DANTE

LA DIVINA COMMEDIA
TRA SACRA SCRITTURA
PATRISTICA E SCOLASTICA

      

Prof. Luciano Pranzetti, Dante - La Divina Commedia tra Sacra Scrittura, Patristica e Scolastica, tre volumi (Inferno, Purgatorio, Paradiso), edizione in proprio, 2016, presso l'Autore: lucianopranzetti@alice.it

Sono disponibili presso l'Autore:

il primo volume, Inferno, in seconda edizione ampliata, pp-74
il secondo volume, Purgatorio, pp. 120

Un brillante lavoro incentrato sull'opera maggiore di Dante Aligheri: quella “Commedia” che Boccaccio volle qualificare come “Divina”, sia per l'eccellenza del lavoro del nostro sommo poeta, sia e soprattutto per la valenza teo-logica dell'opera, che rimane come un esempio dell'ortodossia cattolica di Dante, a prova di esilio e di sventura, e come la dimostrazione di una fede di fronte alla quale quella dei moderni pastori impallidisce.

Su queste basi, il prezioso lavoro del Pranzetti si rivela come un intervento apologetico condotto attraverso l’escussione di una poesìa in cui lirica, musicalità, potenza ideale si intrecciano con una limpida fede connotata dalla grandezza del tomismo.

Per gentile concessione dell'Autore,
pubblichiamo di seguito la nota e l'introduzione del libro.



Nota dell'Autore

Questo studio, causa l’abbondanza di materiale inventariato, si articola per tre distinti volumi, uno per cantica, sì da rendere spedita la lettura e favorire una migliore presa mnestica e concettuale. I riferimenti biblici e patristici, che vengono riportati in corrispondenza ai relativi versi della Commedia, sono, differentemente dal nostro precedente studio “Dante/Virgilio – corrispondenze stilistiche - ed. 2012”, riportati nella nostra traduzione italiana dacché l’intento di questa indagine non è offrire un prodotto di esclusivo taglio filologico a beneficio dei soli “iniziati” specialisti in letteratura latina e greca o degli studenti della classicità, ma anche quello divulgativo, aprendo cioè a tutti perché “il pan de li angeli” (Par. II, 11) dell’ortodossìa sia quanto più largamente distribuito mediante un agile accesso alle fonti con che rendere chiara mostra dell’alta fede di Dante e, non meno importante, fungere anche come forma di catechesi rinvigorita o di ritorno.
  
Con sì fatto scopo ne viene che al lettore è offerta, contemporaneamente, congrua occasione per rassodare e irrobustire la propria cattolicità se credente o, se agnostico, per rettificare erronee convinzioni, non tacendo, poi, l’accoglimento della bellezza della poesìa e della lingua dantiana sublimata e sostanziata dalla teologìa.  Altri scopi non sono stati  contemplati perché questo studio sarebbe caduto nella totalità dantiana, nella sua complessa vastità risultando, così, olistico ma generico e vago.
    
Il fine principale, e lo diremo nell’introduzione con più ampio spiegamento di argomenti, è quello di presentare Dante paladino ed  assertore dell’ortodossìa cattolica, poeta sacro e nostra maggior musa.
  
Ci siamo largamente serviti, per questa nostra raccolta, del vasto e puntuale commento della prof.ssa A. Maria Chiavacci Leonardi: “DANTE ALIGHIERI:  LA DIVINA COMMEDIA  Ed. Mondadori 1991 – i Meridiani”, nonché di altre edizioni e non meno della nostra eccellente conoscenza biblico-teologica, massime quella tomista, con la quale abbiamo colmato vuoti palesi, omissioni e rettificato citazioni erronee.
 

INTRODUZIONE


I

Imbattersi, nella Divina Commedia, in passi, citazioni, riferimenti, còlti dalla Sacra Scrittura (V. T. e N. T)  e dalla Patristica, è cosa del tutto ovvia dacché il poema svolge il tema dell’escatologìa, vale a dire i novissimi, la condizione ultima ed eterna dell’uomo, le realtà ultraterrene nella prospettiva di fede cristiana, un tema svolto da un autore, Dante, totalmente immerso nella dimensione di questa fede e marcata col sigillo dell’ortodossìa cattolica. Ciò spiega la notevole quantità di riscontri che, in tutte e tre le cantiche, si susseguono a ribadire siffatta identità senza segni di ambagi, di dubbî, di esitanze o di equivoci.

Si consideri, quindi, il presente lavoro, così come il nostro precedente: “Dante/Virgilio – Corrispondenze stilistiche  – 2012”, quale ulteriore, appassionata ricerca e conseguente catalogazione dei passi della Divina Commedia nelle cui terzine si rivelano, appunto,  citazioni, figure, costrutti lessicali, affinità stilistiche, risonanze, assonanze, varianti e riferimenti relativi alle innumeri pericopi della Sacra Scrittura (V. T. – N. T.) e della Patristica che ne dimostrano non solo la conoscenza perspicua di Dante ma, soprattutto, la sua accettazione e la sua sequela.

La lettura dei molti antichi e moderni commenti, la consultazione delle tante edizioni del “sacrato poema” (Par. XXIII,62) e, non meno ancora, la nostra solida familiarità con la stessa letteratura biblico/patristica, ci hanno consentito una raccolta di echi e di rimandi in copia notevole talché la maggior mèsse dei quali, lo scriviamo con onesta semplicità, è tratta dai numerosi testi e dalle varie “Lecturae Dantis”, mentre una più che discreta quantità, assente anche nelle più aggiornate ed esaustive edizioni della Commedia, è prodotto, come dicemmo poc’anzi, dalla nostra personale  e diretta conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa.

Ne vien fuori, ma già era ed è più che acclarato, un Dante di limpida, inconcussa ortodossìa cristiano/cattolica, gran conoscitore della  Bibbia e, soprattutto, dei più autorevoli Santi Padri e Dottori, in specie San Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae) e, in misura minore, Sant’Agostino (De Civitate Dei). Talora, di entrambi ma soprattutto di San Tommaso – del cui pensiero è impregnata l’intera Commedia - Dante allega brani e periodi di precisa corrispondenza ma talora anche citazioni e riferimenti di vasta trattazione, e di estesa lettura, che non abbiamo inserito perché avremmo dovuto indicare non tanto le pericopi precise quanto dare largo riscontro alle sole “questiones” o ai capitoli o ai titoli.

Il santo teologo domenicano e il poeta sembrano rispondersi pur se la vita di uno fu ben distinta da quella dell’altro. Mistica, casta, solitaria, meditativa, magisteriale e silenziosa quella di Tommaso, il “bue muto”,  applicata sì, seria e studiosa, ma pure ariosa, leziosa, spendereccia e pubblica quella di Dante a cui il successivo trambascio della condanna politica e il morso acre dell’esilio corroderanno dolorosamente le molte croste mondane purificandone corpo, mente e spirito secondo quel processo che l’antica saggezza di Seneca indicava nel seguente pensiero: “Ignis aurum probat, miseria fortes viros” (De providentia 5, 10) – il fuoco saggia l’oro, la povertà modella gli uomini forti.
Ed infatti, come egli afferma: “Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade” (Conv. I, iii, 5).
In pratica, numerose le differenze e poche le somiglianze? Sentiamo il parere di un nostro studioso e cóltissimo amico:
E, allora, una prima domanda da farsi  può essere questa: dove risiede la sostanziale affinità del poeta fiorentino e del teologo aquinate?. . . Affinità elettive. Sì, risiede lì l’affinità tra i due: il comune interesse per la cultura che mosse i due campioni, a costruire le più grandiose architetture del pensiero e dell’arte letteraria cristiana, un sistema filosofico perfetto e un affascinante romanzo teologico; teoremi teologici e gioco della finzione. Ma separatamente, sia pur l’uno derivando in parte dall’altro.” (Ferdinando Bianchi: Dante e il Tomismo – relazione letta al Convegno “Dante, ieri, oggi, sempre” Civitavecchia 5/6 maggio 2012).
E non per caso a guida/cicerone, che illustra il cielo del Sole ove albergano gli spiriti sapienti, Dante pone il suo teologo di riferimento, San Tommaso Aquinate, appunto che, per ben tre canti – X/XI/XIII – gli parla in robone accademico, e gli presenta i grandi Dottori della Chiesa apparsi in forma di tre duodenarie corone festose e fulgenti.
  
Categoricamente si smentisce, pertanto, ogni qual che sia fantasiosa, amena, ridicola, antistorica e irricevibile ipotesi di intruppare il nostro Poeta - come si costringono a far credere antichi e nuovi seriosi nonché ciarlieri investigatori dell’esoterico e del complottismo - tra iniziati, alchimisti, eretici, sufi, massoni, gnostici, templari, kabbalisti, ghibellini, settarî, fedeli d’amore, enigmisti, extraterrestri o, come addirittura affermano alcuni supponenti e fantasiosi autori, tra gli esploratori di lande artiche, precisamente l’Islanda – la mitica (?) Thule virgiliana (Geo. I, 30) - dove, a parere di un ingegnere e di un “dantista”, il Poeta avrebbe, pochi mesi avanti la sua morte, nascosto il manoscritto della Commedia in una cavità ipogea le cui coordinate sarebbero cripticamente inscritte, naturalmente, come codice occulto: nei due monosillabi del verso “e aggi a mente quando tu le scrivi” (Purg. XXXIII, 55); ne “La primavera”, tempera su tavola del Botticelli;  nella tempera grassa del “Cenacolo” leonardiano, su cui i due, con colpi di fosforescenti draghinasse e durlindane ermeneutiche, almanaccano e strologano di date, latitudini, equinozî e viaggi convinti, così pare, che la tratta Ravenna/Islanda/Ravenna sia stata, per quei tempi, una gita fuori porta facilmente sostenibile da un individuo, come Dante, già malazzato ed avanti con gli anni.
Ciò che costoro debbono ben “chiovarsi in mezzo de la testa” (Purg. VIII, 137) - e se ne facciano una ragione - è la storica e inalterabile verità di un Dante di profonda e granitica fede cattolica e refrattario, pur se frequenti sono le sue invettive contro gli uomini di Chiesa, a qualsiasi deriva eretica o velleità ribellistica. Ne fa egli stesso, per bocca di Beatrice, piena e commossa testimonianza quando infatti la “sua donna” (Par. XXIV, 32) lo presenta a San Giacomo col dire: “La Chiesa militante alcun figliolo/non ha con più speranza, com’è scritto/nel sol che raggia tutto nostro stuolo” (Par. XXV,52/54). Parole non diversamente declinabili, chiare e perentorie come sono nel qualificare l’Alighieri fedele osservante della dottrina della Chiesa e men che meno un oscuro e subdolo iniziato, mistagogo, teurgo o maghetto.  Ė un Dante fustigatore degli ecclesiastici ma ossequioso della Chiesa, santa in quanto alla sua divina istituzione, peccatrice in quanto ai suoi uomini, secondo la celebre definizione “casta meretrix” di S. Ambrogio (Comm. in Lucam III, 23).

Siffatte bubbole vescicose, dal tetro gusto di gelatinoso, purulento e maculoso miele neognostico, mentali polluzioni infeconde, frenetiche elucubrazioni inventate e “tramandate da scritture cariche di simbologìe e plasmate nel linguaggio dell’oscurità . . . supportate da ingente erudizione” (Piero Vassallo: Ritratto di una cultura di morte – I pensatori neognostici - Ed. D’Auria  1994 pag. 13 - 33) - e lo scrivemmo in un nostro saggio pertinente la musica esoterica del ‘900 (2011) - si caratterizzano per una strana evoluzione argomentativa, ma più che strana diciamo scorretta, e che si fonda sul seguente schema: un primo autore “illuminato”, partendo da un “se” ipotetico, pone la questione di un Dante, diciamo, “templare” col rifarsi a un tipo di esegesi simbolica che, letto il passo della prima cantica dove il poeta narra  essersi sciolto da una “corda” che teneva “intorno cinta” (Inf. XVI, 106/108), ne conclude essere, quella funicella, sì il cordiglio dei frati segno di continenza ma anche - ed ecco la scoperta! -  il “cingulum equitum” dei cavalieri templari con che germina la congettura: “Se Dante fosse un templare. . .”. Ma dopo aver posto siffatta  formulazione, lo svolgimento successivo dell’indagine trasforma questo “se Dante fosse un templare” in  acclarata  tèsi: “Accertato essere, Dante, un templare. . .”, e così “di ponte in ponte altro parlando” (Inf. XXI, 1) e di balza in balza saltabeccando, si tessono dogmi col gioco abile dell’ipotesi --> tèsi trasformando, cioè, un’illazione in certezza e via, all’infinito!

Chi volesse aver chiarissima l’astuta procedura del citato sistema argomentativo, si legga quella brodaglia di gotica fantasticherìa e ridicola “ricerca” (?) nota, purtroppo, come “Il Santo Graal – M. Baigent, R. Leigh, H. Lincoln - Ed. Fabbri 2005” ove, con un ritmo vertiginoso, i “se” di una pagina diventano, nella successiva, “perciò” col ritmo di una fluida staffetta.
Sicché i varî  G. Rossetti, E. Aroux, G. Pascoli, E. Schuré, R. Benini, M. Caetani, L. Valli, A. Reghini, J. Evola, A. Palacios, R. Guénon, E. Minguzzi, B. Cerchio, A. & G. Malvani, i fantageografi G. Gianazza & G. F. Freguglia ed altri armeggioni di pirotecnica ma vaporosa cultura dantiana, di cui omettiamo l’anagrafe, si sollazzano vagellando in questo astuto ludo di rimandi, uno all’altro, in sequenza continua, a cascata, trasformando la supposizione di un autore in verità e allegandovi altra congettura a cui, di poi, un altro dantenauta darà sigillo di certezza, e così di seguito nell’aura dell’autoreferenzialità e nella totalità d’un cosmico vuoto pneumatico. E poiché ogni nuovo commento di tal fatta è la somma dei precedenti, ne consegue che il lettore, che si metterà a durar fatica sull’ultimo conato esegetico sapienziale, ritroverà, insieme a qualche novella stravaganza di novello conio, luoghi, passi e notizie già stipate, stratificate in anteriori guazzabugli grafomaniacali. D’altra parte, e lo si comprende, un simil libro deve pur essere di congrua dimensione, e, allora, come confezionarlo se non come coacervo e ammasso infarcito e straripante del così detto “già visto, già scritto”, sorretto da un lessico raro, oracolare, aureo, liturgico, iperipotattico funzionale, peraltro, a conferir autorevolezza carismatica e sigillo di verità col puntello del precedente “ipse dixit”?

Si prenda uno qualsiasi di questi prodotti: il lettore vi troverà, in ciascuno, immancabilmente ripetuti almeno tre luoghi espressivi di millantato e ostentato esoterismo dantiano, e cioè:
1 - “O voi ch’avete l’intelletti sani / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ‘l velame de li versi strani ” (Inf. IX, 61/63);
2 – “Aguzza, qui, lettor, ben gli occhi al vero / ché ‘l velo è ora ben tanto sottile / certo che ‘l trapassar dentro è leggiero” (Purg. VIII, 19/21);
3 -  “O voi che siete in piccioletta barca / desiderosi d’ascoltar.. ” (Par. II, 1/2),
e per non dire delle così dette “parole di passo”, il codice degli iniziati e dei settarî, del massonico tricolore verde, bianco e rosso, dei riti di passaggio, l’acqua e il fuoco, il sonno e i risvegli. Insomma: cicalate da cicalate.
Un ammasso di notizie, di disquisizioni “sapienziali”, un papiro, un rotolo di simboli e serque infinite di piroette etimologiche, di acronimi, anagrammi, di sigle e funambolismi di turgida erudizione tali da far fumigare il cerebro del lettore il quale, se incline per gusto e complessione psicologica alle notturne fantàsime gotiche e all’esplorazione dei laberinti mentali, ne farà ghiotta pietanza intellettuale col risultato di rimpinzare, intumidire ed intontire, sì, la testa, ma di lievitare in autostima per un sentirsi incastonato e aggregato alla schiera degli ardenti “eletti” quelli che, soli, hanno capito quanto i così detti “accademici normalisti”, ad onta di lunghi ed inutili studî, nemmeno si sognano di percepire.

Un’osservazione di passaggio: ma dove sta tutto questo “esoterico” se le biblioteche, le librerie, le carabattole dei mercatini, le riviste, i tanti “Voyager”, “Misteri”, “Adam Kadmon” tracimano di resoconti mirabolanti con cui la verità nascosta viene svelata?
Il segreto del messaggio è un “segreto” e un mistero è un “mistero”, perciò ci si chiede come riescano, taluni autori, a carpirlo rivelandolo e tuttavia nominandolo ancora mistero. Il mistero è mistero e non lo è più quando è stato rivelato. E lo diceva anche il dotto prelato Marbodo di Rennes (1035 – 1123) quando scriveva: “Majestatem minuit qui mystica vulgat, nec secreta manent quorum fit conscia turba” (De lapidibus, prologus – Ed. Carocci 2006 pag 38) - chi divulga sublimi verità ne sminuisce  la maestà e non sono più segreti quelli di cui viene a conoscenza la plebe - oves et boves. Semplice, ciò che era esoterico è diventato essoterico, pubblico cioè. Il vero esoterismo, piuttosto, è quello di talune congreghe di cui nulla si sa se non che esistono ed è quell’esoterismo che, in un modo o nell’altro, nel nucleo degli intimi, occulti e riservati riti, s’apparenta e s’innerva al culto delle tenebre e del satanismo.
   
Ma a ben vedere, tutto il complesso cultural/raccogliticcio, questo melmoso fondiglio del versante iniziatico dantiano si caratterizza per una connotazione di fondo che, ad arte, viene taciuta ma che la si avverte nitidamente, consistente in un fronte, detto alla breve, “anticattolico”. Menare, come fa  Schuré di un Dante grande iniziato, come fa Palacios di un Dante “sufi”, come fan Rossetti, Evola e Reghini di un Dante “ghibellino”, come fa Aroux di un Dante “socialista”, come fa Valli di un Dante “fedele d’amore”, come fa Minguzzi di un Dante “alchimista”, come fa Guénon di un Dante “massone e templare”, come fan tutti di un “Cristianesimo esoterico” è tentare e indurre i poveri di spirito - coloro che sono privi delle difese immunitarie della fede, della ragione e del buon senso - a screditare, falsando la personalità del più ortodosso suo poeta, la Chiesa cattolica come corruttrice del “messaggio”, a vedere nella vita di Cristo o in alcuni passi della Scrittura, motivi di speculazione misterica riservata a pochi - come già predicò l’antica gnosi spuria e ribadì l’abate Paul Roca (1830-1893) - cioè ai soli prescelti. In sintesi, un Cristianesimo esoterico del segreto messaggio.
Ora, nel cristianesimo l’unica  realtà che si possa definire non soltanto esoterica ma addirittura misteriosa ed impenetrabile all’intelletto umano è l’oggetto luminoso del “dogma” da credere per fede e che è annunciato palam et non clam – apertamente e non di nascosto – come lo stesso Gesù comanda nel suo Vangelo: “Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti” (Mt. 10,26) – “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc. 16, 15).
E allora, “sic stantibus rebus”, è forse questo, egregî iniziati, un Dante oscuro e un cristianesimo esoterico?

Ma non si creda che l’anticattolicità degli esoteristi  - compresa quella di alcuni che si ostinano a definirsi tuttavia “cattolici” - sia caratteristica dei soli storici nemici della Chiesa. No, perché da un cinquantennio in qua, da quando il Concilio Vaticano II “aprì” la divina realtà ecclesiale facendo entrare il “mondo”, quello che Satana mostrò a Cristo nel deserto (Mt. 4, 8/9), la struttura monolitica del dogma e del “depositum fidei” è sotto attacco degli stessi chierici i quali, invaghitisi del modernismo razionalista e del più comodo e praticabile metodo del “dialogo” con le ideologìe temporali, avendo individuato il vero ostacolo nella stessa divina essenza della Chiesa, lavorano per progressivamente erodere la sacralità del “mistero” cristiano col ridurre la verticalità della trascendenza del messaggio evangelico in un annuncio orizzontale antropologico perpetrando, così, un vero tradimento e facendo della Chiesa “eretta”, una “Chiesa ribaltata” come efficacemente la illustra E. M. Radaelli nel  suo libro dall’omonimo titolo (La Chiesa ribaltata – ed. Gondolin Verona, 2014). Sicché, per inerzia e coerentemente al nuovo corso antropocentrico, autori cattolici come Dante stesso e Manzoni, che anni or sono figuravano, nella scuola e nelle famiglie, quali pilastri della pedagogia morale, della didattica della lingua italiana e del pensiero universale, sono sotto schiaffo, ritenuti “facoltativi” – in pratica esclusi - anche nelle istituzioni cattoliche perché “il sapor di forte agrume” (Par. XVII, 117) della poesia dantiana, e la coerenza della severa visione etica manzoniana, spronano e obbligano l’uomo a tener alto lo sguardo “alle cose di lassù”  (Col. 3, 1), pratica che oggi, nell’epoca del “cristiano adulto”, illuminato, autonomo, edonista e padrone di sé, viene rifiutata come residuo passatista dacché, anche nell’attuale magistero papale di Francesco I Bergoglio, più modernista che le precedenti reggenze papali, fa totale aggio la visione immanentistica, antropologica, scientista, sociologica ed economica delle “cose di quaggiù”. Ed, infatti, qual è, secondo il Pontefice, il problema più assillante della Chiesa del nostro tempo? Rispondendo ad Eugenio Scalfari, egli afferma: “La disoccupazione giovanile” (La Repubblica, 1 ottobre 2013).
Pertanto, non più Dante o Manzoni, ma K. Marx, P. P. Pasolini, R. Benigni e F. De Andrè che la nuova leva dei chierici gesuitici ha eretto quali orifiamme, stendardi sotto cui militare: immanentismo economico, nichilismo sodomita, verbosità fecale e gnosi chitarraiola. Pertanto, non più Agostino o Tommaso, ma M. Heidegger, T. de Chardin, K. Rahner e V. Mancuso che la teologìa neoterica postconciliare ha consacrato come i primipili della nuova fede: coscienza trascendentale, darwinismo gnostico, cristianesimo anonimo e modernismo lutero/scalfariano.
Un bel campionario dello “spirito dei tempi” che, tra l’altro, non disdegna di adottare Dante quale espediente pubblicitario.

Il nostro cóltissimo amico di cui  sopra, infatti, con forte senso di amara ironìa, ci avverte che “oggi, l’opera del Sommo Poeta ha ispirato altre carte, rotoli . . . di carte, prodotti cartacei di ben diversa funzionalità” (Ferdinando Bianchi: Dante e il Tomismo, op. cit.) come, in effetti, è avvenuto ché, con irriverente e becero spirito, qualche presunto “creativo” ha pensato di far pubblicità televisiva a certi . . . rotoli di uso non propriamente . . . letterario figurando il Poeta intento a scrivervi.

Ma torniamo al tema fissato e vediamo, brevemente, se ben gli si possa incollare la taccia di qual che sia  eretico, cataro, alchimista ed altro, siccome affermano i tanti citati sommozzatori degli occulti abissi sapienziali.
Posiamo lo sguardo, seppur superficiale, al documento incriminato, alla Commedia, giusto per trarne alcuni  esempî: Dante – eretico/cataro, scismatico, alchimista, ghibellino -  condanna al fuoco gli amici eretici (Inf. X) ed esalta san Domenico, il diserbante della gramigna catara (Par. XII, 100/102), allo squartamento gli amici scismatici (Inf. XXVIII), gli amici alchimisti alla scabbia (Inf. XXIX, 79/84), sbeffeggia, per bocca di Giustiniano, i presunti amici ghibellini (Par. VI, 103), sicché non v’ha proprio ragione alcuna di credere che, sotto la humus delle sue terzine “strane”, si distenda o fluisca una micoriza invisibile, ma reale, di eversiva dottrina o di chissà qual altra configurazione misterica. E questo basti perché “contra factum non datur argumentum”, e cioè: contro il dato concreto non vale argomentare. E allora “ad coepta feramur”, portiamoci alle cose già iniziate per concludere e raggiungere lo scopo che ci siam prefissi con questo lavoro.

II

La vastità dei richiami, letterali o parafrasati, dei luoghi biblici o patristici che Dante allega alla sua poesìa, funzionale - cosa da non dismentare – anche a una didattica di tipo catechetico, ma soprattutto la congruità e la incisività argomentativa con cui egli innesta tali luoghi, sono lì a dimostrare la sua lineare, ferrea ed inconcussa fede che, qualora fatti ed eventi particolari dovessero, nel credente, scuoterne la solidità e metterla alla prova, opportunamente egli suggerisce di rifugiarsi nel “Depositum fidei”, nella Tradizione, nella Sacra Scrittura e nel Magistero della Chiesa, come egli testimonia, affermando, per bocca di Beatrice: “Avete il novo e vecchio Testamento / e ‘l pastor della Chiesa che vi guida. / Questo vi basti a vostro salvamento” (Par. V, 76/78).
Con ciò appare chiaro come il Poeta viva, pensi e scriva nell’alveo della più tersa ed osservata ortodossìa, quella che San Tommaso d’Aquino ha definito per sempre innervando nel pensiero teologico cristiano, quale struttura portante, la logica della  filosofia aristotelica mediante la quale, secondo anche S. Agostino, fede e ragione si cercano e si incontrano (1). A frustrare qual che sia desiderio, velleità, voglia, ghiribizzo o ruzzo di reperire, tra i versi della Commedia, occulte cifre connotanti un Dante “altro” quale piace agli speleonauti dell’occulto, sta quella eccezionale Commissione di santi Dottori – gli Apostoli, San Pietro presidente, San Giacomo e San Giovanni correlatori, Beatrice  avvocata di parte, relatrice – cui davanti, nell’aula magna della corte del Paradiso, con una solenne e magnifica cerimonia, egli, all’età di 35 anni, si laurea in teologìa discutendo secondo il sistema dialettico della “disputatio tentativa”, accettando i temi proposti, argomentando le risposte, riscuotendo il plauso e spuntando il massimo della votazione allorché l’almo collegio dei tre “Professori” sancisce e sigilla l’approvazione e il rilascio del diploma di baccelliere con la trionfale esaltazione del “trisaghion”, quel “santo, santo, santo”  (Par. XXVI, 69) – in pratica “summa cum laude” - risonante come cosmica sinfonìa in tutte le sfere celesti.

Per tali motivi il Poeta si accinse a scrivere un’opera che, fra i molteplici scopi – eminente quello istitutivo d’una lingua nazionale - si prefiggeva di far “didattica”, cioè insegnare, con versi melodiosi e armonici inseriti in una struttura ben disegnata e ordinata, la dottrina e la teologìa cattolica il cui messaggio però fosse accessibile a tutti, secondo i noti  quattro sensi: letterale, allegorico, morale e anagogico, quattro vie cioè confluenti nell’unico esito: il consolidamento della fede nei credenti, il messaggio ai non credenti e la funzione culturale nella prospettiva delle ultime realtà oltre le quali ogni tentativo di recupero o di ritorno è da considerarsi vano. “Lasciate ogne speranza voi ch’intrate!” (Inf. III, 9).

Dicevamo di Dante tomista: nella catalogazione che di seguito approntiamo al lettore, relativa ai passi, ai riferimenti, ai riporti biblici/patristici, San Tommaso Aquinate è di poco più presente, ad esempio, dei salmi, con questi ultimi, però, spesso citati quasi alla lettera e con l’altro, invece, per risonanza culturale. Ciò non vuol dire che, in termini culturali, prevalgano gli uni rispetto all’altro  perché, se è vero che il salterio è pressoché astante in quasi tutti i canti con precisi rimandi, il tomismo è l’idealità che avvolge e permea tutta l’opera dantiana, è lo scenario in cui si muove l’intiera dinamica della Commedia, è il fondamento, insieme all’aristotelismo, della dogmatica su cui poggiano i pilastri dottrinarî del disegno letterario e su cui vive la stessa poetica. Ciò valga come caveat affinché chiara appaia la nostra tèsi a cui ci siamo riferiti nel produrre questo lavoro.

Ulteriore e necessaria precisazione: il lettore non pensi che Dante, ogni qualvolta inserisce, nel corso del suo poetare, riferimenti a uno o ad altro testo biblico, a uno o ad altro autore patristico o scolastico, lo abbia deciso e programmato consapevolmente. La conoscenza di specie, diciamo meglio, la sua solida cultura teologica, diventata e fusa come un tutt’uno con la sua personalità, gli permette, anche inconsciamente così come avviene in persona cólta, di citare o di parafrasare brani, passi, pericopi o detti in quanto in lui talmente assimilati, incarnati, innervati e del tutto connaturati sì da sentirli come proprio modo di essere, senza negare, peraltro, la sua generale volontà di confermare la mirabile visione con l’escussione di varie autorità di cristallina chiarezza e di totale veridicità.
Questo noi pensiamo, libertà concedendo di dissentire. Ma vediamo, nello specifico dell’Inferno, cosa emerge di particolare.

Non si può dire quale siano i referenti biblici o patristici più frequenti in questa cantica dell’Inferno, se taluni prevalgano in questa o nelle altre due, perché i ricorsi alle autorità teologico/scritturali sono equamente spartiti in quanto il Pentateuco, i Salmi, Isaia, i Profeti, i libri sapienziali, i libri storici, i Vangeli, le Lettere paoline, i santi Padri sono presenti in rapporto ad ogni diversa tematica espressa nelle terzine, senza una linea conduttrice di marcata visibilità. Vogliamo dire che nella prima, come nelle  altre due cantiche le corrispondenze e i richiami sono privi di una connotazione di preordinato schema, quasi un procedere per “lumi sparsi” che splendono quando necessita.
Vero è che, dando uno sguardo al repertorio che abbiam approntato in questa prima sezione, si evidenzia, oltre al palese preminente ricorso al tomismo, anche una nutrita mèsse di citazioni dai salmi maggiore rispetto ad altre fonti, ma questo lo si noterà anche nelle altre due cantiche successive perché a noi pare, e la cosa è attestata anche dai coevi commenti, che il poeta non poté attingere alle originarie fonti di determinati antichi autori, in ispecie i santi Padri greci le cui opere, all’epoca, circolavano per summe, per epitomi, per sillogi e compendî tradotti, e con frequenti varianti o errori di copiatura, e non sempre disponibili, mentre il V. T. e il N. T. , redatti nell’edizione latina della Vulgata di Gerolamo (382), erano  più accessibili e più facilmente consultabili in monasteri o chiese.

Intanto ci pare di dover affermare che la natura dei riferimenti, reperiti nella cantica dell’Inferno, attiene soprattutto a una prospettiva etica di marcata finalità escatologica con che l’autore chiarisce talune problematiche legate al concetto di peccato, all’essenza della giustizia divina – il contrapasso – e all’esemplarità della condanna, terribile nella sua eternità. Gli autori sottintesi – biblici e/o patristici – vengono escussi quali testimonî dell’ortodossìa che, con il proprio pensiero posto a bastione e a rinforzo della narrazione, avallano il dettato poetico rendendosi veicolo didattico per i lettori.

Ciò che, invece, senza apparire fragorosamente con dichiarazioni esplicite, domina l’intero corpus della Commedia, è lo spirito tomistico/aristotelico che funge da ispirativa essenza dottrinaria e da guida nel percorso del viaggio, con numerosi impliciti rimandi alla Summa Theologiae e al pensiero scolastico e questo è l’aspetto culturale di cui si possa affermare l’onnipresenza. Appaiono, infatti, frequentemente tratti poetici in cui sarebbe necessario riportate per intiero questioni e articoli della Summa tomistica, tanta è la pervasività che il santo Aquinate esercita sul pensiero di Dante a dimostrazione che la Commedia potrebbe configurarsi ed esser considerata quale rassegna, esposta per allegorìa e per sublimità lirica, dell’opera teologica più famosa che è stata fino al 1961, sostituita dai varî K. Rahner, T. De Chardin, H. U. von Balthasar e socî, il fondamento culturale e filosofico degli studî seminaristici cattolici.

Riferendoci a quanto sopra scritto in merito alla defenestrazione silenziosa di Dante e di Manzoni, congedati dalle scuole statali (2), ci vien da pensare che siffatta operazione, portata avanti da uno Stato laicistico negli anni 80/90, è stata la conseguenza scaturita dalla soppressione del tomismo nei programmi delle Università cattoliche e dei seminarî. E perché noi datiamo 1961? Perché con lo spirito del Concilio Vaticano II, indetto, appunto, il 25 dicembre 1961, aperto l’11 ottobre 1962 e concluso l’8 dicembre 1965, la Gerarchìa ecclesiale ha deciso di “aggiornare” la dottrina e la pastorale mettendo in soffitta la severa e benefica Scolastica del principio di autorità e dell’analogìa, sostituendola con la ribelle teologìa neoterica nordeuropea di marca lutero/modernista, una teologìa parallela e consanguinea allo “spirito dei tempi” che ha fatto da remota causa ed apripista al nefasto, rivoluzionario ’68.  Ma questo è un discorso che abbiamo svolto in altre occasioni ed in àmbiti deputati a siffatta tematica. Ma andava detto.
Con ciò, “desinatur plura! Successimus” – si finisca di dire oltre! Siamo arrivati.

Santa Marinella marzo/aprile 2016

                                                                     Prof. Luciano Pranzetti

NOTE
                                                                                                                                           
1 – La definizione “Fides quaerens intellectum” – la fede che cerca la ragione (S. Anselmo d’Aosta: Proslogion) si accorda con quella agostiniana che dice essere medesima la via percorsa da fede e da ragione: “Eadem via quae descendit et ascendit” (S. Agostino: De Trinitate 15) e viene fatta propria da Tommaso (S. Th. II/IIae q. 8  a. 8 ad 3um e q. 9  a. 3 ad 3um ).
Desideriamo poi, allo scopo di fornire prova dell’alta e perfetta speculazione tomista – a cui Dante intona buona parte della  sua idealità poetica e religiosa -  narrare un episodio tratto dalla “Historia beati Thomae de Aquino” di Guglielmo da Tocco (1250/1323).
Riferisce san Bonaventura che, ultimato il trattato sull’Eucaristìa, fra’ Tommaso lo depose davanti al Crocifisso per ricevere dal Signore un segno. Sùbito, sentitosi sollevare da terra, udì le seguenti parole: “Bene scripsisti, Thoma, de me. Quam ergo mercedem accipies?” – Hai scritto molto bene di Me o Tommaso. Quale mercede vorresti ricevere? - Tommaso rispose: “Non aliam nisi te, Domine” – non altra che te, o Signore. (Chi volesse leggersi l’intera vicenda, consulti la più reperibile e completa biografia tomista in circolazione: Raimondo Spiazzi, O. P. - Vita di San Tommaso d’Aquino. Biografia documentata  - E. S. D. 1995)

2 – L’anno scorso in questo periodo – 24 marzo 2015 -, , il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha proposto, quale sua “provocazione” – figuriamoci! – l’abolizione de “I Promessi Sposi” poiché, in quanto imposto, il capolavoro manzoniano perde il fascino intrinseco – letterario e morale – mentre, lasciato del tutto facoltativo, sarebbe di sicuro arricchimento. Un ragionar sottile ed astuto che nasconde la volontà di cancellare del tutto Manzoni perché, è noto, anche la matematica o la storia sono egualmente indigeste ed imposte ma nessuno si sogna di eliminarle. Viene, invece, da pensare a un moto di insofferente laicismo contro il messaggio religioso del romanzo, trascurando del tutto l’alto magistero etico e civile ivi contestualmente espresso. Uno starnazzar di oche contro le stelle. Noi, allora, coerentemente col pensiero renziano rilanciamo proponendo la decadenza del suddetto Matteo quale Primo Ministro parimenti imposto dall’alto e, perciò, abusivo.



giugno 2016