SANTA MESSA TRADIZIONALE

Roma 24 maggio 2003

Basilica di S. Maria Maggiore
 

RASSEGNA STAMPA
 
 

Articoli e segnalazioni prima della celebrazione
 

24 aprile 2003 - La Padania


La liturgia della Tradizione adesso ritorni in ogni diocesi

La riabilitazione del rito antico in Vaticano vuol dire che i fedeli devono avere diritto di scelta

Intervista a Don Gianni Baget Bozzo

Di Giulio Ferrari

La messa dei nostri padri, quella pregna di sacralità, cantata in gregoriano e col celebrante rivolto al Tabernacolo a far da tramite tra i fedeli e il Signore, deve tornare in tutte le diocesi. Non ha dubbi don Gianni Baget Bozzo, consigliere molto ascoltato del premier Berlusconi, schierato coi difensori della tradizione cattolica ai tempi del Concilio Vaticano II. Ad accendere l’entusiasmo del vecchio ma battagliero prete è la notizia che la bimillenari a liturgia cattolica, codificata in perfetta sintonia con la prassi e la dottrina del grande Concilio di Trento, riguadagnerà l’altare con tutti gli onori.
Sabato 24 maggio alle ore 15,30, nell’arcibasilica romana di Santa Maria Maggiore, il cardinale Dario Castrillon Hoyos officerà la santa messa tradizionale. Un avvenimento che sta galvanizzando i tradizionalisti di tutta la Penisola e quei tanti fedeli che all’antica liturgia hanno legato i ricordi più belli della loro vita.

G. F. - DonBaget Bozzo, è la prima volta dal 1970 che un cardinale, prefetto in carica, celebra pubblicamente una santa messa in rito tridentino in una basilica pontificia. Ci sono voluti 30 anni per infrangere un tabù?
D. G. B. B. - Per l’esattezza non si tratta di un tabù, perché Giovanni Paolo II, col motu proprio Ecclesia Dei, ne aveva concesso la celebrazione con l’accordo degli ordinari del luogo. E’ vero, però, che molti vescovi hanno risposto negativamente alle richieste dei fedeli, mentre avrebbero dovuto concedere quello che, per volontà dello stesso Pontefice, è giusto riconoscere alla stregua di un diritto. Evidentemente c’è il timore che l’accettazione della liturgia tradizionale fosse interpretata come un rigetto dello spirito conciliare. Certamente si tratta di un abuso, anche perché il Concilio Vaticano II in realtà non ha mai abolito il rito preesistente.

G. F. - Sta di fatto che ai fedeli non è stato concesso di scegliere. In Italia solo un vescovo su dieci ha messo a disposizione una chiesa dove celebrare regolarmente la messa tridentina. Il segnale che giunge da Roma, sicuramente per volontà del Papa, apre nuove prospettive?
D. G. B. B. - A questo punto, la prospettiva migliore possibile è che ogni vescovo, in ogni diocesi, consenta la svolgimento di almeno una funzione tradizionale. E’ una eventualità che, personalmente, caldeggio di cuore. Certo, si tratterebbe di venire incontro a una particolare sensibilità ancora presente tra i fedeli, ma penso che l’iniziativa partita dal Vaticano si inserisca anche in un altro scenario.

G. F. - Quale?
D. G. B. B. - Quello della riconciliazione con la Fraternità sacerdotale San Pio X, fondata dall’arcivescovo francese Marcel Lefebvre. Nei giorni scorsi su Times c’erano delle indiscrezioni al riguardo. In Vaticano avrebbero trovato anche la formula per garantire ai vescovi, ai sacerdoti e ai fedeli tradizionalisti di mantenere la propria identità con una certa autonomia. Si tratta di riconoscere al superiore generale  della Fraternità (mons. Bernard Fellay. Ndr) l’amministrazione di una prelatura personale, cioè il diritto di esercitare la sua autorità sui propri sacerdoti e sui propri fedeli. In questo contesto, verrebbe ufficialmente riconosciuta la sua investitura episcopale, come quella degli altri tre vescovi ordinati dall’arcivescovo Lefebvre senza il consenso di Roma. Potrebbe essere la conclusione dello scisma. Naturalmente la Fraternità sacerdotale San Pio X dovrebbe proclamare l’accettazione del Concilio Vaticano II.

G. F. - Questo non significherebbe riconoscere per buone le tante disinvolture seguite all’applicazione dell’ultimo Concilio. Lei stesso, che nell’epoca era uno stretto collaboratore del cardinale Siri, capofila degli opposotori a molte innovazioni, in più occasioni non ha nascosto perplessità e delusione. Quali sono, a suo giudizio, i danni causati alla Chiesa, direttamente o meno, dal Vaticano II?
D. G. B. B. - Alla base di tutti i problemi c’è l’idea stessa di “aggiornamento”. La Chiesa poggia sulla tradizione, cambiare linguaggio, per adeguarsi a quello della società ha comportato che ogni teologo si ritenesse in diritto di fare teologia secondo il proprio gusto. Ne è derivata l’attuale incertezza generale, questo clima di relativismo che è stato il peggior danno per la fede. Una situazione aggravata dall’introduzione dell’inaudito principio della collegialità dei vescovi. La Chiesa è diventata per un certo verso un organismo assembleare, con una perdita di autorità del Papa rispetto alla Chiesa universale e del vescovo rispetto a quella locale. Lo stesso Paolo VI aveva sottolineato che la collegialità non doveva trascendere dal suo valore puramente morale, ma non è stato così.

G. F. - Anche nella liturgia oggi sono presenti molti optional. Non esiste più una messa universale come prima, in questo senso veramente cattolica. Non le pare che ogni sacerdote ormai si senta in diritto di metterci del suo?
D. G. B. B. - Indubbiamente è così. Oggi non c’è più la messa, ci sono migliaia di messe diverse. Una prassi che tra l’altro contraddice la legge e che segna una grave frattura con la tradizione. E questo è grave, perché la Chiesa è tradizione. Riproporre la liturgia antica, come da tempo va dicendo il cardinale Ratzinger, potrebbe servire a ricordare questa fondamentale verità.
 

(su)


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