SANTA MESSA TRADIZIONALE

Roma 24 maggio 2003

Basilica di S. Maria Maggiore
 

A margine della celebrazione:
piccoli veleni

Riceviamo, e pubblichiamo, una illuminante nota apparsa su Avvenire, a firma del solito Ravasi.
Data la supponenza della nota, abbiamo pensato che fosse utile commentarla.



 
 

Avvenire
12 Giugno 2003 
MATTUTINO
tradizione e rivoluzione

Una società in cui il culto della tradizione sia onnipotente è condannata alla stagnazione. Una società in cui la ribellione contro la tradizione sia universale è condannata all'annientamento. Le società producono sempre sia lo spirito della conservazione, sia lo spirito della rivoluzione: entrambi sono necessari. 
Così scriveva nel 1970 uno dei più significativi filosofi del '900, il polacco Leszek Kolakowski. Quella che egli descrive è un’esperienza che non regge solo le società ma anche le stesse Chiese e, per certi versi, la vicenda personale di ciascuno di noi. Da un lato, c'è l'eredità che si è ricevuto e che contiene semi vitali che continuano a generare ma che trascina con sé anche molti detriti pesanti e soffocanti. D'altro lato, c'è il fremito della vita e della storia che continua a progredire, a inoltrarsi nel futuro, a dischiudere scenari sempre nuovi, ma che ci vota all'incertezza. Se ci si ferma in una gretta conservazione del passato, si cade nell'immobilismo, nell'atteggiamento nostalgico, nella stagnazione: basti solo, come esempio, pensare a certi rigurgiti "passatisti" in ambito religioso, sul modello lefebvriano, ultraconservatore e fondamentalista. 
Se, invece, ci si abbandona alla demolizione di tutto il passato, tagliando le proprie radici culturali e spirituali, indulgendo a mode sempre più inconsistenti e mutevoli, ci si incammina verso il relativismo, la banalità, l'annientamento dei valori. Spirito di fedeltà e spirito di novità dovrebbero stare insieme, proprio come accade nella natura che all'evoluzione intreccia una permanenza di fondo. Tenere questo equilibrio - prima di tutto per noi stessi - non è facile, ma è necessario, se non si vuole cadere nella gelida fissità o nella frenesia confusa. 

Gianfranco Ravasi

C’è un tizio, in quel di Milano, un certo Gianfranco Ravasi, che di mestiere fa il prete.
Niente di eccezionale, di tizii che di mestiere fanno il prete, in questi ultimi decenni, ne sono sorti tanti. Ma il nostro non è un tizio qualsiasi, bensì un tipo che, pare, abbia letto molto, anzi, pare che abbia letto di tutto. Indubbiamente ha letto molti libri di religione, tant’è che gli hanno dato il diploma di prete, ma, da come vuol far capire con le sue continue citazioni, pare che abbia letto molti più libri areligiosi e antireligiosi. Forse è per questo che capita di trovarlo, anche ritratto, ad ogni pie’ sospinto. 
Non appena apri un giornale pubblicato da gente di chiesa, ecco che ti ritrovi il nostro supererudito che ti cita il Vangelo e Carlo Marx, il Profeta Isaia e il sociologo Pinco Pallino: il tutto con una padronanza ed una conoscenza dei testi che sbalordisce. 
E’ proprio un pozzo di scienza.
E noi ce ne interessiamo, ogni tanto, proprio per questa sua dimostrata capacità di mettere insieme la parola di Dio e l’opinione di Pasquino. Ed è tanto bravo in quest’opera di rimescolamento che, ormai dopo tanti anni, nemmeno lui riesce più a capire quali sono le cose che attengono a Dio e quelle che attengono a Pasquino.

Un amico ci ha inviato una “perla” della sua abissale erudizione e della sua terrificante capacità di sintesi. Basta leggerla, per rendersi conto che si ha a che fare davvero con un abisso di conoscenza.

Dopo averci propinato la solita citazione di un “filosofo”, il nostro vi si appoggia per dire delle cose incredibili, facendole passare, ovviamente, per cose serie, visto che per mestiere fa il prete e che scrive sul giornale dei preti.
Secondo il citato “filosofo” e il suo mentore, il “culto della tradizione” è uguale alla “stagnazione”, mentre le società che si ribellano universalmente alla tradizione si votano all’annientamento. La virtù sta nel mezzo, poiché conservazione e rivoluzione sono entrambe necessarie.
Ora, quello che stupisce è che si possa dare per scontato che il termine “tradizione” possa avere un suo correlativo nel termine “rivoluzione”. Anche un bambino capisce che la tradizione è semplicemente la trasmissione di un quid di ordine sovraindividuale e sovraumano, mentre la rivoluzione è, altrettanto semplicemente, lo sconvolgimento della tradizione. Fra i due termini non si può stabilire alcuna comparazione, perché l’uno è esclusivo dell’altro.
Sostenere quindi, come fa il Ravasi, la necessità della coesistenza della tradizione e della rivoluzione significa semplicemente sostenere una impossibilità: perché ove ci sia l’una l’altra viene eslusa.
Per fare un esempio, si potrebbe dire che, secondo Ravasi, la migliore condizione per un organismo vivente è quella di far convivere in sé il processo tradizionale del rinnovamento cellulare ordinato e finalizzato, insieme col processo rivoluzionario delle neoplasie. Sarà pure un genio, Ravasi, ma quando ha mai visto un essere vivente crescere nel pieno del suo rigoglio mentre è afflitto da un cancro?

Quando poi ci viene a spiegare che le società, le chiese e noi stessi siamo “retti” da delle “esperienze”, troviamo conferma del sospetto che il nostro di religione ne sa proprio poco. Anche i moderni superscientisti hanno dovuto convenire che l’esistenza, e quindi la vita di qualcosa o di qualcuno, sono “rette” da una serie di fattori che si caratterizzano innanzi tutto per la loro “stabilità”. Da un “fondamento”, quindi. Ravasi, invece, continua a credere che la sua vicenda personale, al pari delle società e delle chiese, si regga sull’esperienza, e cioè su un casuale divenire che si svolge secondo la più ampia delle indeterminatezze. 
Non solo c’è da chiedersi come mai sia riuscito a prendere il diploma da prete, ma chi mai gli abbia potuto permettere una cosa del genere.
Se la sua “vicenda personale” è retta dall’esperienza, la sua non potrà mai essere una professione di fede, bensì una semplice “esperienza religiosa”, che, detta in parole povere, è l’equivalente della “religione individuale e personale”, cioè della non religione. In questo modo il nostro rivela con tutta leggerezza che la sua vita non è costituita dallo svolgersi ordinato di un processo che fondato su Dio conduce a Dio, bensì dal susseguirsi di “esperienze” conservatrici e rivoluzionarie, in un continuo andamento contraddittorio fondato sulle sue opinioni e scaturente in un aggrovigliarsi di accadimenti vitali e di accidenti cancerogeni. Come prete, non c’è che dire: è di una esemplarità veramente unica.

Ma, per quanto possa sembrare inconsistente, in fondo il Ravasi non fa altro che preparare il terreno per le sue battute finali, per giungere al centro al suo vero obiettivo.

Dopo averci propinato la storiella che per star bene bisogna avere il cancro, ecco che ci ricorda che la nostra eredità trascina con sé detriti pesanti e soffocanti. Come dire: la tradizione ha qualcosa di buono, ma, attenzione, non tutto, perché bisogna liberarsi da tante cose che porta con sé e che rischiano di schiacciarci e di soffocarci.
Questa nuova storiella somiglia tanto all’eredità accettata col beneficio d’inventario: accetto tutti i crediti, ma rifiuto tutti i debiti, ovviamente, sulla base della mia convenienza.
Ora, qui, purtroppo, non si tratta di un semplice lascito, ma della tradizione: così che, seguendo il filo logico di Ravasi, io sarò pure figlio di mio padre, ma se a conti fatti questo padre non mi sta bene, ho il dovere di scartare questo detrito pesante e soffocante. Quasi che avendo sott’occhio il quarto comandemento, il Ravasi lo leggesse così: scegli il padre e la madre.

Ma dove vuole andare a parare, il Ravasi, con queste sue cantonate?

Ce lo spiega subito dopo: nei rigurgiti passatisti di tipo lefebvriano, ultraconservatore e fondamentalista.
Era questo lo scopo della sua nota su Avvenire
Dopo essere rimasto per qualche settimana a leccarsi le ferite in lui prodottesi dopo la celebrazione della S. Messa tradizionale del 24 maggio a Santa Maria Maggiore, ecco che, con sintesi mirabile, centra il nocciolo del problema. 
Il culto della tradizione è deleterio, l’ideale per un cattolico è l’allevamento del cancro e la sua diffusione a largo raggio, l’esempio del male che affligge la Chiesa è l’ultraconservatorismo e il fondamentalismo dei lefebvriani. 
In quattro parole ti centra e ti risolve il problema.

Rigurgiti passatisti: come dire che la lettura del Vangelo tutte le domeniche è veramente quanto di più pericoloso ci possa essere per la salute dell’uomo. Roba di venti secoli fa! Figuriamoci! 
Con un po’ di fortuna arriveremo a leggere in chiesa qualche passo di Ravasi, così il cancro potrà diffondersi con tutta tranquillità.

Ultraconservatore e fondamentalista. Ecco una battuta da quattro soldi che ha fatto fortuna. 
Se si vuole mettere in cattiva luce qualcuno, senza entrare minimamente e seriamente nelle sue argomentazioni, basta appiccicargli addosso l’etichetta di fondamentalista. Il giuoco è fatto. Da quel momento quel qualcuno diventa un reietto della società.
Ma stavolta il Ravasi esagera: fa finta di dimenticare che la S. Messa del 24 maggio a Roma (se la ricordi questa data, il nostro!) è stata celebrata dal Cardinale Castrillon che, non lo dimentichi!, è il suo più alto superiore gerarchico, il Prefetto per il Clero; e questo suo superiore ha celebrato quella S. Messa con l’esplicito avallo del Capo della Chiesa, e quindi anche suo: il Papa. Se, quindi, rigurgito c’è: è un rigurgito passatista che riguarda il Papa, e se c’è manifestazione ultraconservatrice e fondamentalista anch’essa riguarda il Papa.

Che facciamo, Ravasi, licenziamo il Papa?!
Ce lo dica, caro Ravasi, che facciamo? Che possiamo fare per salvarci?  Cosa ci consiglia per alimentare il cancro del modernismo e della rivoluzione? 
Affidarci a lei? No, guardi, non se ne parla! Figuriamoci! Dopo decenni del suo predicare rivoluzioni ecco dove siamo andati a parare: a Santa Maria Maggiore con una S. Messa fondamentalista! Figuriamoci! Quelli come lei hanno fallito!

Ma, a onor del vero, il Ravasi è un tizio equilibrato: ci ammonisce che non bisogna demolire “tutto” il passato. Basta demolirne quel tanto che serve a fare allignare il cancro.
D’altronde, se si demolisse tutto il passato si ucciderebbe di colpo il paziente, ed allora il cancro non avrebbe di che alimentarsi. Per far vivere la rivoluzione è necessario che si mantenga in vita il corpo entro cui la si vuole iniettare. Il non plus ultra dell’esistenza è questa continua tortura di un corpo sano che deve vivere continuamente afflitto da un male pernicioso e incurabile. Questo, dice il Ravasi, si chiama evoluzione.

Spirito di fedeltà e spirito di novità dovrebbero stare insieme, sentenzia il nostro.
Dobbiamo preoccuparci di essere fedeli, ma non troppo, per lasciare posto alle novità. Un po’ fedeli e un po’ infedeli. Ma più infedeli che fedeli, dice il nostro. Perché ciò che deve primeggiare è l’evoluzione, che si intreccia con una permanenza di fondo. Di fondo!?
Fondo: la parte inferiore di qualcosa;  da non confondersi con la parte più riposta e intima di qualcosa, perché altrimenti si scade nel fondamentalismo. E Ravasi si arrabbia!

E conclude, illuminandoci: E’ necessario tenere in equilibrio fedeltà e novità, pena la gelida fissità o la frenesia convulsa. 
Sagge parole!
Da un lato c’é la fissità, che è gelida, come il ghiaccio, dall’altro c’è la frenesia, che, logicamente, si deve presupporre essere bollente, come il vapore. E che ti propina il nostro?
Che l’optimum è tenere in equilibrio il ghiaccio col vapore. Che mago, questo Ravasi!

Veda, caro Ravasi, il Signore ha già disposto, in natura, questo equilibrio; non c’è alcun bisogno di andare a scuola da “ravasi” per apprendere come si fa. E non è una cosa difficile! Tutt’altro. Ma a condizione che non si pretenda di inventare l’acqua. 
Solo che l’acqua, l’equilibrio, non è suscettibile di essere minimamente scossa dalla rivoluzione. Per quanto la si sottoponga ai più grandi scuotimenti, alla fine l’acqua torna esattamente come prima. Dello scuotimento, della rivoluzione, non resta più traccia, nell’acqua.
Veda, caro Ravasi, la tradizione è come l’acqua, niente può cambiarla, neanche le sue rivoluzioni. Purtroppo, però, le sue rivoluzioni possono produrre dei grossi danni: come l’acqua che, scossa, può spazzare via tutto ciò che incontra. Ma non è colpa dell’acqua, è colpa della rivoluzione: tant’è che l’acqua alla fine torna come prima, della rivoluzione non v’è più traccia, e ciò che rimane è lo sfacelo provocato dalla rivoluzione: esattamente come il cancro. Come il suo cancro!
 



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