|
|
MEMORIA E RICONCILIAZIONE LA CHIESA E LE COLPE DEL PASSATO (Il documento è stato presentato in Vaticano il 7 marzo 2000,
nel corso di una conferenza stampa presieduta dal Card. Joseph Ratzinger,
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, presenti il Card.
Roger Etchegaray, Presidente del Comitato Centrale per l'Anno Santo, Mons.
Piero Marini, Maestro delle Cerimonie del Papa, i teologi Bruno Forte e
Georges Cottier. Il testo del documento è stato pubblicato dal Servizio
Informazione Religiosa (SIR) l'8 marzo 2000)
NOTA PRELIMINARE Lo studio del tema “La Chiesa e le colpe del passato” è
stato proposto alla Commissione Teologica Internazionale
da parte del suo Presidente, il Card. J. Ratzinger, in vista della celebrazione
del Giubileo dell’anno 2000. Per preparare questo studio venne formata
una Sottocommissione composta dal Rev. Christopher Begg, da Mons. Bruno
Forte (presidente), dal Rev. Sebastian Karotemprel, S.D.B., da Mons. Roland
Minnerath, dal Rev. Thomas Norris, dal Rev. P. Rafael Salazar Cárdenas,
M.Sp.S., e da Mons. Anton ätrukelj. Le discussioni generali su questo
tema si sono svolte in numerosi incontri della Sottocommissione e durante
le sessioni plenarie della stessa Commissione Teologica Internazionale,
tenutesi a Roma nel 1998 e nel 1999. Il presente testo è stato approvato
in forma specifica, con il voto scritto della Commissione, ed è
stato poi sottoposto al suo presidente, il Card. J. Ratzinger, Prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, il quale
ha dato la sua approvazione per la pubblicazione.
INTRODUZIONE La Bolla di indizione dell’Anno Santo del 2000 Incarnationis mysterium (29 novembre 1998) indica fra i segni “che possono opportunamente servire a vivere con maggiore intensità l’insigne grazia del giubileo” la purificazione della memoria. Questa consiste nel processo volto a liberare la coscienza personale e collettiva da tutte le forme di risentimento o di violenza, che l’eredità di colpe del passato può avervi lasciato, mediante una rinnovata valutazione storica e teologica degli eventi implicati, che conduca - se risulti giusto - ad un corrispondente riconoscimento di colpa e contribuisca ad un reale cammino di riconciliazione. Un simile processo può incidere in maniera significativa sul presente, proprio perché; le colpe passate fanno spesso sentire ancora il peso delle loro conseguenze e permangono come altrettante tentazioni anche nell’oggi. In quanto tale, la purificazione della memoria richiede “un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di cristiani”, e si fonda sulla convinzione che “per quel legame che, nel corpo mistico, ci unisce gli uni agli altri, tutti noi, pur non avendone responsabilità personale e senza sostituirci al giudizio di Dio, che solo conosce i cuori, portiamo il peso degli errori e delle colpe di chi ci ha preceduto”. Giovanni Paolo II aggiunge: “Come successore di Pietro, chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi davanti a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli” (1). Nel ribadire, poi, che “i cristiani sono invitati a farsi carico, davanti a Dio e agli uomini offesi dai loro comportamenti, delle mancanze da loro commesse”, il Papa conclude: “Lo facciano senza nulla chiedere in cambio, forti solo dell’amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori” (Rm 5,5)” (2). Le richieste di perdono fatte dal Vescovo di Roma in questo spirito di autenticità e di gratuità hanno suscitato reazioni diverse: la fiducia incondizionata che il Papa ha dimostrato di avere nella forza della Verità ha incontrato un’accoglienza generalmente favorevole, all’interno e all’esterno della comunità ecclesiale. Non pochi hanno sottolineato l’accresciuta credibilità dei pronunciamenti ecclesiali, conseguente a questo comportamento. Non sono però mancate alcune riserve, espressione soprattutto del disagio legato a particolari contesti storici e culturali, nei quali la semplice ammissione di colpe commesse dai figli della Chiesa può assumere il significato di un cedimento di fronte alle accuse di chi è pregiudizialmente ostile ad essa. Fra consenso e disagio, si avverte il bisogno di una riflessione, che chiarisca le ragioni, le condizioni e l’esatta configurazione delle richieste di perdono relative alle colpe del passato. Di questo bisogno ha inteso farsi carico la Commissione Teologica Internazionale, nella quale sono rappresentate culture e sensibilità diverse all’interno dell’unica fede cattolica, elaborando il presente testo. In esso viene offerta una riflessione teologica sulle condizioni di possibilità degli atti di ‘purificazione della memoria’, legati al riconoscimento di colpe del passato. Le domande cui si cerca di rispondere sono: perché produrre tali atti? quali ne sono i soggetti adeguati? quale ne è l’oggetto e come esso va determinato, coniugando correttamente giudizio storico e giudizio teologico? quali sono i destinatari? quali le implicanze morali? e quali gli effetti possibili sulla vita della Chiesa e sulla società? Scopo del testo non è, dunque, quello di prendere in esame casi storici particolari, ma di chiarire i presupposti che rendano fondato il pentimento relativo a colpe passate. L’aver precisato sin dall’inizio il genere della riflessione qui presentata chiarisce anche a che cosa ci si riferisca quando in essa si parla della Chiesa: non si tratta né della sola istituzione storica, né della sola comunione spirituale dei cuori illuminati dalla fede. Per Chiesa si intenderà sempre la comunità dei battezzati, inseparabilmente visibile e operante nella storia sotto la guida dei Pastori e unificata nella profondità del suo mistero dall’azione dello Spirito vivificante: quella Chiesa, che - secondo le parole del Concilio Vaticano II - “per una non debole analogia è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta è a servizio del Verbo divino come vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa è a servizio dello Spirito di Cristo che lo vivifica, per la crescita del corpo (cf. Ef 4,16)” (3). Questa Chiesa - che abbraccia i suoi figli del passato, come quelli del presente in una reale e profonda comunione - è l’unica Madre nella Grazia che assume su di sé il peso delle colpe anche passate per purificare la memoria e vivere il rinnovamento del cuore e della vita secondo la volontà del Signore. Essa può farlo in quanto Cristo Gesú - di cui è il Corpo misticamente prolungato nella storia - ha assunto su di sé una volta per sempre i peccati del mondo. La struttura del testo rispecchia le domande poste: esso muove da una breve rivisitazione storica del tema (cap. 1), per poter poi indagare il fondamento biblico (cap. 2) e approfondire le condizioni teologiche delle richieste di perdono (cap. 3). La precisa coniugazione di giudizio storico e di giudizio teologico è elemento decisivo per giungere a pronunciamenti corretti ed efficaci, che tengano conto adeguatamente dei tempi, dei luoghi e dei contesti in cui si situano gli atti considerati (cap. 4). Alle implicanze morali (cap. 5), pastorali e missionarie (cap. 6) di questi atti di pentimento relativi alle colpe del passato sono dedicate le considerazioni finali, che hanno naturalmente un valore specifico per la Chiesa cattolica. Tuttavia, nella consapevolezza che l’esigenza di riconoscere le proprie colpe ha ragione di essere per tutti i popoli e per tutte le religioni, ci si auspica che le riflessioni proposte possano aiutare tutti ad avanzare in un cammino di verità, di dialogo fraterno e di riconciliazione. A conclusione di questa introduzione non sarà inutile richiamare
la finalità ultima di ogni possibile atto di ‘purificazione della
memoria’, compiuto dai credenti, perché essa ha ispirato anche il
lavoro della Commissione: si tratta della glorificazione di Dio, perché
vivere l’obbedienza alla Verità divina ed alle sue esigenze conduce
a confessare insieme con le nostre colpe la misericordia e la giustizia
eterne del Signore. La ‘confessio peccati’ - sostenuta e
illuminata dalla fede nella Verità che libera e salva (‘confessio
fidei’) - diventa ‘confessio laudis’ rivolta a Dio,
al cui cospetto soltanto è possibile riconoscere le colpe del passato,
come quelle del presente, per lasciarci riconciliare da Lui e con Lui in
Gesú Cristo, unico Salvatore del mondo, e divenire capaci di offrire
il perdono a quanti ci avessero offeso. Questa offerta di perdono appare
particolarmente significativa se si pensa alle tante persecuzioni subite
dai cristiani nel corso della storia. In questa prospettiva gli atti compiuti
e richiesti dal Papa in rapporto alle colpe del passato presentano un valore
esemplare e profetico, tanto per le religioni, quanto per i governi e le
nazioni, oltre che per la Chiesa cattolica, che potrà cosí
essere aiutata a vivere in maniera piú efficace il grande Giubileo
dell’incarnazione come evento di grazia e di riconciliazione per tutti.
1. IL PROBLEMA: IERI E OGGI 1.1. Prima del Vaticano II
È anzi nell’intera storia della Chiesa che non si incontrano precedenti richieste di perdono relative a colpe del passato, che siano state formulate dal Magistero. I Concili e le decretali papali sanzionavano certo gli abusi di cui si fossero resi colpevoli chierici o laici, e non pochi pastori si sforzavano sinceramente di correggerli. Rarissime sono state però le occasioni in cui le autorità ecclesiali - papa, vescovi o concili - hanno riconosciuto apertamente le colpe o gli abusi di cui si erano rese esse stesse colpevoli. Un esempio celebre è fornito dal papa riformatore Adriano VI che riconobbe apertamente, in un messaggio alla Dieta di Norimberga del 25 novembre 1522, “gli abomini, gli abusi [...] e le prevaricazioni” di cui si era resa colpevole “la corte romana” del suo tempo, “malattia [...] profondamente radicata e sviluppata”, estesa “dal capo ai membri” (7). Adriano VI deplorava colpe contemporanee, precisamente quelle del suo predecessore immediato Leone X e della sua curia, senza tuttavia associarvi una domanda di perdono. Bisognerà attendere Paolo VI per vedere un Papa esprimere una
domanda di perdono rivolta tanto a Dio, che a un gruppo di contemporanei.
Nel discorso di apertura della seconda sessione del Concilio il Papa “domanda
perdono a Dio [...] e ai fratelli separati” d’Oriente che si sentissero
offesi “da noi” (Chiesa cattolica), e si dichiara pronto, da parte sua,
a perdonare le offese ricevute. Nell’ottica di Paolo VI la domanda e l’offerta
di perdono riguardavano unicamente il peccato della divisione tra i cristiani
e supponevano la reciprocità.
1.2. L’insegnamento del Concilio
Dal punto di vista teologico il Vaticano II distingue fra la fedeltà indefettibile della Chiesa e le debolezze dei suoi membri, chierici o laici, ieri come oggi (12), e dunque fra di essa, Sposa di Cristo “senza macchia né ruga [...] santa e immacolata” (cf. Ef 5,27), e i suoi figli, peccatori perdonati, chiamati alla metanoia permanente, al rinnovamento nello Spirito Santo. “La Chiesa, che comprende nel suo seno i peccatori, santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento” (13). Il Concilio ha anche elaborato alcuni criteri di discernimento riguardo
alla colpevolezza o alla responsabilità dei vivi per le colpe passate.
In effetti, ha richiamato, in due contesti differenti, la non imputabilità
ai contemporanei di colpe commesse nel passato da membri della loro comunità
religiosa:
Al primo Anno Santo celebrato dopo il Concilio, nel 1975, Paolo VI aveva
dato per tema ‘rinnovamento e riconciliazione’ (16), precisando,
nell’Esortazione apostolica Paterna cum benevolentia, che
la riconciliazione doveva anzitutto operarsi tra i fedeli della Chiesa
cattolica (17). Come nella
sua origine, l’Anno Santo restava un’occasione di conversione e di riconciliazione
dei peccatori con Dio attraverso l’economia sacramentale della Chiesa.
1.3. Le richieste di perdono di Giovanni Paolo II
La Chiesa è invitata a “farsi carico con piú viva consapevolezza del peccato dei suoi figli”. Essa “riconosce sempre come propri i figli peccatori”, e li incita a “purificarsi, nel pentimento, da errori, infedeltà, incoerenze, ritardi” (22). La responsabilità dei cristiani nei mali del nostro tempo è parimenti evocata (23), anche se l’accento cade particolarmente sulla solidarietà della Chiesa d’oggi con le colpe passate, di cui alcune sono esplicitamente menzionate, come la divisione tra i cristiani (24), o i “metodi di violenza e di intolleranza” utilizzati nel passato per evangelizzare (25). Lo stesso Giovanni Paolo II stimola l’approfondimento teologico sul
farsi carico di colpe del passato e sull’eventuale domanda di perdono ai
contemporanei (26)quando, nell’Esortazione
Reconciliatio et paenitentia, afferma che, nel sacramento
della penitenza, “il peccatore si trova solo davanti a Dio con la sua colpa,
il suo pentimento e la sua fiducia. Nessuno può pentirsi al suo
posto o domandare perdono in suo nome”. Il peccato è dunque sempre
personale, anche se ferisce la Chiesa intera, che, rappresentata dal sacerdote
ministro della penitenza, è mediatrice sacramentale della grazia
che riconcilia con Dio (27). Anche
le situazioni di ‘peccato sociale’ - che si verificano all’interno delle
comunità umane quando la giustizia, la libertà e la pace
risultano lese - “sono sempre il frutto, l’accumulazione e la concentrazione
di peccati personali”. Allorché la responsabilità morale
risultasse diluita in cause anonime, non si potrebbe parlare di peccato
sociale che per analogia (28). Ne
risulta che l’imputabilità di una colpa non può essere estesa
propriamente al di là del gruppo di persone che vi hanno consentito
volontariamente, mediante azioni o omissioni, o per negligenza.
1.4. Le questioni sollevate
La difficoltà che si profila è quella di definire le colpe passate, a causa anzitutto del giudizio storico che ciò esige, perché in ciò che è avvenuto va sempre distinta la responsabilità o la colpa attribuibile ai membri della Chiesa in quanto credenti, da quella riferibile alla società dei secoli detti ‘di cristianità’ o alle strutture di potere nelle quali il temporale e lo spirituale erano allora strettamente intrecciati. Un’ermeneutica storica è dunque quanto mai necessaria per fare adeguata distinzione fra l’azione della Chiesa come comunità di fede e quella della società nei tempi di osmosi fra di esse. I passi compiuti da Giovanni Paolo II per chiedere perdono di colpe del passato sono stati compresi in moltissimi ambienti, ecclesiali e non, come segni di vitalità e di autenticità della Chiesa, tali da rafforzare la sua credibilità. È giusto, peraltro, che la Chiesa contribuisca a modificare immagini di sé false e inaccettabili, specie nei campi in cui, per ignoranza o malafede, alcuni settori d’opinione si compiacciono nell’identificarla con l’oscurantismo e l’intolleranza. Le richieste di perdono formulate dal Papa hanno anche suscitato una positiva emulazione nell’ambito ecclesiale e al di là di esso. Capi di Stato o di governo, società private e pubbliche, comunità religiose domandano attualmente perdono per episodi o periodi storici segnati da ingiustizie. Questa prassi è tutt’altro che retorica, tanto che alcuni esitano ad accoglierla, calcolando i costi conseguenti - tra l’altro sul piano giudiziario - a un riconoscimento di solidarietà con colpe passate. Anche da questo punto di vista, urge dunque un discernimento rigoroso. Non mancano tuttavia fedeli sconcertati, in quanto la loro lealtà verso la Chiesa sembra scossa. Alcuni di essi si chiedono come trasmettere l’amore alla Chiesa alle giovani generazioni se questa stessa Chiesa è imputata di crimini e di colpe. Altri osservano che il riconoscimento delle colpe è per lo piú unilaterale e sfruttato dai detrattori della Chiesa, soddisfatti nel vederla confermare i pregiudizi che essi hanno nei suoi riguardi. Altri ancora mettono in guardia dal colpevolizzare arbitrariamente le generazioni attuali dei credenti per mancanze alle quali essi non acconsentono in nessun modo, pur dichiarandosi pronti ad assumersi le loro responsabilità nella misura in cui dei gruppi umani si sentissero ancora oggi toccati dalle conseguenze di ingiustizie subite dai loro predecessori in altri tempi. Alcuni, poi, ritengono che la Chiesa potrà purificare la sua memoria rispetto alle azioni ambigue nelle quali è stata coinvolta nel passato semplicemente prendendo parte al lavoro critico sulla memoria sviluppatosi nella nostra società. Cosí essa potrebbe affermare di condividere con i suoi contemporanei il rifiuto di ciò che la coscienza morale attuale riprova, senza proporsi come l’unica colpevole e responsabile dei mali del passato, ricercando al contempo il dialogo nella reciproca comprensione con quanti si sentissero ancora oggi feriti da atti passati imputabili ai figli della Chiesa. Infine, c’è da aspettarsi che alcuni gruppi possano reclamare una domanda di perdono nei loro confronti, o per analogia con altri o perché ritengono di aver subito dei torti. In ogni caso, la purificazione della memoria non potrà mai significare che la Chiesa rinunci a proclamare la verità rivelata, che le è stata confidata, sia nel campo della fede, che in quello della morale. Si profilano, cosí, diversi interrogativi: si può investire
la coscienza attuale di una ‘colpa’ collegata a fenomeni storici irripetibili,
come le crociate o l’inquisizione? Non è fin troppo facile giudicare
i protagonisti del passato con la coscienza attuale (come fanno Scribi
e Farisei secondo Mt 23,29-32), quasi che la coscienza morale non sia situata
nel tempo? E, d’altra parte, si può forse negare che il giudizio
etico è sempre in gioco, per il semplice fatto che la verità
di Dio e le sue esigenze morali hanno sempre valore? Quale che sia l’atteggiamento
da adottare, esso dovrà fare i conti con queste domande, e cercare
risposte che siano fondate nella rivelazione e nella sua vivente trasmissione
nella fede della Chiesa. La questione prioritaria è dunque quella
di chiarire in che misura le domande di perdono per le colpe del passato,
soprattutto se indirizzate a gruppi umani attuali, entrino nell’orizzonte
biblico e teologico della riconciliazione con Dio e con il prossimo.
2. APPROCCIO BIBLICO È possibile sviluppare in vari modi un’indagine sul riconoscimento che Israele fa delle sue colpe nell’Antico Testamento e sul tema della confessione delle colpe cosí come esso si presenta nelle tradizioni del Nuovo Testamento (30). La natura teologica della riflessione qui condotta induce a privilegiare un approccio di genere prevalentemente tematico, muovendo dalla domanda seguente: quale retroterra la testimonianza della Sacra Scrittura fornisce all’invito che Giovanni Paolo II fa alla Chiesa a confessare le colpe del passato? 2.1. L’Antico Testamento
In essa si possono identificare diverse possibilità, a seconda
di chi fa la confessione dei peccati del popolo e di chi è associato
o meno alla colpa comune, prescindendo dalla presenza o meno di una coscienza
della responsabilità personale (maturata solo progressivamente:
cf. Ez 14,12-23; 18,1-32; 33,10-20). In base a questi criteri si possono
distinguere i seguenti casi, peraltro piuttosto fluidi:
Piú di frequente le confessioni che menzionano le colpe degli antenati le collegano espressamente agli errori della generazione presente (34). Dalle testimonianze raccolte risulta che in tutti i casi dove sono menzionati i ‘peccati dei padri’ la confessione è indirizzata unicamente a Dio ed i peccati confessati dal popolo o per il popolo sono quelli commessi direttamente contro di Lui, piuttosto che quelli compiuti (anche) contro altri esseri umani (solo in Nm 21,7 si fa cenno a una parte umana lesa, Mosè) (35). Sorge la questione sul perché gli scrittori biblici non abbiano sentito il bisogno di richieste di perdono rivolte ad interlocutori presenti riguardo a colpe commesse dai padri, nonostante il loro forte senso della solidarietà fra le generazioni nel bene e nel male (si pensi all’idea della ‘personalità corporativa’). Varie ipotesi potrebbero essere avanzate in risposta a questa questione. C’è, anzitutto, il diffuso teocentrismo della Bibbia che dà la precedenza al riconoscimento sia individuale che nazionale delle colpe commesse verso Dio. Per di piú, atti di violenza perpetrati da Israele contro altri popoli, che sembrerebbero esigere una richiesta di perdono a quei popoli o ai loro discendenti, sono intesi come l’esecuzione delle direttive divine riguardo ad essi, come ad esempio Gs 2-11 e Dt 7, 2 (lo sterminio dei Cananei) o 1 Sam 15 e Dt 25,19 (la distruzione degli Amaleciti). In tali casi il mandato divino implicato parrebbe escludere ogni possibile richiesta di perdono da farsi (36). Le esperienze subite da Israele di maltrattamenti da parte di altri popoli e l’animosità cosí suscitata potrebbero anche aver militato contro l’idea di chiedere perdono a questi popoli per il male ad essi arrecato (37). Resta comunque rilevante nella testimonianza biblica il senso della
solidarietà intergenerazionale nel peccato (e nella grazia), che
si esprime nella confessione davanti a Dio dei ‘peccati degli antenati’,
tanto che - citando la splendida preghiera di Azaria - Giovanni Paolo II
ha potuto affermare: “‘Benedetto sei tu, Signore, Dio dei nostri padri
[...] noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da Te,
abbiamo mancato in ogni modo. Non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti’
(Dn 3,26.29) Cosí pregavano gli Ebrei dopo l’esilio (cf. anche Bar
2,11-13), facendosi carico delle colpe commesse dai loro padri. La Chiesa
imita il loro esempio e chiede perdono per le colpe anche storiche dei
suoi figli” (38).
2.2. Il Nuovo Testamento
Questo motivo, decisivo nell’insegnamento di Gesú, diviene il ‘comandamento nuovo’ nel Vangelo di Giovanni: i discepoli dovranno amare come Lui ha amato (cf. Gv 13,34-35; 15,12. 17), cioè perfettamente, ‘fino alla fine’ (Gv 13,1). Il cristiano, cioè, è chiamato ad amare e perdonare secondo una misura che trascende ogni misura umana di giustizia e produce una reciprocità fra gli esseri umani che riflette quella fra Gesú e il Padre (cf. Gv 13,34s; 15,1-11; 17,21-26). In quest’ottica, grande rilievo è dato al tema della riconciliazione e del perdono delle offese. Ai suoi discepoli Gesú chiede di essere sempre pronti a perdonare quanti li abbiano offesi, cosí come Dio stesso offre sempre il suo perdono: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6, 12. 12-15). Chi è in grado di perdonare al prossimo dimostra di aver compreso il bisogno che personalmente ha del perdono di Dio. Il discepolo è invitato a perdonare “fino a settanta volte sette” chi l’offende, anche se questi non domandasse perdono (cf. Mt 18,21-22). Gesú insiste sull’atteggiamento richiesto alla persona offesa nei confronti dei suoi offensori: essa è chiamata a fare il primo passo, cancellando l’offesa mediante il perdono offerto “di cuore” (cf. Mt 18,35; Mc 11,25), consapevole di essere essa stessa peccatrice di fronte a Dio, che mai rifiuta il perdono invocato con sincerità. In Mt 5,23-24 Gesú chiede all’offensore di “andare a riconciliarsi col proprio fratello, che ha qualche cosa contro di lui”, prima di presentare la sua offerta all’altare: non è gradito a Dio un atto di culto reso da chi non voglia prima riparare il danno causato al proprio prossimo. Ciò che conta è cambiare il proprio cuore e mostrare in maniera adeguata che si vuole realmente la riconciliazione. Il peccatore, comunque, nella coscienza che i suoi peccati feriscono al tempo stesso la sua relazione con Dio e quella col prossimo (cf. Lc 15,21), può aspettarsi il perdono solo da Dio, perché solo Dio è sempre misericordioso e pronto a cancellare i peccati. Questo è anche il significato del sacrificio di Cristo, che una volta per sempre ci ha purificati dai nostri peccati (cf. Eb 9,22; 10,18). Cosí l’offensore e l’offeso sono riconciliati da Dio nella Sua misericordia che tutti accoglie e perdona. In questo quadro, che potrebbe ampliarsi mediante l’analisi delle Lettere di Paolo e delle Epistole Cattoliche, non v’è alcun indizio che la Chiesa delle origini abbia rivolto la sua attenzione ai peccati del passato per chiedere perdono. Ciò può spiegarsi con la forte consapevolezza della novità cristiana, che proietta la comunità piuttosto verso il futuro che verso il passato. Si incontra, tuttavia, una piú ampia e sottile insistenza che pervade il Nuovo Testamento: nei Vangeli e nelle Lettere l’ambivalenza propria dell’esperienza cristiana è ampiamente riconosciuta. Per Paolo, ad esempio, la comunità cristiana è un popolo escatologico, che vive già la ‘nuova creazione’ (cf. 2 Cor 5,17; Gal 6,15), ma questa esperienza, resa possibile dalla morte e risurrezione di Gesú (cf. Rm 3,21-26; 5,6-11; 8,1-11; 1 Cor 15,54-57), non ci libera dall’inclinazione al peccato presente nel mondo a causa della caduta di Adamo. Come risultato dell’intervento divino nella e attraverso la morte e risurrezione di Gesú vi sono ora due scenari possibili: la storia di Adamo e quella di Cristo. Esse scorrono fianco a fianco ed il credente deve contare sulla morte e risurrezione del Signore Gesú (cf. ad esempio Rm 6,1-11; Gal 3,27-28; Col 3,10; 2 Cor 5,14-15) per esser parte della storia in cui “sovrabbonda la grazia” (cf. Rm 5,12-21). Una simile rilettura teologica dell’evento pasquale di Cristo mostra come la Chiesa delle origini avesse un’acuta consapevolezza delle possibili mancanze dei battezzati. Si potrebbe dire che l’intero ‘corpus paulinum’ richiami i credenti a un riconoscimento pieno della loro dignità, pur nella viva coscienza della fragilità della loro condizione umana: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitú” (Gal 5,1). Un analogo motivo può riscontrarsi dalle narrazioni dei Vangeli. Esso emerge incisivamente in Marco, dove le carenze dei discepoli di Gesú sono uno dei temi dominanti del racconto (cf. Mc 4,40-41; 6,36-37.51-52; 8,14-21.31-33; 9,5-6.32-41; 10,32-45; 14,10-11.17-21.27-31.50; 16,8). Sebbene sia comprensibilmente sfumato, lo stesso motivo ritorna in tutti gli Evangelisti. Giuda e Pietro sono rispettivamente il traditore e colui che rinnega il Maestro, anche se Giuda giunge alla disperazione per l’atto compiuto (cf. At 1,15-20), mentre Pietro si pente (cf. Lc 22,61s) e perviene alla triplice professione di amore (cf. Gv 21,15-19). In Matteo, perfino durante l’apparizione finale del Signore risorto, mentre i discepoli lo adorano, “alcuni ancora dubitavano” (Mt 28,17). Il Quarto Vangelo presenta i discepoli come quelli cui è donato un incommensurabile amore, sebbene la loro risposta sia fatta di ignoranza, mancanze, rinnegamento e tradimento (cf. 13,1-38). Questa costante presentazione dei discepoli chiamati a seguire Gesú,
che vacillano nella loro arrendevolezza al peccato, non è semplicemente
una rilettura critica della storia delle origini. I racconti sono impostati
in modo da rivolgersi a ogni successivo discepolo di Cristo in difficoltà,
che guarda al Vangelo come alla propria guida e ispirazione. Peraltro il
Nuovo Testamento è pieno di raccomandazioni a comportarsi bene,
a vivere un piú alto livello di impegno, ad evitare il male (cf.
ad esempio Gc 1,5-8.19-21; 2,1-7; 4,1-10; 1 Pt 1,13-25; 2 Pt 2,1-22; Gd
3-13; 1 Gv 1,5-10; 2,1-11.18-27; 4,1-6; 2 Gv 7-11; 3 Gv 9-10). Non c’è
però alcun esplicito richiamo indirizzato ai primi cristiani a confessare
delle colpe del passato, anche se è certo molto significativo il
riconoscimento della realtà del peccato e del male anche all’interno
del popolo chiamato all’esistenza escatologica propria della condizione
cristiana (si pensi solo ai rimproveri contenuti nelle lettere alle sette
Chiese dell’Apocalisse). Secondo la petizione che si trova nella preghiera
del Signore questo popolo invoca: “Perdonaci i nostri peccati, perché
anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore” (Lc 11,4; cf. Mt 6,12). I
primi cristiani, insomma, mostrano di essere ben consapevoli di poter agire
in maniera non corrispondente alla vocazione ricevuta, non vivendo il battesimo
della morte e risurrezione di Gesú con cui erano stati battezzati.
2.3. Il Giubileo biblico
La legislazione di Lv 25 costituisce un tentativo di capovolgere tutto questo (tanto da poter dubitare che sia mai stata messa in pratica pienamente!): essa convocava la celebrazione del Giubileo ogni 50 anni al fine di preservare il tessuto sociale del popolo di Dio e restituire l’indipendenza anche alla piú piccola famiglia del paese. È decisiva per Lv 25 la regolare ripetizione della confessione di fede d’Israele nel Dio che ha liberato il Suo popolo attraverso l’Esodo: “Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto, per darvi il paese di Canaan, per essere il vostro Dio” (Lv 25,38; cf. vv. 42.45). La celebrazione del Giubileo era un’implicita ammissione di colpa e un tentativo di ristabilire un ordine giusto. Ogni sistema che alienasse un qualunque Israelita, una volta schiavo, ma ora liberato dal braccio potente di Dio, veniva di fatto a smentire l’azione salvifica divina nell’Esodo e attraverso di esso. La liberazione delle vittime e dei sofferenti diventa parte del piú
ampio programma dei profeti. Il Deutero-Isaia, nei Carmi del Servo sofferente
(Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12), sviluppa queste allusioni alla
pratica del Giubileo con i temi del riscatto e della libertà, del
ritorno e della redenzione. Isaia 58 è un attacco contro l’osservanza
rituale che non ha riguardo per la giustizia sociale, un richiamo alla
liberazione degli oppressi (Is 58,6), centrato specificamente sugli obblighi
di parentela (v. 7). Piú chiaramente, Isaia 61 usa le immagini del
Giubileo per ritrarre l’Unto come l’araldo di Dio inviato ad ‘evangelizzare’
i poveri, a proclamare la libertà ai prigionieri e ad annunciare
l’anno di grazia del Signore. È significativamente proprio questo
testo, con un’allusione a Isaia 58,6, che Gesú usa per presentare
il compito della sua vita e del suo ministero in Luca 4,17-21.
2.4. Conclusione
3. FONDAMENTI TEOLOGICI “È giusto che, mentre il secondo millennio del cristianesimo
volge al termine, la Chiesa si faccia carico con piú viva consapevolezza
del peccato dei suoi figli nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui,
nell’arco della storia, essi si sono allontanati dallo spirito di Cristo
e del suo Vangelo, offrendo al mondo, anziché la testimonianza di
una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare
e di agire che erano vere forme di controtestimonianza e di scandalo. La
Chiesa, pur essendo santa per la sua incorporazione a Cristo, non si stanca
di fare penitenza: essa riconosce sempre come propri, davanti a Dio e agli
uomini, i figli peccatori” (40). Queste
parole di Giovanni Paolo II sottolineano come la Chiesa sia toccata dal
peccato dei suoi figli: santa, in quanto resa tale dal Padre mediante il
sacrificio del Figlio e il dono dello Spirito, essa è in un certo
senso anche peccatrice, in quanto assume realmente su di sé il peccato
di coloro che essa stessa ha generato nel battesimo, analogamente a come
il Cristo Gesú ha assunto il peccato del mondo (cf. Rm 8,3; 2 Cor
5,21; Gal 3,13; 1 Pt 2,24) (41). Appartiene
peraltro alla piú profonda autocoscienza ecclesiale nel tempo il
convincimento che la Chiesa non sia solo una comunità di eletti,
ma comprenda nel suo seno giusti e peccatori del presente, come del passato,
nell’unità del mistero, che la costituisce. Nella grazia, infatti,
come nella ferita del peccato, i battezzati di oggi sono vicini e solidali
a quelli di ieri. Perciò si può dire che la Chiesa - una
nel tempo e nello spazio in Cristo e nello Spirito - è veramente
“santa insieme e sempre bisognosa di purificazione” (42). Da
questo paradosso - caratteristico del mistero ecclesiale - nasce l’interrogativo
su come si concilino i due aspetti: da una parte, l’affermazione di fede
della santità della Chiesa; dall’altra, il suo incessante bisogno
di penitenza e di purificazione.
3.1. Il mistero della Chiesa
La non debole analogia col mistero del Verbo incarnato implica tuttavia anche una fondamentale differenza: “Mentre Cristo ‘santo, innocente, immacolato’ (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cf. 2 Cor 5,21), ma venne allo scopo di espiare i soli peccati del popolo (cf. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno i peccatori, santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento” (45). L’assenza di peccato nel Verbo Incarnato non può attribuirsi al Suo Corpo ecclesiale, al cui interno, anzi, ciascuno - partecipe della grazia donata da Dio - è non di meno bisognoso di vigilanza e di incessante purificazione e solidale con la debolezza degli altri: “Tutti i membri della Chiesa, compresi i suoi ministri, devono riconoscersi peccatori (cf. 1 Gv 1,8-10). In tutti, sino alla fine dei tempi, la zizzania del peccato si trova ancora mescolata al buon grano del Vangelo (cf. Mt 13,24-30). La Chiesa raduna dunque dei peccatori raggiunti dalla salvezza di Cristo, ma sempre in via di santificazione” (46). Già Paolo VI aveva solennemente affermato che “la Chiesa è
santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa
non possiede altra vita se non quella della grazia. [...] Perciò
la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui peraltro ha il
potere di guarire i suoi figli con il sangue di Cristo e il dono dello
Spirito Santo” (47). La Chiesa
è insomma nel suo ‘mistero’ incontro di santità e di debolezza
continuamente redenta e sempre di nuovo bisognosa della forza della redenzione.
Come insegna la liturgia, vera ‘lex credendi’, il singolo fedele e il popolo
dei santi invocano da Dio che il Suo sguardo si posi sulla fede della Sua
Chiesa e non sui peccati dei singoli, che di questa fede vissuta sono la
negazione: “Ne respicias peccata nostra, sed fidem Ecclesiae tuae!”. Nell’unità
del mistero ecclesiale attraverso il tempo e lo spazio è possibile
allora considerare l’aspetto della santità, il bisogno di pentimento
e di riforma, e la loro articolazione nell’agire della Chiesa Madre.
3.2. La santità della Chiesa
Alla santità della Chiesa deve dunque corrispondere la santità
nella Chiesa: “I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro
opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesú
Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio
e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi
quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare
la santità che hanno ricevuta” (49). Il
battezzato è chiamato a divenire con tutta la sua esistenza ciò
che è diventato in forza della consacrazione battesimale: e questo
non avviene senza l’assenso della sua libertà e l’aiuto della Grazia
che viene da Dio. Quando ciò avviene, si lascia riconoscere nella
storia l’umanità nuova secondo Dio: nessuno diventa se stesso tanto
pienamente, quanto il santo che accoglie il piano divino e con l’aiuto
della Grazia conforma tutto il proprio essere al progetto dell’Altissimo!
I santi sono in questo senso come delle luci suscitate dal Signore in mezzo
alla sua Chiesa per illuminarla, profezia per il mondo intero.
3.3. La necessità di un continuo rinnovamento
È pertanto la Chiesa intera che, mediante la confessione del
peccato dei suoi figli, confessa la sua fede in Dio e ne celebra l’infinita
bontà e capacità di perdono: grazie al vincolo stabilito
dallo Spirito Santo la comunione che esiste fra tutti i battezzati nel
tempo e nello spazio è tale, che in essa ciascuno è se stesso,
ma nello stesso tempo è condizionato dagli altri ed esercita su
di loro un influsso nello scambio vitale dei beni spirituali. In tal modo,
la santità degli uni influenza la crescita nel bene degli altri,
ma anche il peccato non ha mai soltanto una rilevanza esclusivamente individuale,
perché pesa e oppone resistenza sul cammino della salvezza di tutti
e in tal senso tocca veramente la Chiesa nella sua interezza, attraverso
la varietà dei tempi e dei luoghi. Questa convinzione spinge i Padri
ad affermazioni nette come questa di Ambrogio: “Stiamo bene attenti a che
la nostra caduta non diventi una ferita della Chiesa” (54). Essa,
perciò, “pur essendo santa per la sua incorporazione a Cristo, non
si stanca di fare penitenza: e riconosce sempre come propri, davanti a
Dio e agli uomini, i figli peccatori” (55), quelli
di oggi, come quelli di ieri.
3.4. La maternità della Chiesa
Secondo questa visione, la Chiesa si realizza continuamente nello scambio e nella comunicazione dello Spirito dall’uno all’altro dei credenti come ambiente generatore di fede e di santità nella comunione fraterna, nell’unanimità orante, nella partecipazione solidale alla Croce, nella testimonianza comune. In forza di questa comunicazione vitale ciascun battezzato può essere considerato al tempo stesso figlio della Chiesa, in quanto generato in essa alla vita divina, e Chiesa Madre, in quanto coopera con la sua fede e la sua carità a generare nuovi figli per Dio: è anzi tanto piú Chiesa Madre, quanto piú grande è la sua santità e piú ardente lo sforzo di comunicare ad altri il dono ricevuto. D’altra parte, non cessa di essere figlio della Chiesa il battezzato che a causa del peccato si separasse col cuore da essa: egli potrà sempre di nuovo accedere alle sorgenti della grazia e rimuovere il peso che la sua colpa fa gravare sull’intera comunità della Chiesa Madre. Questa, a sua volta, come vera Madre non potrà non essere ferita dal peccato dei suoi figli di oggi, come di ieri, continuando sempre ad amarli, al punto da farsi carico in ogni tempo del peso prodotto dalle loro colpe: in quanto tale, la Chiesa appare ai Padri come Madre dei dolori, non solo a causa delle persecuzioni esterne, ma soprattutto per i tradimenti, i fallimenti, i ritardi e le contaminazioni dei suoi figli. La santità e il peccato nella Chiesa si riflettono dunque nei loro effetti sulla Chiesa intera, anche se è convinzione della fede che la santità sia piú forte del peccato in quanto frutto della grazia divina: ne sono prova luminosa le figure dei santi, riconosciuti come modello e aiuto per tutti! Fra la grazia e il peccato non c’è un parallelismo, e neppure una sorta di simmetria o di rapporto dialettico: l’influsso del male non potrà mai vincere la forza della grazia e l’irradiazione del bene, anche il piú nascosto! In questo senso la Chiesa si riconosce esistenzialmente santa nei suoi santi: mentre però si rallegra di questa santità e ne avverte il beneficio, si confessa non di meno peccatrice, non in quanto soggetto del peccato, ma in quanto assume con solidarietà materna il peso delle colpe dei suoi figli, per cooperare al loro superamento sulla via della penitenza e della novità di vita. Perciò, la Chiesa santa avverte il dovere “di rammaricarsi profondamente per le debolezze di tanti suoi figli, che ne hanno deturpato il volto, impedendole di riflettere pienamente l’immagine del suo Signore crocifisso, testimone insuperabile di amore paziente e di umile mitezza” (61). Ciò può essere fatto in modo particolare da chi per carisma
e ministero esprime nella forma piú densa la comunione del popolo
di Dio: a nome delle Chiese locali potranno dar voce alle eventuali confessioni
di colpa e richieste di perdono i rispettivi Pastori; a nome della Chiesa
intera, una nel tempo e nello spazio, potrà pronunciarsi Colui che
esercita il ministero universale di unità, il Vescovo della Chiesa
“che presiede nell’amore” (62), il
Papa. Ecco perché è particolarmente significativo che sia
venuto proprio da Lui l’invito a che “la Chiesa si faccia carico con piú
viva consapevolezza del peccato dei suoi figli” e riconosca la necessità
di farne “ammenda, invocando con forza il perdono di Cristo” (63).
4. GIUDIZIO STORICO E GIUDIZIO TEOLOGICO L’individuazione delle colpe del passato di cui fare ammenda implica anzitutto un corretto giudizio storico, che sia alla base anche della valutazione teologica. Ci si deve domandare: che cosa è precisamente avvenuto? che cosa è stato propriamente detto e fatto? Solo quando a questi interrogativi sarà stata data una risposta adeguata, frutto di un rigoroso giudizio storico, ci si potrà anche chiedere se ciò che è avvenuto, che è stato detto o compiuto può essere interpretato come conforme o no al Vangelo, e, nel caso non lo fosse, se i figli della Chiesa che hanno agito cosí avrebbero potuto rendersene conto a partire dal contesto in cui operavano. Unicamente quando si perviene alla certezza morale che quanto è stato fatto contro il Vangelo da alcuni figli della Chiesa ed a suo nome avrebbe potuto essere compreso da essi come tale ed evitato, può aver significato per la Chiesa di oggi fare ammenda di colpe del passato. Il rapporto tra ‘giudizio storico’ e ‘giudizio teologico’ risulta dunque
tanto complesso, quanto necessario e determinante. Perciò, occorre
metterlo in atto senza prevaricazioni da una parte o dall’altra: ciò
che bisogna evitare è tanto un’apologetica che voglia tutto giustificare,
quanto un’indebita colpevolizzazione, fondata sull’attribuzione di responsabilità
storicamente insostenibili. Ha affermato Giovanni Paolo II, riferendosi
alla valutazione storico-teologica dell’opera dell’Inquisizione: “Il Magistero
ecclesiale non può certo proporsi di compiere un atto di natura
etica, quale è la richiesta di perdono, senza prima essersi esattamente
informato circa la situazione di quel tempo. Ma neppure può appoggiarsi
sulle immagini del passato veicolate dalla pubblica opinione, giacché
esse sono spesso sovraccariche di una emotività passionale che impedisce
la diagnosi serena ed obiettiva [...]. Ecco perché il primo passo
consiste nell’interrogare gli storici, ai quali non viene chiesto un giudizio
di natura etica, che sconfinerebbe dall’ambito delle loro competenze, ma
di offrire un aiuto alla ricostruzione il piú possibile precisa
degli avvenimenti, degli usi, della mentalità di allora, alla luce
del contesto storico dell’epoca” (64).
4.1. L’interpretazione della storia
In secondo luogo, fra chi interpreta e ciò che è interpretato si deve riconoscere una certa coappartenenza, senza la quale nessun legame e nessuna comunicazione potrebbero sussistere fra passato e presente: questo legame comunicativo è fondato nel fatto che ogni essere umano di ieri o di oggi si situa in un complesso di relazioni storiche ed ha bisogno per viverle della mediazione linguistica, sempre storicamente determinata. Tutti apparteniamo alla storia! Mettere in luce la coappartenenza fra l’interprete e l’oggetto dell’interpretazione - che deve essere raggiunto attraverso le molteplici forme in cui il passato ha lasciato testimonianza di sé (testi, monumenti, tradizioni, ecc.) - vuol dire giudicare della correttezza delle possibili corrispondenze e delle eventuali difficoltà di comunicazione col presente rilevate dalla propria intelligenza delle parole o degli eventi passati: ciò esige di tener conto delle domande che motivano la ricerca e della loro incidenza sulle risposte ottenute, del contesto vitale in cui si opera e della comunità interpretante, il cui linguaggio si parla ed alla quale si intende parlare. A tal fine è necessario rendere il piú possibile riflessa e consapevole la precomprensione, che di fatto è sempre inclusa in ogni interpretazione, per misurarne e temperarne la reale incidenza sul processo interpretativo. Infine, fra chi interpreta e il passato oggetto dell’interpretazione viene a compiersi, attraverso lo sforzo conoscitivo e valutativo, una osmosi (‘fusione di orizzonti’), in cui consiste propriamente l’atto della comprensione. In essa si esprime quella che si giudica essere l’intelligenza corretta degli eventi o delle parole del passato: il che equivale a cogliere il significato che essi possono avere per l’interprete e il suo mondo. Grazie a questo incontro di mondi vitali la comprensione del passato si traduce nella sua applicazione al presente: il passato è colto nelle potenzialità che schiude, nello stimolo che offre a modificare il presente; la memoria diventa capace di suscitare nuovo futuro. All’osmosi feconda col passato si giunge attraverso l’intreccio di alcune
operazioni ermeneutiche fondamentali, corrispondenti ai momenti indicati
dell’estraneità, della coappartenenza e della comprensione vera
e propria. In relazione a un ‘testo’ del passato - inteso in generale come
testimonianza scritta, orale, monumentale o figurativa - queste operazioni
possono essere espresse cosí: “1) Capire il testo, 2) giudicare
della correttezza della propria intelligenza del testo e 3) esprimere quella
che si giudica essere l’intelligenza corretta del testo” (66). Capire
la testimonianza del passato vuol dire raggiungerla il piú possibile
nella sua oggettività, attraverso tutte le fonti di cui è
possibile disporre; giudicare della correttezza della propria interpretazione
significa verificare con onestà e rigore in che misura essa possa
essere stata orientata o comunque condizionata dalla precomprensione e
dai possibili pregiudizi dell’interprete; esprimere l’interpretazione raggiunta
significa rendere gli altri partecipi del dialogo intessuto col passato,
sia per verificarne la rilevanza, sia per esporsi al confronto di eventuali
altre interpretazioni.
4.2. Indagine storica e valutazione teologica
In secondo luogo, la correlazione di giudizio storico e giudizio teologico deve tener conto del fatto che, per l’interpretazione della fede, il legame fra passato e presente non è motivato solo dall’interesse attuale e dalla comune appartenenza di ogni essere umano alla storia e alle sue mediazioni espressive, ma si fonda anche sull’azione unificante dello Spirito di Dio e sull’identità permanente del principio costitutivo della comunione dei credenti, che è la rivelazione. La Chiesa - in forza della comunione prodotta in essa dallo Spirito di Cristo nel tempo e nello spazio - non può non riconoscersi nel suo principio soprannaturale, presente e operante in tutti i tempi, come soggetto in certo modo unico, chiamato a corrispondere al dono di Dio in forme e situazioni diverse attraverso le scelte dei suoi figli, pur con tutte le carenze che possono averle caratterizzate. La comunione nell’unico Spirito Santo fonda anche diacronicamente una comunione dei ‘santi’, in forza della quale i battezzati di oggi si sentono legati ai battezzati di ieri e - come beneficiano dei loro meriti e si nutrono della loro testimonianza di santità - cosí si sentono in dovere di assumere l’eventuale peso attuale delle loro colpe, dopo averne fatto attento discernimento storico e teologico. Grazie a questo fondamento oggettivo e trascendente della comunione
del popolo di Dio nelle sue varie situazioni storiche, l’interpretazione
credente riconosce al passato della Chiesa un significato per l’oggi del
tutto peculiare: l’incontro con esso, che si produce nell’atto dell’interpretazione,
può rivelarsi carico di particolari valenze per il presente, ricco
di una efficacia ‘performativa’ non sempre previamente calcolabile. Naturalmente,
la forte unitarietà dell’orizzonte ermeneutico e del soggetto ecclesiale
interpretante espone piú facilmente lo sguardo teologico al rischio
di cedere a letture apologetiche o strumentali: è qui che l’esercizio
ermeneutico volto a capire eventi e parole del passato e a misurare la
correttezza della loro interpretazione per l’oggi è quanto mai necessario.
La lettura credente si servirà a tal fine di tutti i possibili contributi
offerti dalle scienze storiche e dai metodi interpretativi. L’esercizio
dell’ermeneutica storica non dovrà però impedire alla valutazione
della fede di interpellare i testi secondo la peculiarità che la
caratterizza, e quindi facendo interagire presente e passato nella coscienza
dell’unità fondamentale del soggetto ecclesiale implicato in essi.
Ciò mette in guardia da ogni storicismo che relativizzi il peso
delle colpe passate e che consideri la storia giustificatrice di tutto.
Come osserva Giovanni Paolo II, “un corretto giudizio storico non può
prescindere da un’attenta considerazione dei condizionamenti culturali
del momento [...]. Ma la considerazione delle circostanze attenuanti non
esonera la Chiesa dal dovere di rammaricarsi profondamente per le debolezze
di tanti suoi figli” (67). La
Chiesa, insomma, “non teme la verità che emerge dalla storia ed
è pronta a riconoscere gli sbagli, là dove sono accertati,
soprattutto quando si tratta del rispetto dovuto alle persone e alle comunità.
Essa è propensa a diffidare delle sentenze generalizzate di assoluzione
o di condanna rispetto alle varie epoche storiche. Affida l’indagine sul
passato alla paziente e onesta ricostruzione scientifica, libera da pregiudizi
di tipo confessionale o ideologico, sia per quanto riguarda gli addebiti
che le vengono fatti, sia per i torti da essa subiti” (68). Gli
esempi offerti nel capitolo seguente potranno darne una concreta dimostrazione.
5. DISCERNIMENTO ETICO Perché la Chiesa compia un appropriato esame di coscienza storico
al cospetto di Dio in vista del proprio rinnovamento interiore e della
crescita nella grazia e nella santità, è necessario che essa
sappia riconoscere le “forme di controtestimonianza e di scandalo”, che
si sono presentate nella sua storia, in particolare durante il trascorso
millennio. Non è possibile adempiere a un tale compito senza essere
consapevoli della sua rilevanza morale e spirituale. Ciò esige la
definizione di alcuni termini chiave, oltre che la formulazione di alcune
precisazioni necessarie sul piano etico.
5.1. Alcuni criteri etici
In tale contesto si può parlare di una solidarietà che unisce il passato e il presente in un rapporto di reciprocità. In certe situazioni il peso che grava sulla coscienza può essere cosí pesante da costituire una sorta di memoria morale e religiosa del male fatto, che è per sua natura una memoria comune: essa testimonia in modo eloquente della solidarietà obiettivamente esistente fra coloro che hanno fatto il male nel passato e i loro eredi nel presente. È allora che diviene possibile parlare di una responsabilità comune oggettiva. Dal peso di una tale responsabilità ci si libera anzitutto implorando il perdono di Dio per le colpe del passato, e quindi, dove è il caso, attraverso la ‘purificazione della memoria’, culminante nel reciproco perdono dei peccati e delle offese nel presente. Purificare la memoria significa eliminare dalla coscienza personale e collettiva tutte le forme di risentimento o di violenza che l’eredità del passato vi avesse lasciato, sulla base di un nuovo e rigoroso giudizio storico-teologico, che fonda un conseguente, rinnovato comportamento morale. Ciò avviene tutte le volte in cui si giunge ad attribuire ad atti storici passati una diversa qualità, che comporti una loro nuova e diversa incidenza sul presente in vista della crescita della riconciliazione nella verità, nella giustizia e nella carità fra gli esseri umani ed in particolare fra la Chiesa e le diverse comunità religiose, culturali o civili con cui essa ha rapporti. Modelli emblematici di questa incidenza che un giudizio interpretativo autorevole posteriore può avere sull’intera vita della Chiesa sono la recezione dei Concili o atti come l’abolizione di reciproci anatemi, che esprimono una nuova qualificazione della storia passata in grado di produrre una diversa caratterizzazione delle relazioni vissute nel presente. La memoria della divisione e della contrapposizione è purificata e sostituita da una memoria riconciliata, a cui tutti nella Chiesa sono invitati ad aprirsi ed educarsi. La combinazione di giudizio storico e giudizio teologico nel processo
interpretativo del passato si salda qui alle ripercussioni etiche che essa
può avere nel presente, e che implicano alcuni principi, corrispondenti
sul piano morale alla fondazione ermeneutica del rapporto fra giudizio
storico e giudizio teologico. Essi sono:
L’intero processo della purificazione della memoria, comunque, in quanto richiede la corretta combinazione di valutazione storica e di sguardo teologico va vissuto da parte dei figli della Chiesa non solo con il rigore, che tenga conto precisamente dei criteri e dei principi indicati, ma anche nella continua invocazione dell’assistenza dello Spirito Santo, affinché non si cada nel risentimento o nell’auto-flagellazione e si pervenga invece alla confessione del Dio la cui “misericordia è di generazione in generazione” (Lc 1,50), che vuole la vita e non la morte, il perdono e non la condanna, l’amore e non il timore. Va qui evidenziato anche il carattere di esemplarità che l’onesta ammissione delle colpe passate può esercitare sulle mentalità nella Chiesa e nella società civile, sollecitando un rinnovato impegno di obbedienza alla Verità e di conseguente rispetto per la dignità ed i diritti degli altri, soprattutto piú deboli. In tal senso, le numerose richieste di perdono formulate da Giovanni Paolo II costituiscono un esempio, che mette in evidenza un bene e ne stimola l’imitazione, richiamando i singoli e i popoli a un esame di coscienza onesto e fruttuoso in vista di cammini di riconciliazione. Alla luce di questi chiarimenti sul piano etico, si possono ora approfondire
alcuni esempi - fra cui quelli menzionati dalla Tertio Millennio
Adveniente (69) - di
situazioni in cui il comportamento dei figli della Chiesa sembra aver contraddetto
il Vangelo di Gesú Cristo in maniera rilevante.
5.2. La divisione dei cristiani
Le principali scissioni che durante il millennio trascorso “hanno intaccato l’inconsutile tunica di Cristo” (71)sono lo scisma fra le Chiese d’Oriente e d’Occidente all’inizio di questo millennio e in Occidente - quattro secoli dopo - la lacerazione causata da quegli eventi “che comunemente passano sotto il nome di Riforma” (72). È vero che “queste diverse divisioni differiscono molto tra di loro non solo in ragione dell’origine, del luogo e del tempo, ma soprattutto per la natura e gravità delle questioni che riguardano la fede e la struttura della Chiesa” (73). Nello scisma del secolo XI fattori culturali e storici hanno giocato un ruolo importante, mentre l’aspetto dottrinale concerneva l’autorità della Chiesa e il Vescovo di Roma, una materia che in quel momento non aveva raggiunto la chiarezza con cui si presenta oggi grazie allo sviluppo dottrinale di questo millennio. Con la Riforma, invece, altri campi della rivelazione e della dottrina furono oggetto di controversia. La via che si è aperta per superare queste differenze è quella del dialogo dottrinale animato da reciproco amore. Comune ad entrambi le lacerazioni sembra essere stata la mancanza di amore soprannaturale, di agape. Dal momento che questa carità è il comandamento supremo del Vangelo, senza cui tutto il resto è soltanto “un bronzo che risuona e un cembalo che tintinna” (1 Cor 13,1), una tale mancanza va vista in tutta la sua serietà davanti al Risorto, Signore della Chiesa e della storia. È in forza del riconoscimento di questa mancanza che Papa Paolo VI ha chiesto perdono a Dio e ai ‘fratelli separati’, che si sentissero offesi ‘da noi’ (la Chiesa Cattolica) (74). Nel 1965, nel clima prodotto dal Concilio Vaticano II, il Patriarca Atenagora nel suo dialogo con Paolo VI mise in risalto il tema della restaurazione (apokatastasis) dell’amore reciproco, essenziale dopo una storia tanto carica di contrapposizioni, di sfiducia reciproca e di antagonismi (75). Ciò che era in gioco era un passato ancora influente attraverso la memoria: gli eventi del 1965 (culminanti il 7 Dicembre 1965 nell’abolizione degli anatemi del 1054 fra Oriente e Occidente) rappresentano una confessione della colpa contenuta nella precedente reciproca esclusione, tale da purificare la memoria e generarne una nuova. Il fondamento di questa nuova memoria non può che essere il reciproco amore o, meglio, il rinnovato impegno a viverlo. Questo è il comandamento ante omnia (1 Pt 4,8) per la Chiesa, in Oriente come in Occidente. In tal modo la memoria libera dalla prigionia del passato ed invita Cattolici ed Ortodossi, come pure Cattolici e Protestanti, a essere gli architetti di un futuro piú conforme al comandamento nuovo. La testimonianza resa a questa nuova memoria dal Papa Paolo VI e dal Patriarca Atenagora è in tal senso esemplare. Particolarmente rilevante in rapporto al cammino verso l’unità
dei cristiani può risultare la tentazione a essere guidati, o perfino
determinati, da fattori culturali, da condizionamenti storici o da pregiudizi,
che alimentano la separazione e la sfiducia reciproca fra cristiani, sebbene
non abbiano niente a che vedere con le materie di fede. I figli della Chiesa
devono esaminare la loro coscienza con serietà per vedere se sono
attivamente impegnati nell’obbedire all’imperativo dell’unità e
vivono l’‘interiore conversione’, “poiché il desiderio dell’unità
nasce e matura dal rinnovamento della mente, dall’abnegazione di se stessi
e dalla liberissima effusione della carità” (76). Nel
tempo passato dalla conclusione del Concilio ad oggi la resistenza opposta
al suo messaggio ha certo rattristato lo Spirito di Dio (cf. Ef 4,30).
Nella misura in cui alcuni Cattolici si compiacciono di rimanere legati
alle separazioni del passato, non facendo nulla per rimuovere gli ostacoli
che impediscono l’unità, si potrebbe giustamente parlare di solidarietà
nel peccato della divisione (cf. 1 Cor 1,10-16). In tale contesto potrebbero
essere richiamate le parole del Decreto sull’Ecumenismo:
“Con umile preghiera chiediamo perdono a Dio e ai fratelli separati, come
pure noi rimettiamo ai nostri debitori” (77).
5.3. L’uso della violenza al servizio della verità
Analoga attenzione va riservata alle possibili omissioni, di cui i figli della Chiesa si fossero resi responsabili nelle piú diverse situazioni della storia riguardo alla denuncia di ingiustizie e di violenze: “Vi è poi il mancato discernimento di non pochi cristiani rispetto a situazioni di violazione dei diritti umani fondamentali. La richiesta di perdono vale per quanto è stato omesso o taciuto per debolezza o errata valutazione, per ciò che è stato fatto o detto in modo indeciso o poco idoneo” (79). Come sempre, è decisivo stabilire mediante la ricerca storico-critica
la verità storica. Stabiliti i fatti, sarà necessario valutare
il loro valore spirituale e morale, come pure il loro significato obiettivo.
Solo cosí sarà possibile evitare ogni sorta di memoria mitica
e accedere ad un’adeguata memoria critica, capace - alla luce della fede
- di produrre frutti di conversione e di rinnovamento: “Da quei tratti
dolorosi del passato emerge una lezione per il futuro, che deve indurre
ogni cristiano a tenersi ben saldo all’aureo principio dettato dal Concilio:
‘La verità non si impone che in forza della stessa verità,
la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore’” (80).
5.4. Cristiani ed Ebrei
La Shoah fu certamente il risultato di una ideologia pagana,
qual era il nazismo, animata da uno spietato antisemitismo, che non solo
disprezzava la fede, ma negava anche la stessa dignità umana del
popolo ebraico. Tuttavia, “ci si deve chiedere se la persecuzione del nazismo
nei confronti degli ebrei non sia stata facilitata dai pregiudizi antigiudaici
presenti nelle menti e nei cuori di alcuni cristiani [...]. I cristiani
offrirono ogni possibile assistenza ai perseguitati, e in particolare agli
ebrei?” (85). Senza dubbio
vi furono molti cristiani che rischiarono la vita per salvare ed assistere
i loro conoscenti ebrei. Sembra però anche vero che “accanto a tali
coraggiosi uomini e donne, la resistenza spirituale e l’azione concreta
di altri cristiani non fu quella che ci si sarebbe potuto aspettare da
discepoli di Cristo” (86). Questo
fatto costituisce un richiamo alla coscienza di tutti i cristiani oggi,
tale da esigere “un atto di pentimento (teshuva)” (87), e
diventare uno sprone a raddoppiare gli sforzi per essere “trasformati rinnovando
la mente” (Rm 12,2) e per mantenere una “memoria morale e religiosa” della
ferita inflitta agli ebrei. In questo campo il molto che è già
stato fatto potrà essere confermato e approfondito.
5.4. La nostra responsabilità per i mali di oggi
La questione inquietante da porre è in che misura i credenti siano essi stessi responsabili di queste forme di ateismo, teorico e pratico. La Gaudium et Spes risponde con parole accuratamente scelte: “In questo campo anche i credenti spesso hanno una certa responsabilità. Infatti, l’ateismo considerato nella sua interezza non è qualcosa di originario, bensí deriva da cause diverse, e tra queste va annoverata anche una reazione critica contro le religioni e, in alcune regioni, proprio anzitutto contro la religione cristiana. Per questo nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti” (89). Dal momento che il volto autentico di Dio è stato rivelato in Gesú Cristo, ai cristiani è offerta la grazia incommensurabile di conoscere questo Volto: essi, però, hanno anche la responsabilità di vivere in maniera da manifestare agli altri il vero Volto del Dio vivente. Essi sono chiamati ad irradiare al mondo la verità che “Dio è amore (agape)” (1 Gv 4,8.16). Poiché Dio è amore, Egli è anche Trinità di Persone, la cui vita consiste nella loro infinita reciproca comunicazione nell’amore. Ne consegue che la via migliore perché i cristiani irradino la verità del Dio amore è il reciproco amore: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). E questo fino al punto da poter dire che spesso i cristiani “per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione fallace della dottrina, o anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, nascondono piuttosto che manifestare il genuino volto di Dio e della religione” (90). Va sottolineato, infine, che menzionare queste colpe dei cristiani del
passato non è solo confessarle a Cristo Salvatore, ma anche lodare
il Signore della storia per l’amore misericordioso. I cristiani infatti
non credono solo nell’esistenza del peccato, ma anche e soprattutto nel
‘perdono dei peccati’. Inoltre, richiamare queste colpe vuol dire anche
accettare la nostra solidarietà con coloro che nel bene e nel male
ci hanno preceduto sulla via della verità, offrire al presente un
motivo forte di conversione alle esigenze del Vangelo, e porre un necessario
preludio alla richiesta di perdono a Dio, che schiude la via alla riconciliazione
reciproca.
6. PROSPETTIVE PASTORALI E MISSIONARIE Alla luce delle considerazioni fatte, è possibile ora domandarsi:
quali sono le finalità pastorali in vista delle quali la Chiesa
si fa carico delle colpe commesse nel passato dai suoi figli in suo nome
e ne fa ammenda? Quali le implicazioni nella vita del popolo di Dio? E
quali le risonanze in rapporto alla missione della Chiesa e al suo dialogo
con le diverse culture e religioni?
6.1. Le finalità pastorali
- Una seconda finalità pastorale, strettamente connessa alla
precedente, può essere riconosciuta nella promozione della perenne
- Un’ulteriore finalità può essere vista nella testimonianza
che in tal modo la Chiesa rende al Dio della misericordia e alla Sua
6.2. Le implicazioni ecclesiali Quali implicazioni ha un atto ecclesiale di richiesta di perdono nella
vita della Chiesa stessa? Emergono vari aspetti:
- Va precisato il soggetto adeguato chiamato a pronunciarsi in relazione
a colpe passate, sia che si tratti di Pastori locali,
- Occorre sottolineare che il destinatario di ogni possibile domanda
di perdono è Dio e che eventuali destinatari umani,
- Gli eventuali gesti di riparazione sono legati al riconoscimento di
una responsabilità perdurante nel tempo e potranno tanto
- Sul piano pedagogico è opportuno evitare di perpetuare immagini
negative dell’altro, come pure di attivare processi di
6.3. Le implicazioni sul piano del dialogo e della missione
- Sul piano ecumenico la finalità di eventuali atti ecclesiali
di pentimento non può che essere l’unità voluta dal Signore.
In
- Sul piano interreligioso è opportuno rilevare come per i credenti
in Cristo il riconoscimento delle colpe passate da parte della
- Nel dialogo con le culture vanno anzitutto tenute presenti la complessità
e la pluralità delle mentalità con cui si dialoga
- In rapporto alla società civile, infine, va considerata la
differenza che esiste fra la Chiesa mistero di grazia e una qualunque
CONCLUSIONE A conclusione della riflessione fatta è opportuno mettere ancora
una volta in risalto come in tutte le forme di pentimento per le colpe
del passato ed in ciascuno dei gesti ad esse connessi la Chiesa si rivolga
anzitutto a Dio e intenda glorificare Lui e la Sua misericordia. Proprio
cosí essa sa di celebrare anche la dignità della persona
umana chiamata alla pienezza della vita nell’alleanza fedele col Dio vivo:
“La gloria di Dio è l’uomo vivente - la vita dell’uomo è
la visione di Dio” (99). Agendo
in tal modo, la Chiesa testimonia anche la sua fiducia nella forza della
Verità, che rende liberi (cf. Gv 8,32): la sua “domanda di perdono
non deve essere intesa come ostentazione di finta umiltà, né
come rinnegamento della sua storia bimillenaria certamente ricca di meriti
nei campi della carità, della cultura e della santità. Essa
risponde invece a un’irrinunciabile esigenza di verità, che accanto
agli aspetti positivi, riconosce i limiti e le debolezze umane delle varie
generazioni dei discepoli di Cristo” (100). E
la Verità riconosciuta è sorgente di riconciliazione e di
pace, perché, come afferma lo stesso Papa, “l’amore della verità,
ricercata con umiltà, è uno dei grandi valori capaci di riunire
gli uomini di oggi attraverso le varie culture” (101). Anche
per la Sua responsabilità verso la Verità la Chiesa “non
può varcare la soglia del nuovo millennio senza spingere i suoi
figli a purificarsi, nel pentimento, da errori, infedeltà, incoerenze,
ritardi. Riconoscere i cedimenti di ieri è atto di lealtà
e di coraggio” (102). Esso
schiude per tutti un nuovo domani.
(1) Incarnationis mysterium, 11. (SU!)
giubileo ogni cinquanta anni. Clemente VI vede nel giubileo ecclesiale “ il compimento spirituale” del “giubileo di remissione e di gioia” dell’Antico Testamento (Lv 25). (SU!) (7) “Ciascuno di noi deve esaminare in che cosa è caduto ed esaminarsi lui stesso piú rigorosamente di quanto non lo sarà da Dio nel giorno della Sua collera”, in: Deutsche Reichstagsakten, nuova serie, III, 390-399, Gotha 1893. (SU!) (8) Unitatis redintegratio, 7. (SU!) (9) Gaudium et spes, 36. (SU!) (10) Ibid., 19. (SU!) (11) Nostra Aetate, 4. (SU!) (12) Gaudium et spes, 43 ‘ 6. (SU!) (13) Lumen gentium, 8; cf. Unitatis redintegratio, 6: “La Chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno”. (SU!) (14) Nostra Aetate, 4. (SU!) (15) Unitatis redintegratio, 3. (SU!) (16) Cf. PAOLO VI, Lettera Apostolica Apostolorum limina, 23 maggio 1974 (Enchiridion Vaticanum 5, 305). (SU!) (17) PAOLO VI, Esortazione Paterna cum benevolentia, 8 dicembre 1974 (Enchiridion Vaticanum 5, 526-553). (SU!) (18) Cf. Enciclica Ut unum sint, del 25 maggio 1995, n. 88: “Per quello di cui siamo responsabili, imploro perdono”. (SU!)
(19) Per esempio, il Papa “domanda perdono, a nome di
tutti i cattolici, per i torti causati ai non-cattolici nel corso della
storia” presso i Moravi (cf. canonizzazione di Jan Sarkander, nella Repubblica cèca, 21 maggio 1995). Ha desiderato compiere “un atto d’espiazione” e domandare perdono agli Indios dell’America latina e agli Africani deportati come schiavi (Messaggio agli indiani d’America, Santo-Domingo, 13 ottobre 1992, e Discorso all’udienza generale del 21 ottobre 1992). Dieci anni prima aveva già domandato perdono agli Africani per la tratta dei Neri (Discorso a Yaoundé, 13 agosto 1985). (SU!) (20) Cf. TMA, 33-36. (SU!) (21) Cf. ibid., 33. (SU!) (22) Ibid., 33. (SU!) (23) Cf. ibid., 36. (SU!) (24) Cf. ibid., 34. (SU!) (25) Cf. ibid., 35. (SU!) (26) Quest’ultimo aspetto affiora in TMA solamente al n. 33, lí dove si dice che la Chiesa riconosce come suoi i propri figli peccatori “davanti a Dio e davanti agli uomini”. (SU!) (27) GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Reconciliatio et Paenitentia, del 2 dicembre 1984, 31. (SU!) (28) Ibid., 16. (SU!) (29) Cf. Mt 13,24-30.36-43; S. AGOSTINO, De civitate Dei I, 35: CCL 47, 33; XI, 1: CCL 48, 321; XIX, 26: CCL 48, 696. (SU!) (30) Sui diversi metodi di lettura della Sacra Scrittura cf. il documento della Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993). (SU!) (31) Possono ricondursi a questa serie ad esempio: Dt 1,41 (la generazione del deserto riconosce di aver peccato rifiutando di avanzare per entrare nella terra promessa); Gdc 10,10.12 (al tempo dei Giudici il popolo per due volte dice “abbiamo peccato” contro il Signore, riferendosi all’aver servito ai Baal); 1 Sam 7,6 (il popolo del tempo di Samuele afferma: “Abbiamo peccato contro il Signore!”); Nm 21,7 (questo testo si distingue in quanto qui il popolo della generazione mosaica ammette che, nel lamentarsi a riguardo del cibo, si è reso colpevole di ‘peccato’ perché ha parlato contro il Signore ed anche contro la sua guida umana, Mosè); 1 Sam 12,19 (gli Israeliti dell’epoca di Samuele riconoscono che - chiedendo di avere un re - hanno aggiunto questo “a tutti i loro peccati”); Esd 10,13 (il popolo riconosce davanti ad Esdra di aver grandemente “peccato in questa materia” [sposando donne straniere]); Sal 65,2-2; 90,8; 103,10 (107,10-11.17); Is 59,9-15; 64,5-9; Ger 8,14; 14,7; Lam 1,14,18a.22 (‘Io’= personificazione di Gerusalemme); 3,42 (4,13); Bar 4,12-13 (Sion evoca le colpe dei suoi figli che hanno portato alla sua devastazione); Ez 33,10; Mic 7,9 (‘Io’).18-19. (32) Ad esempio: Es 9,27 (il Faraone dice a Mosè ed Aronne: “Questa volta ho peccato: il Signore ha ragione; io e il mio popolo siamo colpevoli”); 34,9 (Mosè invoca: “Perdona la nostra colpa e il nostro peccato”); Lv 16,21 (il Sommo Sacerdote confessa i peccati del popolo sul capo del ‘capro espiatorio’ nel giorno dell’espiazione); Es 32,11-13 (cf. Dt 9,26-29: Mosè); 32,31 (Mosè); 1 Re 8,33ss (cf. 2 Cr 6,22ss: Salomone prega perché Dio perdoni eventuali futuri peccati del popolo); 2 Cr 28,13 (i capi degli Israeliti affermano: “La nostra colpa è già grande”); Esd 10,2 (Secania dice ad Esdra: “Noi siamo stati infedeli verso il nostro Dio, sposando donne straniere”); Ne 1,5-11 (Neemia confessa i peccati commessi dal popolo d’Israele, da se stesso e dalla casa di suo padre); Est 4,17(n) (Ester confessa: “Abbiamo peccato contro di te e ci hai messi nelle mani dei nostri nemici, per aver noi dato gloria ai loro dei”); 2 Mac 7,18.32 (i martiri giudei affermano che stanno soffrendo a causa dei ‘nostri peccati’ contro Dio). (SU!) (33) Fra gli esempi di questo tipo di confessione nazionale si può rinviare a: 2 Re 22,13 (cf. 2 Cr 34,21: Giosia teme la collera del Signore “perché i nostri padri non hanno ascoltato le parole di questo libro”); 2 Cr 29,6-7 (Ezechia afferma: “I nostri padri sono stati infedeli”); Sal 78,8ss. (un ‘Io’ riassume i peccati delle generazioni passate a partire dall’Esodo). Cf. pure il detto popolare citato in Ger 31,29 ed Ez 18,2: ‘I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati’. (SU!) (34) È il caso di testi come i seguenti: Lv 26,40 (gli esiliati sono chiamati a “confessare la loro iniquità e l’iniquità dei loro padri”); Esd 9,5b-15 (preghiera penitenziale di Esdra, v. 7: “Dai giorni dei nostri padri fino ad oggi siamo stati molto colpevoli”; cf. Ne 9,6-37); Tb 3,1-5 (nella sua preghiera Tobi invoca: “Non punirmi per i miei peccati e per gli errori miei e dei miei padri” [v. 3] e prosegue con la costatazione: “non abbiamo osservato i tuoi decreti” [v. 5]); Sal 79,8-9 [questo lamento collettivo implora Dio di “non imputare a noi le colpe dei nostri padri [...] salvaci e perdona i nostri peccati”); 106,6 (“abbiamo peccato come i nostri padri”); Ger 3,25 (“[...] abbiamo peccato contro il Signore nostro Dio [...] noi e i nostri padri”); Ger 14,19-22 (“riconosciamo la nostra iniquità e l’iniquità dei nostri padri”, v. 20); Lam 5 (“i nostri padri peccarono e non sono piú, noi portiamo la pena delle loro iniquità” [v. 7] “guai a noi, perché abbiamo peccato” [v. 16b]); Bar 1,15-3,18 (“abbiamo offeso il Signore” [1,17, cf. 1,19.21;2,5.24] - “non ricordare l’iniquità dei nostri padri” [3,5, cf. 2,33; 3,4.7]); Dn 3,26-45 (la preghiera di Azaria: “Con verità e giustizia ci hai inflitto tutto questo a causa dei nostri peccati”: v. 28); Dn 9,4-19 (“poiché per i nostri peccati e per l’iniquità dei nostri padri Gerusalemme [...] è oggetto di vituperio [...]”, v. 16). (SU!) (35) Essi includono mancanze di fiducia in Dio (cosí, per esempio, Dt 1,41; Nm 14,10), idolatria (come in Gdc 10,10-15), richiesta di un re umano (1 Sam 12,9), matrimoni con donne straniere in contrasto con la Legge divina (Esd 9-10). In Is 59,13b il popolo dice di sé di “parlare di oppressione e di ribellione, concepire con il cuore e pronunciare parole false”. (SU!) (36) Cf. il caso analogo del ripudio delle mogli straniere da parte dei Giudei raccontato in Esd 9-10, con tutte le conseguenze negative che esso avrebbe avuto sulle donne implicate. La questione di una richiesta di perdono rivolta a loro (e o ai loro discendenti) non si pone proprio, in quanto il ripudio è presentato come un’esigenza della Legge divina (cf. Dt 7,3) in tutti questi capitoli. (SU!) (37) Viene in mente a questo proposito il caso delle relazioni permanentemente tese fra Israele ed Edom. Questo popolo - nonostante la sua condizione di ‘fratello’ d’Israele - participò e gioí alla caduta di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi (cf., ad esempio, Abdia 10-14). Israele, in segno di oltraggio per questo tradimento, non sentí alcun bisogno di chiedere perdono per la strage dei prigionieri Edomiti indifesi, perpetrata dal Re Amazia secondo 2 Cr 25,12. (SU!) (38) GIOVANNI PAOLO II, Discorso del 1 settembre 1999, in L’Osservatore Romano, 2 Settembre 1999, 4. (SU!) (39) Cf. TMA, 33-36. (SU!) (40) TMA, 33. (SU!) (41) Si pensi al motivo, presente in autori cristiani di varie epoche, del rimprovero alla Chiesa per le sue colpe, di cui un esempio fra i piú rappresentativi è costituito dal Liber asceticus di MASSIMO IL CONFESSORE: PL 90,912-956. (42) Lumen Gentium, 8. (SU!) (43) Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), 770. (SU!) (44) Lumen Gentium, 8. (SU!) (45) Ibid. Cf. pure Unitatis Redintegratio, 3 e 6. (SU!) (46) CCC, 827. (SU!) (47) PAOLO VI, Credo del popolo di Dio (30 giugno 1968), n. 19 (Enchiridion Vaticanum 3,264s). (SU!) (48) Lumen Gentium, 39. (SU!) (49) Lumen Gentium, 40. (SU!) (50) Ibid., 48. (SU!) (51) SANT’AGOSTINO, Sermo 181, 5, 7: PL 38, 982. (SU!) (52) SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., III, q. 8, a. 3 ad 2. (SU!) (53) CCC, 2839. (SU!) (54) SANT’AMBROGIO, De virginitate 8, 48: PL 16, 278D: “Caveamus igitur, ne lapsus noster vulnus Ecclesiae fiat”. Di ‘ferita’ inflitta alla Chiesa dal peccato dei suoi figli parla anche Lumen Gentium, 11. (SU!) (55) TMA, 33. (SU!) (56) K. DELAHAYE, La Comunità, Madre dei credenti, Cassano M. (Bari) 1974, 110. Cf. pure H. RAHNER, Mater Ecclesia. Inni di lode alla Chiesa tratti dal primo millennio della letteratura cristiana, Milano 1972. (SU!) (57) Lumen Gentium, 64. (SU!) (58) SANT’AGOSTINO, Sermo 25, 8: PL 46, 938: “Mater ista sancta, honorata, Mariae similis, et parit et Virgo est. Ex illa nati estis et Christum parit: nam membra Christi estis”. (SU!) (59) CIPRIANO, De Ecclesiae Catholicae unitate 6: CCL 3, 253: “Habere iam non potest Deum patrem qui ecclesiam non habet matrem”. Lo stesso Cipriano afferma altrove: “Ut habere quis possit DeumPatrem, habeat ante ecclesiam matrem “ (Epist. 74, 7: CCL 3C, 572). E Agostino: “Tenete ergo, carissimi, tenete omnes unanimiter Deum patrem, et matrem Ecclesiam” (In Ps 88, Sermo 2, 14: CCL 39, 1244). (SU!) (60) PAOLINO DI NOLA, Carmen 25, 171-172: CSEL 30, 243: “Inde manet mater aeterni semine verbi concipiens populos et pariter pariens”. (SU!) (61) TMA, 35. (SU!) (62) IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ad Romanos, Prooem.: SCh 10, 124 (Th. Camelot, Paris 1958(2). (SU!) (63) TMA, 33.34. (SU!) (64) Discorso ai partecipanti al Simposio Internazionale di studio sull’Inquisizione, promosso dalla Commissione Teologico-Storica del Comitato Centrale del Giubileo, n. 4, 31 ottobre 1998. (SU!) (65) Cf. per quanto segue H.G. GADAMER, Verità e metodo, Milano 1985. (SU!) (66) B. LONERGAN, Il metodo in teologia, Brescia 1975, 173. (SU!) (67) TMA, 35. (SU!) (68) GIOVANNI PAOLO II, Discorso del 1 settembre 1999, in L’Osservatore Romano, 2 Settembre 1999, 4. (SU!) (69) Cf. TMA, 34-36. (SU!) (70) Unitatis Redintegratio, 1. (SU!) (71) Ibid., 13. TMA, 34 dice che “ancor piú che nel primo millennio, la comunione ecclesiale ha conosciuto dolorose lacerazioni”. (SU!) (72) Unitatis Redintegratio, 13. (SU!) (73) Ibid. (SU!) (74) Cf. il Discorso di apertura della Seconda Sessione del Concilio, del 29 settembre 1964: Enchiridion Vaticanum 1, [106], n. 176. (SU!) (75) Cf. la documentazione del dialogo della carità fra la Santa Sede e il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli nel Tómos Agápes: Vatican - Phanar (1958-1970), Roma - Istanbul 1971. (SU!) (76) Unitatis Redintegratio, 7. (SU!) (77) Ibid. (SU!) (78) TMA, 35. (SU!) (79) GIOVANNI PAOLO II, Discorso del 1 settembre 1999, in L’Osservatore Romano, 2 settembre 1999, 4. (SU!) (80) TMA, 35. La citazione del Vaticano II è da Dignitatis Humanae, 1. (SU!) (81) L’argomento è trattato rigorosamente nella Dichiarazione Nostra Aetate del Vaticano II. (SU!) (82) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla Sinagoga di Roma, 13 aprile 1986, 4: AAS 78 (1986) 1120. (SU!) (83) Questo è il giudizio del recente documento della Commissione per i Rapporti Religiosi conl’Ebraismo, Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, Roma, 16 Marzo 1998, 3. (SU!) (84) Ibid., 7. (SU!) (85) Ibid., 5. (SU!) (86) Ibid., 6. (SU!) (87) Ibid., 5. (SU!) (88) TMA, 36. (SU!) (89) Gaudium et Spes, 19. (SU!) (90) Ibid. (SU!) (91) TMA, 33. (SU!) (92) Si pensi solo al segno del martirio: cf. TMA, 37. (SU!) (93) Unitatis Redintegratio, 6. È lo stesso testo ad affermare che “la Chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma (ad hanc perennem reformationem) di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno”. (SU!) (94) “Opus renovationis nec non reformationis”: ibid., 4. (SU!) (95) Ibid., 6: “Ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente nell’accresciuta fedeltà alla sua vocazione”. (SU!) (96) TMA., 36. (SU!) (97) La formula - particolarmente forte è di AGOSTINO: De Trinitate I, 13, 28: CCL 50, 69, 13; Epist. 169, 2: CSEL 44,617; Sermo 341A, 1: Misc. Agost. 314, 22. (SU!) (98) GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti al Simposio Internazionale di studio sull’Inquisizione, promosso dalla Commissione Teologico-Storica del Comitato Centrale del Giubileo, 5, 31 ottobre 1998. (SU!) (99) “Gloria Dei vivens homo: vita autem hominis visio Dei”: SANT’IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses IV, 20, 7: SCh 100, t. II, 648. (SU!) (100) GIOVANNI PAOLO II, Discorso del 1 settembre 1999, in L’Osservatore Romano, 2 Settembre 1999, 4. (SU!) (101) Discorso al Centro Europeo per la ricerca nucleare, Ginevra, 15 giugno 1982, in: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V,2, Vaticano 1982, 2321. (SU!) (102) TMA, 33. (SU!)
Torna a Documenti |