizionale, tutti i Sacramenti, e anche il breviario. Il riconoscimento della sola Messa sarebbe stata una cosa alquanto incompleta. Sappiamo bene come in questi anni d’indulto certi vescovi hanno provato a limitare la vita liturgica tradizionale alla sola Messa, fino ad obbligare i fedeli ad andarsi a confessare dal loro parroco, che in ogni caso si riservava i battesimi e i funerali. Negli Stati Uniti, i vescovi si erano messi d’accordo: vi era una messa dell’indulto per ogni diocesi e, per separare bene le cose, dovevano trascorrere minimo due ore tra la fine della nuova Messa e l’inizio della Messa tridentina. I preti, nel corso di quest’ultima Messa, avevano l’obbligo di predicare sui benefici del Vaticano II. La questua era per la parrocchia, che conservava il monopolio degli altri sacramenti secondo il rituale moderno.
Si comprende bene che il Papa non si colloca in quest’ottica. Col Motu Proprio, lo status della Messa tridentina è di nuovo quello di una legge universale. Non si tratta più di una legge particolare, di un indulto. Ed è proprio questo che noi salutiamo, cosa che non significa che siamo d’accordo con tutto ciò che si trova nel testo, in particolare con l’idea insostenibile di due forme per una sola Messa.
Paradossalmente, mentre si riconosce la non abrogazione della Messa tridentina, si annunciano certi cambiamenti. Da un lato si dice che non bisogna confondere i riti ordinario e straordinario, dall’altro ci si aspetta che essi si fecondino reciprocamente. Si dice che è il caso di far entrare alcuni nuovi Santi, senza parlare direttamente di un nuovo calendario per la liturgia tradizionale. Ugualmente si sostiene che il nuovo lezionario potrebbe arricchire questa liturgia tradizionale…
 

NDC: Ma non si diceva che il Papa non era molto sostenuto in questa restaurazione della Messa antica, né a Roma, né nelle diocesi ?

Mons. Fellay: È vero che Benedetto XVI, per promulgare il Motu Proprio, ha dovuto affrontare delle pressioni terribili. Io ho anche sentito che il Papa avrebbe detto nel suo entourage: " Non ho mai sofferto tanto nella mia vita come con questo Motu Proprio ". Ma egli aggiungeva questa frase: " In coscienza dovevo farlo". Il Papa ci tiene, e non molla, ma non può contare sul sostegno dei vescovi.
Questa opposizione episcopale è enorme. Si sa che vi sono almeno quattro Conferenze Episcopali che, prima del Motu Proprio, hanno scritto che non lo volevano. La Francia, l’Inghilterra, la Germania e, con minore unanimità, gli Stati Uniti. I vescovi tedeschi, nel corso della loro visita ad limina hanno dichiarato molto nettamente: " Noi non vogliamo questo Motu Proprio". In questo senso hanno anche indirizzata una richiesta al Prefetto per la liturgia, il cardinale Arinze. Da questi fatti si può valutare la tenacia del Papa. Egli ha voluto veramente porre quest’atto.
Lo stesso dicasi per il pro multis della Consacrazione, tradotto nella maggior parte delle lingue volgari con " per tutti " invece che con " per molti ". In una lettera del 17 novembre 2006, il cardinale Arinze ha inviato ai Presidenti delle Conferenze Episcopali del mondo intero una richiesta di rettifica di questa traduzione erronea. Occorre sapere che questa lettera era stata preceduta da un’inchiesta. Io non ho i risultati definitivi, ma so che ad un certo momento su 35 Conferenze Episcopali che avevano risposto, solo tre erano a favore del " pro multis, per molti ", tutte le altre volevano conservare " per tutti ". Anche qui, gli oppositori sono in proporzioni enormi, e il Papa mantiene una posizione contraria, ponendo un atto che va contro la collegialità, alla quale tuttavia egli tiene. Egli affronta i vescovi, i quali non abbassano le armi, poiché, dopo la lettera, numerose Conferenze Episcopali hanno chiesto a Roma una dispensa per poter conservare il " per tutti ".
La reazione dei vescovi dopo la promulgazione del Motu Proprio l’abbiamo sotto gli occhi. Si può dire che se in linea di diritto lo status della Messa antica è cambiato, in linea di fatto nella gran parte della Chiesa è cambiato quasi niente. Quasi dappertutto i vescovi fanno tutto quello che possono per gestire la nuova situazione come se ci trovassimo ancora ai tempi dell’indulto, sottomettendo la celebrazione della Messa antica alla loro autorizzazione. In tal modo esercitano un controllo tale sul ritorno dell’antica liturgia da renderlo praticamente impossibile. Essi paralizzano il Motu Proprio. L’opposizione è così forte che Roma si vede costretta a redarre un testo per l’applicazione del Motu Proprio, che non si sa quando uscirà, né se addirittura verrà il giorno in cui potrà uscire. Recentemente ho sentito parlare di dimenticatoio per questo documento…
Continuiamo a trovarci al cospetto di un conflitto molto grave, in cui non è in ballo la Messa, ma il potere pontificio. Dal momento che Benedetto XVI è molto legato alla collegialità, adesso si trova a dover affrontare un problema, che lui stesso definisce un problema di coscienza: è obbligato ad agire contro il principio della collegialità. Il Papa si vede costretto a compiere degli atti che non compirebbe mai se non fosse messo di fronte a tali difficoltà. È per questo che dobbiamo pregare per lui.
Ci troviamo di fronte ad una nuova configurazione della crisi della Chiesa, in una situazione conflittuale relativamente acuta tra il Papa e i vescovi, di fronte alla quale noi siamo solo spettatori. Noi ci siamo sempre battuti per il ritorno della Messa antica, siamo fortemente contrari al " per tutti ", ma oggi questi elementi della nostra battaglia sono stati ripresi dal Papa, che per ciò stesso si trova in opposizione ai vescovi. Il che dà l’impressione che il Papa sia, diciamo così, dalla nostra parte. Molti dei nostri fedeli ed anche dei sacerdoti hanno questa sensazione. Ed è questo che ci fa essere molto vigili, tali da non dimenticare gli altri documenti romani che rimangono sulla linea dottrinale del Concilio. Ed è per questo che il Motu Proprio rende la situazione attuale più complicata.
In tutta evidenza, vi sono delle correzioni che vanno nella giusta direzione. Nessuno può negare che correggere il " per tutti ", ripristinando il " per molti ", vada nella giusta direzione. Così come dare maggiori possibilità alla Messa antica è cosa molto positiva. Non v’è dubbio su questo. Tuttavia, ancora una volta, questi atti non sono completi, essi non si accompagnano ad un vero ritorno alla dottrina tradizionale. Eppure, già il poco ritorno alla Tradizione, che essi esprimono, provoca  un conflitto nella Chiesa.
 

NDC: Se c'è questo divario tra l’avanzamento liturgico e l’assenza di miglioramento sul piano dottrinale, come giudicare il Motu Proprio voluto dal Papa malgrado il suo entourage?

Mons. Fellay: Possiamo solo formulare delle congetture. Benedetto XVI, malgrado tutte le sue posizioni teologiche molto moderne, sa bene che la religione deve rendere culto a Dio. Si rende anche conto che, in maniera oggi generalizzata, la nuova Messa non assolve questa funzione. La nuova Messa, così com’è celebrata comunemente è un incontro tra uomini, ma non è più il culto dovuto a Dio. Non è più adorazione. Basta vedere come si comportano i fedeli: si siedono, mangiano, è un banchetto, è una festa, ma lo spirito liturgico è morto. Con la nuova liturgia non vi è più spirito liturgico, non vi è più lo spirito del sacrificio. Questo spirito, questa relazione della creatura che deve mantenere il suo posto al cospetto di Dio, adorandolo, esprimendogli la sua sottomissione, non esiste più. E fare delle correzioni o dei rattoppi alla nuova liturgia è tempo perso.
Ora, la Chiesa, senza spirito autenticamente liturgico, spirito di adorazione e di sacrificio, viene meno alla sua missione. Occorre ritornare a questo spirito. Come farlo con la nuova liturgia ? Benedetto XVI, che per principio è contrario all’invenzione di nuove liturgie, non può che prendere in considerazione una soluzione che rifugge, poiché non l’ama e la crede impossibile: ritornare indietro. Almeno momentaneamente.
Questo ritorno all’indietro per un certo tempo, permetterebbe di fecondare la nuova Messa con l’antica, di ridarle un certo spirito liturgico. Quella famosa " riforma della riforma " che è nelle sue aspirazioni da molto tempo. Lo ripeto, si tratta solo di un’ipotesi personale, ma io non dimentico che il Papa, in uno dei suoi libri, ha scritto che considerava la nuova Messa come la causa principale della crisi della Chiesa. E se lo ha detto è perché lo crede. Anche se la sua considerazione sulla nuova Messa non è la stessa della nostra, anche se gli argomenti che egli propone contro la nuova Messa non sono i nostri, egli non ama comunque questa nuova Messa.
Egli ha parlato così spesso di questa " riforma della riforma " che non si può escludere che fosse questa la sua intenzione nel promulgare il Motu Proprio. È per questo che io non penso che ai suoi occhi questa decisione sia un atto definitivo. È una tappa per andare oltre, poiché la situazione attuale dei due riti, ordinario e straordinario, è necessariamente provvisoria.
Il fatto è che se si lascia agire la natura delle cose, se si lascia che le due Messe facciano il loro corso, è evidente che, indipendentemente dalle intenzioni del Papa, la nuova Messa è morta, in una o due generazioni. Io penso che sia questa una delle ragioni principali dell’opposizione dei vescovi. Essi lo sanno. Perché secondo loro non bisogna accordare la libertà alla Messa tradizionale? Perché questo andrebbe a sfavore della nuova. Nel 1998, dalla bocca del cardinale Medina, allora Prefetto per la liturgia, ho inteso: " Diamo le stesse possibilità ai due riti, e che vinca il migliore! "
 

NDC: E malgrado questa possibilità incoraggiante di vedere trionfare la Messa tradizionale sulla nuova, Lei dice che in fondo non è cambiato niente?

Mons. Fellay: Sfortunatamente bisogna constatare che sul piano dottrinale non è cambiato nulla, che Roma continua a seguire la stessa direzione del Concilio. Giovanni Paolo II, alla fine del suo pontificato, vedeva i sintomi della crisi, ma senza risalire alla cause, denunciava l’apostasia silenziosa delle nazioni europee senza mettere in questione l’ecumenismo promosso dal Vaticano II. Benedetto XVI, da parte sua, vede questi sintomi, e le loro cause prossime a livello liturgico, ma non vede ancora la causa profonda, che è teologica. Si ha l’impressione che il Papa voglia mantenere i principi del Concilio, separandoli dalle loro conseguenze, che gli fanno paura.
In effetti, Benedetto XVI rimane tributario dell’orientamento del Concilio Vaticano II, in cui sono stati ridefiniti i rapporti tra la Chiesa e il mondo, le altre religioni, gli Stati, e infine il rapporto della Chiesa con sé stessa. Egli ha detto che, da Papa, non rinnega il pensiero che aveva quand’era cardinale. Allora egli parlava in questi termini dell’opera del Concilio: "Il problema degli anni sessanta era di acquisire i migliori valori espressi da due secoli di cultura “liberale”. In effetti, si tratta di valori che, anche se nati fuori dalla Chiesa, possono trovare il loro posto, epurati e corretti, nella sua visione del mondo. Ed è questo che è stato fatto (1)  ". È in nome di questa assimilazione che è stata imposta una nuova visione del mondo: una visione fondamentalmente positiva, che ha ispirato, non solo il nuovo rito liturgico, ma anche un nuovo modo della Chiesa di essere presente nel mondo, più attenta ormai ai problemi umani e terreni piuttosto che alle questioni soprannaturali ed eterne…
È allo stesso modo che si è trasformata la relazione con le altre religioni, Il nuovo approccio si chiama ecumenismo, e non si tratta di un ritorno all’unità cattolica, ma della costituzione di una nuova specie di unità che non richiede più la conversione.
Come ho scritto nell’ultima Lettera agli amici della Fraternità: " Il Motu Proprio, che introduce una speranza di cambiamento in meglio a livello liturgico, non è accompagnato da misure logicamente conseguenti negli altri àmbiti della vita della Chiesa. Tutti i cambiamenti introdotti dal Concilio e dalle riforme post conciliari, che noi denunciamo appunto perché la Chiesa li ha già condannati, sono confermati. Con l’aggravante che ora si afferma nel contempo che la Chiesa non cambia… il che significa che tali cambiamenti sarebbero perfettamente in linea con la Tradizione cattolica. Lo sconvolgimento a livello dei termini unito al richiamo che la Chiesa deve rimanere fedele alla sua Tradizione possono ingannare più di una persona. Fin tanto che i fatti non conforteranno le nuove affermazioni, bisogna concludere che nulla è cambiato nella volontà di Roma di perseguire gli orientamenti conciliari, malgrado quarant’anni di crisi, malgrado i conventi spopolati, i presbiterii abbandonati, le chiese vuote ".
 

NDC: È questa nuova situazione particolarmente complessa che fa sì che non vi sia accordo possibile con Roma?

Mons. Fellay: Di fronte a questi gesti contraddittori _ riabilitazione della Messa tridentina da una parte e riaffermazione della libertà religiosa e dell’ecumenismo dall’altra _ le tappe di cui ho già parlato tante volte sono più che necessarie. Noi continuiamo a chiedere al Papa il ritiro del decreto di scomunica che colpisce i vescovi ordinati da Mons. Lefebvre nel 1988. Persistiamo nella nostra richiesta di discussioni dottrinali prima di ogni accordo con Roma.
 

NDC: Delle discussioni dottrinali per convertire Roma ?

Mons. Fellay: No, non abbiamo questa pretesa. Noi desideriamo solo aiutare Roma a ritrovare la sua Tradizione. Non vogliamo portare chicchessia ad adottare delle posizioni personali che non abbiamo. Come ha fatto incidere sulla sua pietra tombale il nostro fondatore, Mons. Lefebvre, noi non facciamo che trasmettere ciò che abbiamo ricevuto.
Ma trascurare i problemi dottrinali è impossibile. Lo si vede bene col Motu Proprio che non vuol tenere conto delle divergenze teologiche che esistono tra la Messa antica e quella nuova. I vescovi hanno ben presenti queste divergenze e tollerano la Messa antica a condizione che non comporti una rimessa in causa della dottrina conciliare. Per onestà intellettuale non si può mantenere un tale equivoco, occorre chiarire le questioni dottrinali.
In un articolo sull’Osservatore Romano del 28 marzo scorso, il cardinale Castrillon Hoyos ha lasciato credere che la critica ai testi conciliari da parte della Fraternità San Pio X riguardasse solo la loro mancanza di chiarezza. Secondo lui, le difficoltà sono solo interpretative, riguardano solo alcuni gesti ecumenici, ma non l’insegnamento stesso del Vaticano II. Questo non è esatto. La nostra critica del Concilio non è una semplice questione di interpretazione soggettiva.  A fronte delle interpretazioni differenti e spesso divergenti vi è il contenuto oggettivo dei documenti conciliari sulla libertà religiosa, la collegialità e l’ecumenismo, che non si limita a dei " gesti ", ma costituisce pienamente una dottrina in contraddizione con la Tradizione della Chiesa.
A questo proposito, ci tengo a smentire l’affermazione del cardinale secondo la quale io avrei espressamente riconosciuto il Concilio Vaticano II, in particolare in occasione dell’udienza che Benedetto XVI mi concesse il 29 agosto del 2005. Io riconosco con facilità il fatto storico del Vaticano II, ma non accetto di riconoscere la sua totale conformità con " ciò che è stato creduto sempre, dappertutto e da tutti " nella Chiesa. E se il Santo Padre ha effettivamente affrontato l’argomento, io non né ho parlato all’udienza.
 

NDC: Ma perché chiede il ritiro del decreto di scomunica prima di iniziare queste discussioni dottrinali ?

Mons. Fellay: Di fatto, noi non accordiamo alcun valore canonico a queste scomuniche seguite alle ordinazioni del 1988, che erano dettate da uno stato di necessità. Ma non c’è bisogno di essere dei grandi esperti per constatare la loro efficacia mediatica, e più ancora i loro effetti devastanti sul piano pastorale. Basta dire ‘Ecône’ o ‘Mons. Lefebvre’ per essere immediatamente squalificati o demonizzati. La stessa Roma è vittima di questa demonizzazione allorché vuole fare qualcosa per la Tradizione. I giornalisti apostrofano subito le autorità romane di ‘tradizionaliste’ o le sospettano di essere influenzati dai ‘lefebvriani’.
Se questo decreto di scomunica viene ritirato, diventa possibile “fare l’esperienza della Tradizione”, come auspicava Mons. Lefebvre, e cioè sarà possibile giudicare dai suoi frutti la Tradizione finalmente non più demonizzata. Dico proprio dai ‘suoi frutti’, dai suoi risultati, e non dalle etichette infamanti che le si appiccicano troppo facilmente.
Non credo che questa sia una soluzione utopica, credo invece che sia profondamente realista, perché tiene conto delle circostanze concrete della attuale situazione della Chiesa. Già nella Lettera agli Amici della Fraternità, di Natale 2004, citavo la proposta che avevo fatto, il 6 giugno precedente, al cardinale Castrillon: " La Santa Sede potrebbe osservare ed esaminare il nostro sviluppo senza che si abbia ancora un qualche impegno delle due parti ". Si tratterebbe di una tappa intermedia nella quale la Fraternità non sarebbe né scomunicata, né riconosciuta canonicamente, ma questo stato, senza essere regolare nei confronti del diritto canonico, sarebbe già un miglioramento che permetterebbe di giudicare l’albero dai suoi frutti. Tutti potrebbero osservare con uno sguardo più sereno questa Tradizione che ha prodotto tutti i Santi della Chiesa, e così la Tradizione sarebbe avvicinabile da tutti e potrebbe dare un’immensa speranza ad una folla di cattolici completamente disillusi. Significherebbe riaprire una grande porta alla Tradizione per tutta la Chiesa.
Questo comporterebbe una indipendenza di fatto rispetto alle Conferenze Episcopali, e questa indipendenza è indispensabile quando si vede l’opposizione dei vescovi riguardo ad alcuni gesti che Benedetto XVI ha compiuto a favore della Tradizione. Basta guardare alla situazione delle comunità Ecclesia Dei in seno alle diocesi. Benché ufficialmente riconosciute da Roma, esse sono autorizzate ad esercitare sul posto solo un ministero tradizionale a libertà sorvegliata; sono tenute ad osservare uno stretto dovere di riserbo di fronte alle fantasie liturgiche e teologiche che sono presenti nelle diocesi che le accolgono. In concreto la Fraternità San Pio X è più libera di fare del bene di quanto lo siano queste comunità.
 

NDC: Perché lo scorso aprile Lei ha lanciato una nuova crociata del Rosario ?

Mons. Fellay: Indubbiamente possiamo sentirci incoraggiati per la precedente campagna di Rosari per ottenere la libertà per la Messa tradizionale. Speravamo di raccogliere un milione di Rosari e siamo arrivati a due milioni. Il risultato, come si sa, fu il riconoscimento ufficiale che la Messa per cui ci battiamo da quarant’anni non è mai stata abrogata.
Ma soprattutto, io sono intimamente convinto che la soluzione della crisi che scuote la Chiesa non possa essere ottenuta con dei mezzi puramente umani, diplomatici o altro. La battaglia per la fede si conduce necessariamente con la preghiera. L’opera di Mons. Lefebvre ha il solo scopo della restaurazione di tutte le cose in Cristo: instaurare omnia in Christo, e questo si può fare solo con Cristo, cum Christo, e la sua santissima Madre, cum Maria.
Se io lancio d'ora in avanti una crociata permanente è perché oggi è necessario compiere uno sforzo non occasionale, ma costante e perseverante, all’altezza di ciò che è in giuoco. La battaglia per la fede di sempre non può condursi con dei combattenti di un giorno, stagionali o intermittenti. Occorrono dei fedeli resistenti.
Questa battaglia attiene alla durata, ma con degli obiettivi precisi: l’ultima volta abbiamo pregato per la libertà della Messa, adesso chiediamo alla Santa Vergine il ritiro del decreto di scomunica, e cioè la liberazione della Tradizione. Più avanti avremo degli altri obiettivi, altre intenzioni di preghiera.
Occorre anche che questa crociata, come la precedente, sia ben organizzata dai sacerdoti nei loro priorati e nelle loro cappelle. Ogni fedele deve potersi iscrivere e impegnarsi per la recita di un Rosario ad una data ora del giorno e per una durata definita: un mese, un trimestre… Visto il numero dei fedeli legati alla Tradizione e la loro distribuzione nel mondo intero, possiamo stare certi che ad ogni ora del giorno e della notte vi saranno delle anime che pregano per la liberazione della Tradizione, in un immenso Rosario perpetuo.
 

NDC: Malgrado tutto, non teme la stanchezza, lo scoraggiamento ?

Mons. Fellay: Questo dipende a chi ci si rivolge. Credo che vi siano tre tipi di uomini. Quelli che dicono che è la fine del mondo, che Benedetto XVI è l’ultimo Papa, che dopo di lui ci sarà l’Anticristo. Costoro si credono dispensati dall’intraprendere checchesia. Essi non conoscono la stanchezza.
Ve ne sono poi altri che aspettano pazientemente, ma soprattutto passivamente, che la crisi si risolva miracolosamente. Essi non provano scoraggiamento, poiché per loro tutte le anime saranno un giorno istantaneamente convertite, tutti gli spiriti aderiranno senza problemi alla verità, tutti i cuori si volgeranno immediatamente al bene. Certo, Dio può far tutto con la sua potenza assoluta; per Lui niente è impossibile. Ma in termini di potenza ordinata, e cioè tenendo conto della saggezza della Sua provvidenza, non si è mai visto che le crisi della Chiesa si siano risolte così. Dio suscita dei riformatori, e la riforma non si compie da sola.
Noi ci poniamo nella prospettiva che può osservarsi in tutta la storia della Chiesa, in base alla quale il miglioramento è graduale, con degli alti e dei bassi, delle vittorie e delle sconfitte. A poco a poco il Buon Dio farà trionfare la sua grazia, per mezzo di un certo numero di anime fedeli che non si sono risparmiate. Quanto dovrà durare tutto questo? Non si sa! Ma il miglioramento è graduale e noi non amiamo questa gradualità, preferiamo che tutto sia chiaro e netto, non apprezziamo le situazioni intermedie, i chiaro-scuri.
E tuttavia è di questo che facciamo esperienza personalmente ogni volta che ci sforziamo di condurre o di ricondurre un’anima alla verità. Quest’anima non si converte d’un sol colpo, accetta una verità, poi ne ammette un’altra, fino al giorno in cui sarà interamente convertita. Mutatis mutandis, è la stessa cosa con questi uomini di Chiesa, di cui bisogna riconquistare le intelligenze e i cuori in omni patientia et doctrina, come ci invita a fare San Paolo, con tanta pazienza e con la cura permanente di istruire. Ecco, bisogna premunirsi contro la tentazione dello scoraggiamento.
Quanto tempo durerà tutto questo? Ancora una volta non lo so! Vi sono più preti che, non solo dicono la Messa antica, ma ritrovano la dottrina tradizionale, poiché le due cose vanno di pari passo. E questo è molto incoraggiante. Per i vescovi la cosa è più difficile, poiché essi non sono liberi. Un vescovo, fin tanto che è nel sistema, oggi quasi non può agire; i suoi confratelli lo strapazzeranno… in nome della collegialità.
In che modo miglioreranno le cose? Io credo che per rispondere basti guardare come si siano avviate . Qua e là vi sono dei piccoli isolotti di cristianità, scuole, movimenti famigliari, associazioni professionali, gruppi di formazione civica, che crescono e si moltiplicano. Lentamente, ma sicuramente. Non minimizziamo l’importanza dell’esempio che i sacerdoti e i fedeli legati alla Tradizione possono dare a coloro che hanno perduto ogni riferimento intellettuale e morale nel mondo scristianizzato in cui viviamo. Essi non ci ascoltano perché noi non li istruiamo, ma ci osservano ed è per questo che dobbiamo dare loro un esempio. Quello della Tradizione, non vivente, ma pienamente vissuta nel quotidiano. I conciliari parlano di Tradizione vivente, possano i tradizionalisti mostrare senza parole, ma con i fatti, la tradizione che si vive in famiglia, al lavoro, nella città! Le parole volano, gli esempi attirano.
L’importante è osservare bene la direzione nella quale va  lo slancio dato da Mons. Lefebvre. Se si fa un bilancio degli ultimi quarant’anni, diciamo da dopo il nostro rifiuto della nuova Messa, si vede che la situazione della Tradizione è migliorata. Ove si dice oggi la Messa tridentina nel corso del pellegrinaggio a Lourdes? Fuori o dentro la basilica? E a Lisieux? Fuori o dentro? Questo è più di un simbolo, è la realtà.
E si potrebbe essere ancora un poco scettici. Allora io mi taccio, e lascio parlare quelli che a Roma riconoscono che noi lavoriamo  per la Chiesa. Un prelato mi diceva: " Senza la Fraternità San Pio X il Motu Proprio sarebbe stato impossibile ". Ai suoi occhi, dunque, far ritornare oggi la Messa tradizionale nella Chiesa sarebbe stato impossibile senza la Fraternità.
Un religioso mi dichiarava: " La Fraternità è la sola entità che oggi può porre le vere questioni alla Chiesa ". È questo per noi motivo di vanità? No, è una responsabilità alla quale non possiamo sottrarci, perché dovremo renderne conto. Ma è anche un incoraggiamento a proseguire la battaglia per la fede, senza stancarci.

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NOTE
1 - Ratzinger - Messori, Rapporto sulla fede , Paoline, 1985, p. 34. (torna su)
 



giugno  2008

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