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Nostra nota alla lettera (dell’11.6.99) della Congregazione
per il Culto Divino all’Arcivescovo di Siena, Mons. Bonicelli.
Secondo la Congregazione per il Culto Divino (CCD) il Missale Romanum
promulgato da S. Pio V sarebbe abrogato di fatto, poiché con la
pubblicazione del nuovo Missale Romanum “è chiara la volontà
del supremo Legislatore di promulgare un testo…” che sostituisca “quello
fino ad allora in uso”.
Ora, non v’è dubbio che con questa precisazione la stessa CCD
conviene che il Missale di S. Pio V non è stato formalmente abrogato:
il Papa Paolo VI avrebbe potuto dichiararlo esplicitamente, ma non l’ha
fatto, e non si può pensare che si sia trattato di una dimenticanza
o di una disattenzione nella formulazione della Costituzione Apostolica
del 3 aprile 1969.
Di fronte a quanto si sostiene circa “la chiara volontà”
di sostituire, vi è indubbiamente la mancanza di una dichiarazione
formale di tale volontà.
Data l’importanza dell’argomento in questione, e tenuto conto del fatto
che già nel corso del Concilio e dopo, nel corso dei lavori del
Consilium ad exsequandam Constitutionem de S. Liturgia preposto alla redazione
del nuovo messale, vennero sollevate diverse e sostanziali obiezioni circa
il progetto di sostituzione del Missale Romanum di San Pio V, non v’è
dubbio che la mancanza di una abrogazione formale “debba”
sollevare parecchi dubbi. E se anche si trattasse di dubbi “formali” piú
che sostanziali, rimarrebbe il fatto che oggi ci troviamo al cospetto di
una “legge dubbia”, di fronte alla quale si impone il criterio della perdurante
validità della legge precedente.
Anche a voler convenire che la volontà del Papa Paolo VI possa
essere considerata “chiara”, resta il fatto che Egli non ha voluto esprimerla
con altrettanta chiarezza, determinando, di fatto, l’impossibilità
di soluzione di ogni dubbio.
A proposito di questo aspetto controverso, circa la formale abrogazione
del Messale tradizionale e circa la sua presunta abrogazione di fatto,
o obrogazione, è risaputo che recentemente (notizia ufficiosa, che
in certi casi ha piú valore sostanziale di una notizia ufficiale
- si veda la nota riportata a parte) una commissione
di cardinali, appositamente interpellata dal Papa, ha convenuto che il
Messale Romano di S. Pio V, con le variazioni in seguito apportate fino
al 1962, non può ritenersi abrogato: esso è tuttora in pieno
vigore.
È del novembre 1999 una nota che prende in esame lo stesso documento
qui richiamato, nota pubblicata dal quindicinale SI SI NO NO, nella
quale si dice:
«Ma da che cosa è “chiara” la detta volontà di
Paolo VI dato che nella sua Costituzione manca “una forma esplicita di
abrogazione”? Evidentemente dal solo fatto che si tratta di un rito “rinnovato”,
[…] a tal segno che è possibile applicargli la seconda parte del
can. 22 del Codice piano-benedettino, ripreso dal can. 20 del nuovo Codice,
il quale dice: “una nuova legge àbroga la legge preesistente, quando
lo dica espressamente oppure le sia direttamente contraria oppure riordini
interamente tutta la materia della legge precedente”. La costituzione “Missale
Romanum” di Paolo VI […] Deve, dunque, rientrare necessariamente negli
altri due casi, per i quali si dà un’abrogazione tacita e di fatto
(detta piú esattamente “obrogazione”). Il legislatore, infatti,
emanando una legge “direttamente contraria” alla precedente o quanto meno
riordinandone “interamente tutta la materia”, mostra “chiaramente” di non
volere piú la legge preesistente (cf. Felix M. Cappello, S. J.,
Summa Iuris Canonici, vol. I, 1961, n° 96). Questo sarebbe, dunque,
il caso della costituzione “Missale Romanum” di Paolo VI, stando a quanto
ne scrive la Congregazione per il Culto Divino, la quale viene in tal modo
a riconoscere, suo malgrado, la rottura del “Novus Ordo” di Paolo VI con
il rito tradizionale romano, impropriamente detto di San Pio V.»
Resta il fatto che il Missale Romanum in vigore fino al 1962 non costituisce
una semplice “legge” della Chiesa, poiché, per indiscusso riconoscimento
secolare, sulla base della stessa Bolla Quo primum tempore espressamente
richiamata dai Papi in tutti i Messali successivi a quello del 1570, fino
a Giovanni XXIII nel 1962, si tratta, oltre che di una legge, di una “consuetudine
immemorabile”, praticata dalla Chiesa fin dai tempi apostolici.
A questo proposito, nella nota citata si fa notare che «Le “precedenti
forme liturgiche” di cui parla la Congregazione per il Culto Divino, rientrano
in quelle “consuetudini centenarie o immemorabili” delle quali il can.
28 del nuovo Codice, riprendendo il can. 30 del Codice piano-benedettino,
dice: “… la consuetudine… è revocata per mezzo… di una legge contraria;
ma, se non se ne fa espressa menzione, la legge [contraria] non revoca
le consuetudini centenarie o immemorabili”. Dunque, per revocare il rito
tradizionale romano non è affatto sufficiente la volontà
“chiara”, ma tacita, di Paolo VI; era necessaria invece, nella Costituzione
Missale Romanum di detto Pontefice, “una espressa menzione” che revocasse
la “consuetudine immemorabile”, tipo: “Non obstante quacumque consuetudine
etiam centenaria et immemorabili” o altra simile (cf. Padre Matteo da Casola,
o. f. m. cap., Compendio di Diritto Canonico, Marietti, 1967, p. 91). La
formula generica usata da Paolo VI “non obstantibus… Constitutionibus et
Ordinationibus Apostolicis a Decessoribus Nostris editis” tutt’al piú
può autorizzare a discutere sull’eventuale abrogazione della Bolla
Quo primum di San Pio V e in genere della normativa sovrapposta da San
Pio V al rito romano tradizionale, ma non tocca il rito romano tradizionale
in quanto “consuetudine immemorabile”».
Con le sue dichiarazioni, la Congregazione per il Culto Divino, che
conosce bene le argomentazioni come quella qui riportata (argomentazioni
basate su studi e approfondimenti che si sono susseguiti sempre piú
numerosi in questi ultimi 30 anni), ha tacitamente ammesso che non vi
sono argomenti in grado di dimostrare che l’Ordo Missæ del 1962,
risalente ai tempi apostolici, sia stato mai abrogato, né tampoco
obrogato.
Quando poi il documento della Congregazione si richiama al Concilio
di Trento e ricorda il potere della Chiesa nell’amministrazione del Sacramento
dell’Eucarestia (“hanc potestatem perpetuo in Ecclesia fuisse, ut in
sacramentorum dispensatione, salva illorum substantia, ea statuere vel
mutare, quae suscipientium utilitati seu ipsorum sacramentorum venerationi,
pro rerum, temporum et locorum varietate, magis expedire iudicaret”
[DS 1728]), ecco che accenna ad un aspetto molto grave della questione,
senza però preoccuparsi di affrontarlo nei suoi termini esatti.
Il Concilio di Trento dice che la Chiesa, nell’amministrazione dei
Sacramenti, ha in perpetuo il potere di stabilire o di mutare ciò
che ritenesse piú utile per la ricezione o la venerazione degli
stessi Sacramenti, questo però “salva illorum substantia”:
cioè “fatta salva la sostanza degli stessi Sacramenti”. È
questo uno dei punti dolenti della questione.
Fin dal 1965, e ancor piú dopo la promulgazione dei riti riformati,
dal 1969 in poi, il vero problema che si è posto non è stato
solo relativo al fatto che “sono apparsi gruppi di cattolici fortemente
attaccati ai libri liturgici, innanzi tutto al Messale, precedentemente
in uso”, come si dice nel documento della Congregazione.
Innanzi tutto, ci sembra cosa molto superficiale, e irrispettosa nei
confronti dei fedeli, parlare di gruppi di cattolici “apparsi … dopo il
rinnovamento liturgico disposto dal Concilio Vaticano II”: primo, perché
tali gruppi non sono “apparsi … dopo”, ma sono esistiti da sempre e hanno
fatto sentire la loro voce da molto prima del 1969; secondo, perché
il rinnovamento liturgico attuato è stato disposto dal Consilium
ad exsequandam Constitutionem de S. Liturgia e dal Papa Paolo VI che
tale Consilium ha voluto, mentre il Concilio Vaticano II, come ormai
tutti riconoscono piú o meno concordemente, aveva disposto ben altro:
compresa la conservazione del rito romano, del latino e del canto gregoriano.
A 30 anni di distanza, continuare a parlare come se questo non fosse vero,
soprattutto in un documento ufficiale della Chiesa, è cosa certamente
inaccettabile, per non dire altro.
Ora, perché tali gruppi di fedeli sono cosí attaccati
al rito tradizionale?
Perché hanno delle forti riserve “A proposito di certi punti
insegnati dal Concilio Vaticano II o relativi alle riforme posteriori della
liturgia e del diritto, che (ci) sembrano difficilmente conciliabili con
la Tradizione…”, cosí come è detto nel Protocollo
d’accordo firmato da Mons. Lefèbvre e dal Card. Ratzinger il 5 maggio
1988. Riserve riconosciute come legittime dal Prefetto della Congregazione
per la Dottrina della Fede, con la sua firma, e dal Sommo Pontefice Giovanni
Paolo II, che richiama tale Protocollo nel suo Moto
Proprio “Ecclesia Dei adflicta” del 2 luglio 1988 (…allo scopo di
facilitare la piena comunione ecclesiale dei sacerdoti, seminaristi, comunità
o singoli religiosi e religiose finora in vario modo legati alla Fraternità
fondata da Mons. Lefèbvre, che desiderino rimanere uniti al Successore
di Pietro nella Chiesa Cattolica, conservando le loro tradizioni spirituali
e liturgiche, alla luce del Protocollo firmato lo scorso 5 maggio dal Cardinale
Ratzinger e da Mons. Lefèbvre,… [Ecclesia Dei adflicta, 6a]).
È pur vero che il passo del Motu Proprio qui riportato sembra
riguardare solo i gruppi religiosi legati alla Fraternità San Pio
X, fondata da Mons. Lefébvre, ma non v’è dubbio che il Papa,
nel Motu Proprio, si richiama a tutto il Procollo, nel quale è anche
scritto: “Per quanto riguarda i laici che chiedono l’assistenza pastorale
alle comunità della Fraternità, essi rimarranno sottoposti
alla giurisdizione del vescovo diocesano, ma, in particolare, in ragione
dei riti liturgici delle comunità della Fraternità, essi
possono indirizzarsi a queste comunità per l’amministrazione dei
sacramenti”. Viene cosí a stabilirsi che le riserve espresse
nel Protocollo sono riconosciute come legittime dal Papa anche nei confronti
di “…tutti questi fedeli cattolici, che si sentono vincolati ad alcune
precedenti forme liturgiche e disciplinari della tradizione latina,…”,
ai quali egli assicura che: “desidero manifestare anche la mia volontà
- alla quale chiedo che si associno quelle dei Vescovi e di tutti coloro
che svolgono nella Chiesa il ministero pastorale - di facilitare la loro
comunione ecclesiale, mediante le misure necessarie per garantire il rispetto
delle loro giuste aspirazioni.” (Motu Proprio Ecclesia Dei adflicta,
5)
Il Motu Proprio del Papa è piú che chiaro, poiché
esso è indirizzato in modo particolare ai fedeli di cui si riconoscono
le “giuste aspirazioni” circa il loro sentirsi “vincolati ad alcune precedenti
forme liturgiche e disciplinari della tradizione latina”. Il Papa parla
chiaramente di “vincoli”, di aspirazioni “giuste” e di forme non solo liturgiche,
ma anche “disciplinari”.
Alla luce di tutto questo, il documento della Congregazione per il
Culto Divino appare veramente superficiale, soprattutto ove si pensi che
dovrebbe servire a regolare correttamente la giurisdizione dei Vescovi
diocesani.
Giustamente, il documento in esame si rifà alla lettera
Quattuor abhinc annos, del 3 ottobre 1984, emanata dalla stessa Congregazione
e richiamata dal Sommo Pontefice nel Motu Proprio Ecclesia Dei adflicta,
nella quale si dice espressamente che: Con ogni chiarezza deve constare
anche pubblicamente che questi sacerdoti ed i rispettivi fedeli in nessun
modo condividano le posizioni di coloro che mettono in dubbio la legittimità
e l’esattezza dottrinale del Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI
nel 1970.
Questa disposizione sembrerebbe creare dei problemi in ordine a quanto
abbiamo detto prima, ma in effetti occorre considerare:
a) che il Motu Proprio è successivo a questa lettera;
b) che anche nel Protocollo del 5 maggio 1988 si richiede la stessa
cosa;
c) che le riserve di cui abbiamo detto non mettono in discussione il
Concilio e l’applicazione delle sue raccomandazioni.
- Per quanto riguarda il punto a), non v’è dubbio che il Motu
Proprio precisa ed aggiorna la lettera Quattuor abhinc annos.
- Per quanto riguarda il punto b), nel Protocollo è detto esplicitamente
che ci si debba riferire alle edizioni tipiche dei nuovi libri
liturgici, tenendo sempre presente che i ministri officino
secondo le intenzioni della Santa Chiesa (cioè con l’esclusione
di
ogni innovazione creativa, di ogni disposizione locale
delle varie Conferenze Episcopali, di ogni mutevole pratica dettata
dalle piú diverse esigenze pastorali di tempo e
di luogo).
- Per quanto riguarda il punto c), è chiaro che si tratta di
rivedere serenamente in che modo siano state applicate le
raccomandazioni del Concilio: alla luce, per esempio,
di quanto dichiarato dal Card. Ratzinger, che si augura “una riforma
della riforma”.
In definitiva, ci troviamo al cospetto di problemi molto seri e complessi,
che non sono stati risolti nel corso di questi ultimi 30 anni e che oggi
si presentano aggravati dal fatto che sono sempre di piú i fedeli
che si rivolgono alla liturgia tradizionale e sono sempre di piú
i chierici che affrontano tali problemi con studi e con approfondimenti
rinnovati.
Per finire, dobbiamo riconoscere che in questo documento della Congregazione
per il Culto Divino si sono già fatti dei passi avanti rispetto
all’indulto del 1984.
Oggi ai fedeli tradizionalisti (e pensiamo alla condizione dei tradizionalisti
italiani) è data la possibilità di chiedere che si stabilisca
“un cappellano, oppure una parrocchia personale”. In tal modo sarebbe
risolta la limitazione alla sola amministrazione del Sacramento dell’Eucarestia,
e i fedeli potrebbero vedersi amministrare tutti i Sacramenti secondo il
rito tradizionale.
Spetta a noi far sentire la nostra presenza e le nostre esigenze,
compiendo tutti quegli atti necessari perché si arrivi anche in
Italia ad avere dei centri di apostolato in cui si possa vivere la vita
religiosa in conformità con la perenne tradizione di Santa Madre
Chiesa.
Preghiamo Iddio perché illumini sempre piú i nostri legittimi
Pastori, ci dia la forza di perseverare nella nostra legittima battaglia
per la tradizione, ci consenta di vedere realizzate le nostre legittime
aspettative, nel Nome di nostro Signore Gesú Cristo e per l’intercessione
della Beata Vergine Maria nella quale confidiamo e dalla cui protezione
dipendiamo.
Inter Multiplices Una Vox
Gennaio 2000
AL DOSSIER SAN PIETRO
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