MEMORIA E RICONCILIAZIONE

LA CHIESA E LE COLPE DEL PASSATO

(Il documento è stato presentato in Vaticano il 7 marzo 2000, nel corso di una conferenza stampa presieduta dal Card. Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, presenti il Card. Roger Etchegaray, Presidente del Comitato Centrale per l'Anno Santo, Mons. Piero Marini, Maestro delle Cerimonie del Papa, i teologi Bruno Forte e Georges Cottier. Il testo del documento è stato pubblicato dal Servizio Informazione Religiosa (SIR) l'8 marzo 2000)
 


NOTA PRELIMINARE

Lo studio del tema “La Chiesa e le colpe del passato” è stato proposto alla Commissione Teologica Internazionale da parte del suo Presidente, il Card. J. Ratzinger, in vista della celebrazione del Giubileo dell’anno 2000. Per preparare questo studio venne formata una Sottocommissione composta dal Rev. Christopher Begg, da Mons. Bruno Forte (presidente), dal Rev. Sebastian Karotemprel, S.D.B., da Mons. Roland Minnerath, dal Rev. Thomas Norris, dal Rev. P. Rafael Salazar Cárdenas, M.Sp.S., e da Mons. Anton ätrukelj. Le discussioni generali su questo tema si sono svolte in numerosi incontri della Sottocommissione e durante le sessioni plenarie della stessa Commissione Teologica Internazionale, tenutesi a Roma nel 1998 e nel 1999. Il presente testo è stato approvato in forma specifica, con il voto scritto della Commissione, ed è stato poi sottoposto al suo presidente, il Card. J. Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il quale ha dato la sua approvazione per la pubblicazione.
 
 

INTRODUZIONE

La Bolla di indizione dell’Anno Santo del 2000 Incarnationis mysterium (29 novembre 1998) indica fra i segni “che possono opportunamente servire a vivere con maggiore intensità l’insigne grazia del giubileo” la purificazione della memoria. Questa consiste nel processo volto a liberare la coscienza personale e collettiva da tutte le forme di risentimento o di violenza, che l’eredità di colpe del passato può avervi lasciato, mediante una rinnovata valutazione storica e teologica degli eventi implicati, che conduca - se risulti giusto - ad un corrispondente riconoscimento di colpa e contribuisca ad un reale cammino di riconciliazione. Un simile processo può incidere in maniera significativa sul presente, proprio perché; le colpe passate fanno spesso sentire ancora il peso delle loro conseguenze e permangono come altrettante tentazioni anche nell’oggi.

In quanto tale, la purificazione della memoria richiede “un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di cristiani”, e si fonda sulla convinzione che “per quel legame che, nel corpo mistico, ci unisce gli uni agli altri, tutti noi, pur non avendone responsabilità personale e senza sostituirci al giudizio di Dio, che solo conosce i cuori, portiamo il peso degli errori e delle colpe di chi ci ha preceduto”. Giovanni Paolo II aggiunge: “Come successore di Pietro, chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi davanti a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli” (1)Nel ribadire, poi, che “i cristiani sono invitati a farsi carico, davanti a Dio e agli uomini offesi dai loro comportamenti, delle mancanze da loro commesse”, il Papa conclude: “Lo facciano senza nulla chiedere in cambio, forti solo dell’amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori” (Rm 5,5)” (2)

Le richieste di perdono fatte dal Vescovo di Roma in questo spirito di autenticità e di gratuità hanno suscitato reazioni diverse: la fiducia incondizionata che il Papa ha dimostrato di avere nella forza della Verità ha incontrato un’accoglienza generalmente favorevole, all’interno e all’esterno della comunità ecclesiale. Non pochi hanno sottolineato l’accresciuta credibilità dei pronunciamenti ecclesiali, conseguente a questo comportamento. Non sono però mancate alcune riserve, espressione soprattutto del disagio legato a particolari contesti storici e culturali, nei quali la semplice ammissione di colpe commesse dai figli della Chiesa può assumere il significato di un cedimento di fronte alle accuse di chi è pregiudizialmente ostile ad essa. Fra consenso e disagio, si avverte il bisogno di una riflessione, che chiarisca le ragioni, le condizioni e l’esatta configurazione delle richieste di perdono relative alle colpe del passato.

Di questo bisogno ha inteso farsi carico la Commissione Teologica Internazionale, nella quale sono rappresentate culture e sensibilità diverse all’interno dell’unica fede cattolica, elaborando il presente testo. In esso viene offerta una riflessione teologica sulle condizioni di possibilità degli atti di ‘purificazione della memoria’, legati al riconoscimento di colpe del passato. Le domande cui si cerca di rispondere sono: perché produrre tali atti? quali ne sono i soggetti adeguati? quale ne è l’oggetto e come esso va determinato, coniugando correttamente giudizio storico e giudizio teologico? quali sono i destinatari? quali le implicanze morali? e quali gli effetti possibili sulla vita della Chiesa e sulla società? Scopo del testo non è, dunque, quello di prendere in esame casi storici particolari, ma di chiarire i presupposti che rendano fondato il pentimento relativo a colpe passate.

L’aver precisato sin dall’inizio il genere della riflessione qui presentata chiarisce anche a che cosa ci si riferisca quando in essa si parla della Chiesa: non si tratta né della sola istituzione storica, né della sola comunione spirituale dei cuori illuminati dalla fede. Per Chiesa si intenderà sempre la comunità dei battezzati, inseparabilmente visibile e operante nella storia sotto la guida dei Pastori e unificata nella profondità del suo mistero dall’azione dello Spirito vivificante: quella Chiesa, che - secondo le parole del Concilio Vaticano II - “per una non debole analogia è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta è a servizio del Verbo divino come vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa è a servizio dello Spirito di Cristo che lo vivifica, per la crescita del corpo (cf. Ef 4,16)” (3)Questa Chiesa - che abbraccia i suoi figli del passato, come quelli del presente in una reale e profonda comunione - è l’unica Madre nella Grazia che assume su di sé il peso delle colpe anche passate per purificare la memoria e vivere il rinnovamento del cuore e della vita secondo la volontà del Signore. Essa può farlo in quanto Cristo Gesú - di cui è il Corpo misticamente prolungato nella storia - ha assunto su di sé una volta per sempre i peccati del mondo.

La struttura del testo rispecchia le domande poste: esso muove da una breve rivisitazione storica del tema (cap. 1), per poter poi indagare il fondamento biblico (cap. 2) e approfondire le condizioni teologiche delle richieste di perdono (cap. 3). La precisa coniugazione di giudizio storico e di giudizio teologico è elemento decisivo per giungere a pronunciamenti corretti ed efficaci, che tengano conto adeguatamente dei tempi, dei luoghi e dei contesti in cui si situano gli atti considerati (cap. 4). Alle implicanze morali (cap. 5), pastorali e missionarie (cap. 6) di questi atti di pentimento relativi alle colpe del passato sono dedicate le considerazioni finali, che hanno naturalmente un valore specifico per la Chiesa cattolica. Tuttavia, nella consapevolezza che l’esigenza di riconoscere le proprie colpe ha ragione di essere per tutti i popoli e per tutte le religioni, ci si auspica che le riflessioni proposte possano aiutare tutti ad avanzare in un cammino di verità, di dialogo fraterno e di riconciliazione.

A conclusione di questa introduzione non sarà inutile richiamare la finalità ultima di ogni possibile atto di ‘purificazione della memoria’, compiuto dai credenti, perché essa ha ispirato anche il lavoro della Commissione: si tratta della glorificazione di Dio, perché vivere l’obbedienza alla Verità divina ed alle sue esigenze conduce a confessare insieme con le nostre colpe la misericordia e la giustizia eterne del Signore. La ‘confessio peccati’ - sostenuta e illuminata dalla fede nella Verità che libera e salva (‘confessio fidei’) - diventa ‘confessio laudis’ rivolta a Dio, al cui cospetto soltanto è possibile riconoscere le colpe del passato, come quelle del presente, per lasciarci riconciliare da Lui e con Lui in Gesú Cristo, unico Salvatore del mondo, e divenire capaci di offrire il perdono a quanti ci avessero offeso. Questa offerta di perdono appare particolarmente significativa se si pensa alle tante persecuzioni subite dai cristiani nel corso della storia. In questa prospettiva gli atti compiuti e richiesti dal Papa in rapporto alle colpe del passato presentano un valore esemplare e profetico, tanto per le religioni, quanto per i governi e le nazioni, oltre che per la Chiesa cattolica, che potrà cosí essere aiutata a vivere in maniera piú efficace il grande Giubileo dell’incarnazione come evento di grazia e di riconciliazione per tutti.
 
 

1. IL PROBLEMA: IERI E OGGI

1.1. Prima del Vaticano II
Il Giubileo è stato sempre vissuto nella Chiesa come un tempo di gioia per la salvezza donata in Cristo e come un’occasione privilegiata di penitenza e di riconciliazione per i peccati presenti nella vita del popolo di Dio. Sin dalla sua prima celebrazione sotto Bonifacio VIII nell’anno 1300 il pellegrinaggio penitenziale alla tomba degli Apostoli Pietro e Paolo è stato associato alla concessione di un’indulgenza eccezionale per procurare, col perdono sacramentale, la remissione totale o parziale delle pene temporali dovute ai peccati (4)In questo contesto, tanto il perdono sacramentale che la remissione delle pene rivestono un carattere personale. Nel corso dell’“anno del perdono e della grazia” (5)la Chiesa dispensa in modo particolare il tesoro di grazie che il Cristo ha costituito a suo favore (6)In nessuno dei giubilei celebrati finora c’è stata, tuttavia, una presa di coscienza di eventuali colpe del passato della Chiesa, né del bisogno di domandare perdono a Dio per comportamenti del passato prossimo o remoto. 

È anzi nell’intera storia della Chiesa che non si incontrano precedenti richieste di perdono relative a colpe del passato, che siano state formulate dal Magistero. I Concili e le decretali papali sanzionavano certo gli abusi di cui si fossero resi colpevoli chierici o laici, e non pochi pastori si sforzavano sinceramente di correggerli. Rarissime sono state però le occasioni in cui le autorità ecclesiali - papa, vescovi o concili - hanno riconosciuto apertamente le colpe o gli abusi di cui si erano rese esse stesse colpevoli. Un esempio celebre è fornito dal papa riformatore Adriano VI che riconobbe apertamente, in un messaggio alla Dieta di Norimberga del 25 novembre 1522, “gli abomini, gli abusi [...] e le prevaricazioni” di cui si era resa colpevole “la corte romana” del suo tempo, “malattia [...] profondamente radicata e sviluppata”, estesa “dal capo ai membri” (7)Adriano VI deplorava colpe contemporanee, precisamente quelle del suo predecessore immediato Leone X e della sua curia, senza tuttavia associarvi una domanda di perdono. 

Bisognerà attendere Paolo VI per vedere un Papa esprimere una domanda di perdono rivolta tanto a Dio, che a un gruppo di contemporanei. Nel discorso di apertura della seconda sessione del Concilio il Papa “domanda perdono a Dio [...] e ai fratelli separati” d’Oriente che si sentissero offesi “da noi” (Chiesa cattolica), e si dichiara pronto, da parte sua, a perdonare le offese ricevute. Nell’ottica di Paolo VI la domanda e l’offerta di perdono riguardavano unicamente il peccato della divisione tra i cristiani e supponevano la reciprocità. 
 

1.2. L’insegnamento del Concilio
Il Vaticano II si pone nella stessa prospettiva di Paolo VI. Per le colpe commesse contro l’unità - affermano i Padri conciliari - “chiediamo perdono a Dio e ai fratelli separati, come pure noi rimettiamo ai nostri debitori” (8)Oltre le colpe contro l’unità, il Concilio segnala altri episodi negativi del passato, in cui i cristiani hanno avuto una responsabilità. Cosí, “deplora certi atteggiamenti mentali, che talvolta non mancano nemmeno tra i cristiani”, che hanno potuto far pensare a un’opposizione fra la scienza e la fede (9)Parimenti, considera che “nella genesi dell’ateismo” i cristiani possono aver avuto “una certa responsabilità”, nella misura in cui con la loro negligenza hanno “velato piuttosto che rivelare il genuino volto di Dio e della religione” (10)Inoltre, il Concilio “deplora” le persecuzioni e manifestazioni d’antisemitismo compiute “in ogni tempo e da chiunque” (11)Il Concilio tuttavia non associa una richiesta di perdono ai fatti citati. 

Dal punto di vista teologico il Vaticano II distingue fra la fedeltà indefettibile della Chiesa e le debolezze dei suoi membri, chierici o laici, ieri come oggi (12)e dunque fra di essa, Sposa di Cristo “senza macchia né ruga [...] santa e immacolata” (cf. Ef 5,27), e i suoi figli, peccatori perdonati, chiamati alla metanoia permanente, al rinnovamento nello Spirito Santo. “La Chiesa, che comprende nel suo seno i peccatori, santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento” (13)

Il Concilio ha anche elaborato alcuni criteri di discernimento riguardo alla colpevolezza o alla responsabilità dei vivi per le colpe passate. In effetti, ha richiamato, in due contesti differenti, la non imputabilità ai contemporanei di colpe commesse nel passato da membri della loro comunità religiosa: 
“Quanto è stato commesso durante la passione (di Cristo) non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora 
     viventi né agli ebrei del nostro tempo” (14)
“Comunità non piccole si sono staccate dalla piena comunione della Chiesa cattolica, talora non senza colpa di uomini 
     d’entrambe le parti. Quelli poi che ora nascono e sono istruiti nella fede di Cristo in tali comunità non possono essere 
     accusati del peccato di separazione, e la Chiesa cattolica li abbraccia con fraterno rispetto e amore” (15)

Al primo Anno Santo celebrato dopo il Concilio, nel 1975, Paolo VI aveva dato per tema ‘rinnovamento e riconciliazione’ (16)precisando, nell’Esortazione apostolica Paterna cum benevolentia, che la riconciliazione doveva anzitutto operarsi tra i fedeli della Chiesa cattolica (17)Come nella sua origine, l’Anno Santo restava un’occasione di conversione e di riconciliazione dei peccatori con Dio attraverso l’economia sacramentale della Chiesa.
 

1.3. Le richieste di perdono di Giovanni Paolo II
Non solo Giovanni Paolo II rinnova il rammarico per le “dolorose memorie” che scandiscono la storia delle divisioni tra i cristiani, come avevano fatto Paolo VI e il Concilio Vaticano II (18)ma estende anche la richiesta di perdono a una moltitudine di fatti storici nei quali la Chiesa o singoli gruppi di cristiani sono stati implicati a titoli diversi (19)Nella Lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente (20)il Papa si augura che il Giubileo dell’Anno 2000 sia l’occasione per una purificazione della memoria della Chiesa da “tutte le forme di contro-testimonianza e di scandalo” succedutesi nel corso del millennio passato (21)

La Chiesa è invitata a “farsi carico con piú viva consapevolezza del peccato dei suoi figli”. Essa “riconosce sempre come propri i figli peccatori”, e li incita a “purificarsi, nel pentimento, da errori, infedeltà, incoerenze, ritardi” (22)La responsabilità dei cristiani nei mali del nostro tempo è parimenti evocata (23)anche se l’accento cade particolarmente sulla solidarietà della Chiesa d’oggi con le colpe passate, di cui alcune sono esplicitamente menzionate, come la divisione tra i cristiani (24)o i “metodi di violenza e di intolleranza” utilizzati nel passato per evangelizzare (25)

Lo stesso Giovanni Paolo II stimola l’approfondimento teologico sul farsi carico di colpe del passato e sull’eventuale domanda di perdono ai contemporanei (26)quando, nell’Esortazione Reconciliatio et paenitentia, afferma che, nel sacramento della penitenza, “il peccatore si trova solo davanti a Dio con la sua colpa, il suo pentimento e la sua fiducia. Nessuno può pentirsi al suo posto o domandare perdono in suo nome”. Il peccato è dunque sempre personale, anche se ferisce la Chiesa intera, che, rappresentata dal sacerdote ministro della penitenza, è mediatrice sacramentale della grazia che riconcilia con Dio (27)Anche le situazioni di ‘peccato sociale’ - che si verificano all’interno delle comunità umane quando la giustizia, la libertà e la pace risultano lese - “sono sempre il frutto, l’accumulazione e la concentrazione di peccati personali”. Allorché la responsabilità morale risultasse diluita in cause anonime, non si potrebbe parlare di peccato sociale che per analogia (28)Ne risulta che l’imputabilità di una colpa non può essere estesa propriamente al di là del gruppo di persone che vi hanno consentito volontariamente, mediante azioni o omissioni, o per negligenza.
 

1.4. Le questioni sollevate
La Chiesa è una società viva che attraversa i secoli. La sua memoria non è solo costituita dalla tradizione che rimonta agli Apostoli, normativa per la sua fede e la sua stessa vita, ma è anche ricca della varietà delle esperienze storiche, positive o negative, che essa ha vissuto. Il passato della Chiesa struttura in larga parte il suo presente. La tradizione dottrinale, liturgica, canonica, ascetica nutre la vita stessa della comunità credente, offrendole un campionario incomparabile di modelli da imitare. Lungo tutto il pellegrinaggio terreno, però, il grano buono resta sempre inestricabilmente mescolato alla zizzania, la santità si affianca all’infedeltà e al peccato (29)Ed è cosí che il ricordo degli scandali del passato può ostacolare la testimonianza della Chiesa d’oggi e il riconoscimento delle colpe compiute dai figli della Chiesa di ieri può favorire il rinnovamento e la riconciliazione nel presente.

La difficoltà che si profila è quella di definire le colpe passate, a causa anzitutto del giudizio storico che ciò esige, perché in ciò che è avvenuto va sempre distinta la responsabilità o la colpa attribuibile ai membri della Chiesa in quanto credenti, da quella riferibile alla società dei secoli detti ‘di cristianità’ o alle strutture di potere nelle quali il temporale e lo spirituale erano allora strettamente intrecciati. Un’ermeneutica storica è dunque quanto mai necessaria per fare adeguata distinzione fra l’azione della Chiesa come comunità di fede e quella della società nei tempi di osmosi fra di esse.

I passi compiuti da Giovanni Paolo II per chiedere perdono di colpe del passato sono stati compresi in moltissimi ambienti, ecclesiali e non, come segni di vitalità e di autenticità della Chiesa, tali da rafforzare la sua credibilità. È giusto, peraltro, che la Chiesa contribuisca a modificare immagini di sé false e inaccettabili, specie nei campi in cui, per ignoranza o malafede, alcuni settori d’opinione si compiacciono nell’identificarla con l’oscurantismo e l’intolleranza. Le richieste di perdono formulate dal Papa hanno anche suscitato una positiva emulazione nell’ambito ecclesiale e al di là di esso. Capi di Stato o di governo, società private e pubbliche, comunità religiose domandano attualmente perdono per episodi o periodi storici segnati da ingiustizie. Questa prassi è tutt’altro che retorica, tanto che alcuni esitano ad accoglierla, calcolando i costi conseguenti - tra l’altro sul piano giudiziario - a un riconoscimento di solidarietà con colpe passate. Anche da questo punto di vista, urge dunque un discernimento rigoroso.

Non mancano tuttavia fedeli sconcertati, in quanto la loro lealtà verso la Chiesa sembra scossa. Alcuni di essi si chiedono come trasmettere l’amore alla Chiesa alle giovani generazioni se questa stessa Chiesa è imputata di crimini e di colpe. Altri osservano che il riconoscimento delle colpe è per lo piú unilaterale e sfruttato dai detrattori della Chiesa, soddisfatti nel vederla confermare i pregiudizi che essi hanno nei suoi riguardi. Altri ancora mettono in guardia dal colpevolizzare arbitrariamente le generazioni attuali dei credenti per mancanze alle quali essi non acconsentono in nessun modo, pur dichiarandosi pronti ad assumersi le loro responsabilità nella misura in cui dei gruppi umani si sentissero ancora oggi toccati dalle conseguenze di ingiustizie subite dai loro predecessori in altri tempi. Alcuni, poi, ritengono che la Chiesa potrà purificare la sua memoria rispetto alle azioni ambigue nelle quali è stata coinvolta nel passato semplicemente prendendo parte al lavoro critico sulla memoria sviluppatosi nella nostra società. Cosí essa potrebbe affermare di condividere con i suoi contemporanei il rifiuto di ciò che la coscienza morale attuale riprova, senza proporsi come l’unica colpevole e responsabile dei mali del passato, ricercando al contempo il dialogo nella reciproca comprensione con quanti si sentissero ancora oggi feriti da atti passati imputabili ai figli della Chiesa. Infine, c’è da aspettarsi che alcuni gruppi possano reclamare una domanda di perdono nei loro confronti, o per analogia con altri o perché ritengono di aver subito dei torti. In ogni caso, la purificazione della memoria non potrà mai significare che la Chiesa rinunci a proclamare la verità rivelata, che le è stata confidata, sia nel campo della fede, che in quello della morale.

Si profilano, cosí, diversi interrogativi: si può investire la coscienza attuale di una ‘colpa’ collegata a fenomeni storici irripetibili, come le crociate o l’inquisizione? Non è fin troppo facile giudicare i protagonisti del passato con la coscienza attuale (come fanno Scribi e Farisei secondo Mt 23,29-32), quasi che la coscienza morale non sia situata nel tempo? E, d’altra parte, si può forse negare che il giudizio etico è sempre in gioco, per il semplice fatto che la verità di Dio e le sue esigenze morali hanno sempre valore? Quale che sia l’atteggiamento da adottare, esso dovrà fare i conti con queste domande, e cercare risposte che siano fondate nella rivelazione e nella sua vivente trasmissione nella fede della Chiesa. La questione prioritaria è dunque quella di chiarire in che misura le domande di perdono per le colpe del passato, soprattutto se indirizzate a gruppi umani attuali, entrino nell’orizzonte biblico e teologico della riconciliazione con Dio e con il prossimo.
 
 

2. APPROCCIO BIBLICO

È possibile sviluppare in vari modi un’indagine sul riconoscimento che Israele fa delle sue colpe nell’Antico Testamento e sul tema della confessione delle colpe cosí come esso si presenta nelle tradizioni del Nuovo Testamento (30)La natura teologica della riflessione qui condotta induce a privilegiare un approccio di genere prevalentemente tematico, muovendo dalla domanda seguente: quale retroterra la testimonianza della Sacra Scrittura fornisce all’invito che Giovanni Paolo II fa alla Chiesa a confessare le colpe del passato?

2.1. L’Antico Testamento
Confessioni di peccati e connesse richieste di perdono si trovano in tutta la Bibbia, tanto nelle narrazioni dell’Antico Testamento, quanto nei Salmi, nei Profeti e nei Vangeli, come pure - piú sporadicamente - nella Letteratura sapienziale e nelle Lettere del Nuovo Testamento. Data l’abbondanza e la diffusione di queste testimonianze, si pone la questione di come selezionare e catalogare la massa dei testi significativi. Ci si può chiedere circa i testi biblici relativi alla confessione dei peccati: chi sta confessando che cosa (e che genere di colpe) a chi? Porre cosí la questione aiuta a distinguere due categorie principali di ‘testi di confessione’, ciascuna delle quali comprende diverse sotto-categorie, e precisamente: a) testi di confessione di peccati individuali e b) testi di confessione dei peccati del popolo intero (e di quelli dei suoi antenati). In rapporto alla recente prassi ecclesiale da cui muove la nostra ricerca conviene restringere l’analisi alla seconda categoria.

In essa si possono identificare diverse possibilità, a seconda di chi fa la confessione dei peccati del popolo e di chi è associato o meno alla colpa comune, prescindendo dalla presenza o meno di una coscienza della responsabilità personale (maturata solo progressivamente: cf. Ez 14,12-23; 18,1-32; 33,10-20). In base a questi criteri si possono distinguere i seguenti casi, peraltro piuttosto fluidi:
- Una prima serie di testi rappresenta l’intero popolo (talvolta personificato come un singolo ‘Io’) che, in un particolare 
     momento della sua storia confessa o allude ai suoi peccati contro Dio senza alcun (esplicito) riferimento alle colpe delle 
     generazioni precedenti (31)
- Un altro gruppo di testi situa la confessione - rivolta a Dio - dei peccati attuali del popolo sulle labbra di uno o piú capi 
     (religiosi), che possono o meno includersi esplicitamente nel popolo peccatore per cui pregano (32)
- Un terzo gruppo di testi presenta il popolo o uno dei suoi capi nell’atto di evocare i peccati degli antenati, senza però far 
     menzione di quelli della generazione presente (33)

Piú di frequente le confessioni che menzionano le colpe degli antenati le collegano espressamente agli errori della generazione presente (34)

Dalle testimonianze raccolte risulta che in tutti i casi dove sono menzionati i ‘peccati dei padri’ la confessione è indirizzata unicamente a Dio ed i peccati confessati dal popolo o per il popolo sono quelli commessi direttamente contro di Lui, piuttosto che quelli compiuti (anche) contro altri esseri umani (solo in Nm 21,7 si fa cenno a una parte umana lesa, Mosè) (35)Sorge la questione sul perché gli scrittori biblici non abbiano sentito il bisogno di richieste di perdono rivolte ad interlocutori presenti riguardo a colpe commesse dai padri, nonostante il loro forte senso della solidarietà fra le generazioni nel bene e nel male (si pensi all’idea della ‘personalità corporativa’). Varie ipotesi potrebbero essere avanzate in risposta a questa questione. C’è, anzitutto, il diffuso teocentrismo della Bibbia che dà la precedenza al riconoscimento sia individuale che nazionale delle colpe commesse verso Dio. Per di piú, atti di violenza perpetrati da Israele contro altri popoli, che sembrerebbero esigere una richiesta di perdono a quei popoli o ai loro discendenti, sono intesi come l’esecuzione delle direttive divine riguardo ad essi, come ad esempio Gs 2-11 e Dt 7, 2 (lo sterminio dei Cananei) o 1 Sam 15 e Dt 25,19 (la distruzione degli Amaleciti). In tali casi il mandato divino implicato parrebbe escludere ogni possibile richiesta di perdono da farsi (36)Le esperienze subite da Israele di maltrattamenti da parte di altri popoli e l’animosità cosí suscitata potrebbero anche aver militato contro l’idea di chiedere perdono a questi popoli per il male ad essi arrecato (37)

Resta comunque rilevante nella testimonianza biblica il senso della solidarietà intergenerazionale nel peccato (e nella grazia), che si esprime nella confessione davanti a Dio dei ‘peccati degli antenati’, tanto che - citando la splendida preghiera di Azaria - Giovanni Paolo II ha potuto affermare: “‘Benedetto sei tu, Signore, Dio dei nostri padri [...] noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da Te, abbiamo mancato in ogni modo. Non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti’ (Dn 3,26.29) Cosí pregavano gli Ebrei dopo l’esilio (cf. anche Bar 2,11-13), facendosi carico delle colpe commesse dai loro padri. La Chiesa imita il loro esempio e chiede perdono per le colpe anche storiche dei suoi figli” (38)
 

2.2. Il Nuovo Testamento
Un tema fondamentale, connesso con l’idea della colpa e presente ampiamente nel Nuovo Testamento, è quello dell’assoluta santità di Dio. Il Dio di Gesú è il Dio d’Israele (cf. Gv 4,22), invocato come ‘Padre santo’ (Gv 17,11), chiamato ‘il Santo’ in 1 Gv 2,20 (cf. Ap 6,10). La triplice proclamazione di Dio come ‘santo’ di Is 6,3 ritorna in Ap 4,8, mentre 1 Pt 1,16 insiste sul fatto che i cristiani devono essere santi “poiché sta scritto: ‘Voi sarete santi, perché io sono santo’” (cf. Lv 11,44-45; 19,2). Tutto questo riflette la nozione veterotestamentaria dell’assoluta santità di Dio. Tuttavia, per la fede cristiana la santità divina è entrata nella storia nella persona di Gesú di Nazaret: la nozione veterotestamentaria non è stata abbandonata, ma sviluppata, nel senso che la santità di Dio si fa presente nella santità del Figlio incarnato (cf. Mc 1,24; Lc 1,35; 4,34; Gv 6,69; At 3,14; 4,27. 30; Ap 3,7), e la santità del Figlio è partecipata ai ‘Suoi’ (cf. Gv 17,16-19), resi figli nel Figlio (cf. Gal 4,4-6; Rm 8,14-17). Non può esserci però alcuna aspirazione alla filiazione divina in Gesú finché non vi sia amore per il prossimo (cf. Mc 12,29-31; Mt 22,37-38; Lc 10,27-28).

Questo motivo, decisivo nell’insegnamento di Gesú, diviene il ‘comandamento nuovo’ nel Vangelo di Giovanni: i discepoli dovranno amare come Lui ha amato (cf. Gv 13,34-35; 15,12. 17), cioè perfettamente, ‘fino alla fine’ (Gv 13,1). Il cristiano, cioè, è chiamato ad amare e perdonare secondo una misura che trascende ogni misura umana di giustizia e produce una reciprocità fra gli esseri umani che riflette quella fra Gesú e il Padre (cf. Gv 13,34s; 15,1-11; 17,21-26). In quest’ottica, grande rilievo è dato al tema della riconciliazione e del perdono delle offese. Ai suoi discepoli Gesú chiede di essere sempre pronti a perdonare quanti li abbiano offesi, cosí come Dio stesso offre sempre il suo perdono: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6, 12. 12-15). Chi è in grado di perdonare al prossimo dimostra di aver compreso il bisogno che personalmente ha del perdono di Dio. Il discepolo è invitato a perdonare “fino a settanta volte sette” chi l’offende, anche se questi non domandasse perdono (cf. Mt 18,21-22).

Gesú insiste sull’atteggiamento richiesto alla persona offesa nei confronti dei suoi offensori: essa è chiamata a fare il primo passo, cancellando l’offesa mediante il perdono offerto “di cuore” (cf. Mt 18,35; Mc 11,25), consapevole di essere essa stessa peccatrice di fronte a Dio, che mai rifiuta il perdono invocato con sincerità. In Mt 5,23-24 Gesú chiede all’offensore di “andare a riconciliarsi col proprio fratello, che ha qualche cosa contro di lui”, prima di presentare la sua offerta all’altare: non è gradito a Dio un atto di culto reso da chi non voglia prima riparare il danno causato al proprio prossimo. Ciò che conta è cambiare il proprio cuore e mostrare in maniera adeguata che si vuole realmente la riconciliazione. Il peccatore, comunque, nella coscienza che i suoi peccati feriscono al tempo stesso la sua relazione con Dio e quella col prossimo (cf. Lc 15,21), può aspettarsi il perdono solo da Dio, perché solo Dio è sempre misericordioso e pronto a cancellare i peccati. Questo è anche il significato del sacrificio di Cristo, che una volta per sempre ci ha purificati dai nostri peccati (cf. Eb 9,22; 10,18). Cosí l’offensore e l’offeso sono riconciliati da Dio nella Sua misericordia che tutti accoglie e perdona.

In questo quadro, che potrebbe ampliarsi mediante l’analisi delle Lettere di Paolo e delle Epistole Cattoliche, non v’è alcun indizio che la Chiesa delle origini abbia rivolto la sua attenzione ai peccati del passato per chiedere perdono. Ciò può spiegarsi con la forte consapevolezza della novità cristiana, che proietta la comunità piuttosto verso il futuro che verso il passato. Si incontra, tuttavia, una piú ampia e sottile insistenza che pervade il Nuovo Testamento: nei Vangeli e nelle Lettere l’ambivalenza propria dell’esperienza cristiana è ampiamente riconosciuta. Per Paolo, ad esempio, la comunità cristiana è un popolo escatologico, che vive già la ‘nuova creazione’ (cf. 2 Cor 5,17; Gal 6,15), ma questa esperienza, resa possibile dalla morte e risurrezione di Gesú (cf. Rm 3,21-26; 5,6-11; 8,1-11; 1 Cor 15,54-57), non ci libera dall’inclinazione al peccato presente nel mondo a causa della caduta di Adamo. Come risultato dell’intervento divino nella e attraverso la morte e risurrezione di Gesú vi sono ora due scenari possibili: la storia di Adamo e quella di Cristo. Esse scorrono fianco a fianco ed il credente deve contare sulla morte e risurrezione del Signore Gesú (cf. ad esempio Rm 6,1-11; Gal 3,27-28; Col 3,10; 2 Cor 5,14-15) per esser parte della storia in cui “sovrabbonda la grazia” (cf. Rm 5,12-21).

Una simile rilettura teologica dell’evento pasquale di Cristo mostra come la Chiesa delle origini avesse un’acuta consapevolezza delle possibili mancanze dei battezzati. Si potrebbe dire che l’intero ‘corpus paulinum’ richiami i credenti a un riconoscimento pieno della loro dignità, pur nella viva coscienza della fragilità della loro condizione umana: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitú” (Gal 5,1). Un analogo motivo può riscontrarsi dalle narrazioni dei Vangeli. Esso emerge incisivamente in Marco, dove le carenze dei discepoli di Gesú sono uno dei temi dominanti del racconto (cf. Mc 4,40-41; 6,36-37.51-52; 8,14-21.31-33; 9,5-6.32-41; 10,32-45; 14,10-11.17-21.27-31.50; 16,8). Sebbene sia comprensibilmente sfumato, lo stesso motivo ritorna in tutti gli Evangelisti. Giuda e Pietro sono rispettivamente il traditore e colui che rinnega il Maestro, anche se Giuda giunge alla disperazione per l’atto compiuto (cf. At 1,15-20), mentre Pietro si pente (cf. Lc 22,61s) e perviene alla triplice professione di amore (cf. Gv 21,15-19). In Matteo, perfino durante l’apparizione finale del Signore risorto, mentre i discepoli lo adorano, “alcuni ancora dubitavano” (Mt 28,17). Il Quarto Vangelo presenta i discepoli come quelli cui è donato un incommensurabile amore, sebbene la loro risposta sia fatta di ignoranza, mancanze, rinnegamento e tradimento (cf. 13,1-38).

Questa costante presentazione dei discepoli chiamati a seguire Gesú, che vacillano nella loro arrendevolezza al peccato, non è semplicemente una rilettura critica della storia delle origini. I racconti sono impostati in modo da rivolgersi a ogni successivo discepolo di Cristo in difficoltà, che guarda al Vangelo come alla propria guida e ispirazione. Peraltro il Nuovo Testamento è pieno di raccomandazioni a comportarsi bene, a vivere un piú alto livello di impegno, ad evitare il male (cf. ad esempio Gc 1,5-8.19-21; 2,1-7; 4,1-10; 1 Pt 1,13-25; 2 Pt 2,1-22; Gd 3-13; 1 Gv 1,5-10; 2,1-11.18-27; 4,1-6; 2 Gv 7-11; 3 Gv 9-10). Non c’è però alcun esplicito richiamo indirizzato ai primi cristiani a confessare delle colpe del passato, anche se è certo molto significativo il riconoscimento della realtà del peccato e del male anche all’interno del popolo chiamato all’esistenza escatologica propria della condizione cristiana (si pensi solo ai rimproveri contenuti nelle lettere alle sette Chiese dell’Apocalisse). Secondo la petizione che si trova nella preghiera del Signore questo popolo invoca: “Perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore” (Lc 11,4; cf. Mt 6,12). I primi cristiani, insomma, mostrano di essere ben consapevoli di poter agire in maniera non corrispondente alla vocazione ricevuta, non vivendo il battesimo della morte e risurrezione di Gesú con cui erano stati battezzati.
 

2.3. Il Giubileo biblico
Un significativo retroterra biblico della riconciliazione legata al superamento di situazioni passate è rappresentato dalla celebrazione del Giubileo, cosí come è regolata nel libro del Levitico (cap. 25). In una struttura sociale fatta di tribú, clan e famiglie, inevitabilmente si creavano situazioni di disordine quando individui o famiglie di condizioni disagevoli dovevano ‘riscattare’ se stessi dalle proprie difficoltà consegnando la proprietà della loro terra o casa o di servi o figli a coloro che erano in condizioni migliori delle loro. Un tale sistema aveva come effetto che alcuni Israeliti venivano a soffrire situazioni intollerabili di debito, di povertà e di schiavitú in quella stessa terra, che era stata data ad essi da Dio, a vantaggio di altri figli d’Israele. Tutto questo poteva far sí che in periodi piú o meno lunghi di tempo un territorio o un clan cadessero nelle mani di pochi ricchi, mentre il resto delle famiglie del clan veniva a trovarsi in una forma di debito o di servitú, tale da dover vivere in totale dipendenza dai piú benestanti.

La legislazione di Lv 25 costituisce un tentativo di capovolgere tutto questo (tanto da poter dubitare che sia mai stata messa in pratica pienamente!): essa convocava la celebrazione del Giubileo ogni 50 anni al fine di preservare il tessuto sociale del popolo di Dio e restituire l’indipendenza anche alla piú piccola famiglia del paese. È decisiva per Lv 25 la regolare ripetizione della confessione di fede d’Israele nel Dio che ha liberato il Suo popolo attraverso l’Esodo: “Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto, per darvi il paese di Canaan, per essere il vostro Dio” (Lv 25,38; cf. vv. 42.45). La celebrazione del Giubileo era un’implicita ammissione di colpa e un tentativo di ristabilire un ordine giusto. Ogni sistema che alienasse un qualunque Israelita, una volta schiavo, ma ora liberato dal braccio potente di Dio, veniva di fatto a smentire l’azione salvifica divina nell’Esodo e attraverso di esso.

La liberazione delle vittime e dei sofferenti diventa parte del piú ampio programma dei profeti. Il Deutero-Isaia, nei Carmi del Servo sofferente (Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12), sviluppa queste allusioni alla pratica del Giubileo con i temi del riscatto e della libertà, del ritorno e della redenzione. Isaia 58 è un attacco contro l’osservanza rituale che non ha riguardo per la giustizia sociale, un richiamo alla liberazione degli oppressi (Is 58,6), centrato specificamente sugli obblighi di parentela (v. 7). Piú chiaramente, Isaia 61 usa le immagini del Giubileo per ritrarre l’Unto come l’araldo di Dio inviato ad ‘evangelizzare’ i poveri, a proclamare la libertà ai prigionieri e ad annunciare l’anno di grazia del Signore. È significativamente proprio questo testo, con un’allusione a Isaia 58,6, che Gesú usa per presentare il compito della sua vita e del suo ministero in Luca 4,17-21.
 

2.4. Conclusione
Da quanto detto si può concludere che l’appello rivolto da Giovanni Paolo II alla Chiesa perché caratterizzi l’anno giubilare con un’ammissione di colpa per tutte le sofferenze e le offese di cui i suoi figli sono stati responsabili nel passato (39)cosí come la prassi ad esso congiunta, non trovano un riscontro univoco nella testimonianza biblica. Tuttavia, essi si basano su quanto la Sacra Scrittura afferma riguardo alla santità di Dio, alla solidarietà intergenerazionale del Suo popolo e al riconoscimento del suo essere peccatore. L’appello del Papa coglie inoltre correttamente lo spirito del Giubileo biblico, che richiede che siano compiuti atti volti a ristabilire l’ordine dell’originario disegno di Dio sulla creazione. Ciò esige che la proclamazione dell’‘oggi’ del Giubileo, iniziato da Gesú (cf. Lc 4,21), sia continuata nella celebrazione giubilare della Sua Chiesa. Questa singolare esperienza di grazia, inoltre, spinge il popolo di Dio tutto intero, come ciascuno dei battezzati, a prendere ancor piú coscienza del mandato ricevuto dal Signore di essere sempre pronti a perdonare le offese ricevute.
 
 

3. FONDAMENTI TEOLOGICI

“È giusto che, mentre il secondo millennio del cristianesimo volge al termine, la Chiesa si faccia carico con piú viva consapevolezza del peccato dei suoi figli nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui, nell’arco della storia, essi si sono allontanati dallo spirito di Cristo e del suo Vangelo, offrendo al mondo, anziché la testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare e di agire che erano vere forme di controtestimonianza e di scandalo. La Chiesa, pur essendo santa per la sua incorporazione a Cristo, non si stanca di fare penitenza: essa riconosce sempre come propri, davanti a Dio e agli uomini, i figli peccatori” (40)Queste parole di Giovanni Paolo II sottolineano come la Chiesa sia toccata dal peccato dei suoi figli: santa, in quanto resa tale dal Padre mediante il sacrificio del Figlio e il dono dello Spirito, essa è in un certo senso anche peccatrice, in quanto assume realmente su di sé il peccato di coloro che essa stessa ha generato nel battesimo, analogamente a come il Cristo Gesú ha assunto il peccato del mondo (cf. Rm 8,3; 2 Cor 5,21; Gal 3,13; 1 Pt 2,24) (41)Appartiene peraltro alla piú profonda autocoscienza ecclesiale nel tempo il convincimento che la Chiesa non sia solo una comunità di eletti, ma comprenda nel suo seno giusti e peccatori del presente, come del passato, nell’unità del mistero, che la costituisce. Nella grazia, infatti, come nella ferita del peccato, i battezzati di oggi sono vicini e solidali a quelli di ieri. Perciò si può dire che la Chiesa - una nel tempo e nello spazio in Cristo e nello Spirito - è veramente “santa insieme e sempre bisognosa di purificazione” (42)Da questo paradosso - caratteristico del mistero ecclesiale - nasce l’interrogativo su come si concilino i due aspetti: da una parte, l’affermazione di fede della santità della Chiesa; dall’altra, il suo incessante bisogno di penitenza e di purificazione.
 

3.1. Il mistero della Chiesa
“La Chiesa è nella storia, ma nello stesso tempo la trascende. È unicamente ‘con gli occhi della fede’ che si può scorgere nella sua realtà visibile una realtà contemporaneamente spirituale, portatrice di vita divina” (43)L’insieme degli aspetti visibili e storici si rapporta al dono divino in modo analogo a come nel Verbo di Dio incarnato l’umanità assunta è segno e strumento dell’agire della Persona divina del Figlio: le due dimensioni dell’essere ecclesiale formano “una sola complessa realtà risultante di un elemento umano e di un elemento divino” (44)in una comunione, che partecipa della vita trinitaria e fa sí che i battezzati si sentano uniti fra di loro pur nella diversità dei tempi e dei luoghi della storia. In forza di questa comunione, la Chiesa si presenta come un soggetto assolutamente unico nella vicenda umana, tale da potersi far carico dei doni, dei meriti e delle colpe dei suoi figli di oggi, come di quelli di ieri.

La non debole analogia col mistero del Verbo incarnato implica tuttavia anche una fondamentale differenza: “Mentre Cristo ‘santo, innocente, immacolato’ (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cf. 2 Cor 5,21), ma venne allo scopo di espiare i soli peccati del popolo (cf. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno i peccatori, santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento” (45)L’assenza di peccato nel Verbo Incarnato non può attribuirsi al Suo Corpo ecclesiale, al cui interno, anzi, ciascuno - partecipe della grazia donata da Dio - è non di meno bisognoso di vigilanza e di incessante purificazione e solidale con la debolezza degli altri: “Tutti i membri della Chiesa, compresi i suoi ministri, devono riconoscersi peccatori (cf. 1 Gv 1,8-10). In tutti, sino alla fine dei tempi, la zizzania del peccato si trova ancora mescolata al buon grano del Vangelo (cf. Mt 13,24-30). La Chiesa raduna dunque dei peccatori raggiunti dalla salvezza di Cristo, ma sempre in via di santificazione” (46)

Già Paolo VI aveva solennemente affermato che “la Chiesa è santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia. [...] Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui peraltro ha il potere di guarire i suoi figli con il sangue di Cristo e il dono dello Spirito Santo” (47)La Chiesa è insomma nel suo ‘mistero’ incontro di santità e di debolezza continuamente redenta e sempre di nuovo bisognosa della forza della redenzione. Come insegna la liturgia, vera ‘lex credendi’, il singolo fedele e il popolo dei santi invocano da Dio che il Suo sguardo si posi sulla fede della Sua Chiesa e non sui peccati dei singoli, che di questa fede vissuta sono la negazione: “Ne respicias peccata nostra, sed fidem Ecclesiae tuae!”. Nell’unità del mistero ecclesiale attraverso il tempo e lo spazio è possibile allora considerare l’aspetto della santità, il bisogno di pentimento e di riforma, e la loro articolazione nell’agire della Chiesa Madre.
 

3.2. La santità della Chiesa
La Chiesa è santa perché, santificata da Cristo, che l’ha acquistata consegnandosi alla morte per lei, è mantenuta nella santità dallo Spirito Santo, che la pervade incessantemente: “Noi crediamo che la Chiesa è indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio di Dio, il quale col Padre e lo Spirito è proclamato ‘il solo santo’, ha amato la Chiesa come sua sposa e ha dato se stesso per lei, al fine di santificarla (cf. Ef 5,25s), e l’ha unita a sé come suo corpo e l’ha riempita col dono dello Spirito Santo, per la gloria di Dio. Perciò tutti nella Chiesa sono chiamati alla santità” (48)In questo senso, sin dalle origini i membri della Chiesa sono chiamati i ‘santi’ (cf. At 9,13; 1 Cor 6,1s; 16,1). Si può distinguere, tuttavia, la santità della Chiesa dalla santità nella Chiesa. La prima - fondata nelle missioni del Figlio e dello Spirito - garantisce la continuità della missione del popolo di Dio sino alla fine dei tempi e stimola ed aiuta i credenti a perseguire la santità soggettiva e personale. Nella vocazione che ciascuno riceve è invece radicata la forma di santità che gli è stata donata e che da lui si richiede, compimento pieno della propria vocazione e missione. La santità personale è in ogni caso proiettata verso Dio e verso gli altri ed ha perciò un carattere essenzialmente sociale: è santità ‘nella Chiesa’, orientata al bene di tutti.

Alla santità della Chiesa deve dunque corrispondere la santità nella Chiesa: “I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesú Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno ricevuta” (49)Il battezzato è chiamato a divenire con tutta la sua esistenza ciò che è diventato in forza della consacrazione battesimale: e questo non avviene senza l’assenso della sua libertà e l’aiuto della Grazia che viene da Dio. Quando ciò avviene, si lascia riconoscere nella storia l’umanità nuova secondo Dio: nessuno diventa se stesso tanto pienamente, quanto il santo che accoglie il piano divino e con l’aiuto della Grazia conforma tutto il proprio essere al progetto dell’Altissimo! I santi sono in questo senso come delle luci suscitate dal Signore in mezzo alla sua Chiesa per illuminarla, profezia per il mondo intero.
 

3.3. La necessità di un continuo rinnovamento
Senza offuscare questa santità, si deve riconoscere che a causa della presenza del peccato c’è bisogno di un continuo rinnovamento e di una costante conversione nel popolo di Dio: la Chiesa sulla terra è “adornata di una santità vera”, che però è “imperfetta” (50)Osserva Agostino contro i Pelagiani: “La Chiesa nel suo insieme dice: Rimetti a noi i nostri debiti! Essa quindi ha delle macchie e delle rughe. Ma mediante la confessione le rughe vengono appianate, mediante la confessione le macchie vengono lavate. La Chiesa sta in preghiera per essere purificata dalla confessione, e finché vivranno gli uomini sulla terra essa starà cosí” (51)E Tommaso d’Aquino precisa che la pienezza della santità appartiene al tempo escatologico, mentre la Chiesa peregrinante non deve ingannarsi, affermando di essere senza peccato: “Che la Chiesa sia gloriosa, senza macchia né ruga, è lo scopo finale verso cui tendiamo in virtú della passione di Cristo. Ciò si avrà pertanto solo nella patria eterna, e non già nel pellegrinaggio; qui [...] ci inganneremmo se dicessimo di non aver alcun peccato” (52)In realtà, “sebbene rivestiti della veste battesimale, noi non cessiamo di peccare, di allontanarci da Dio. Ora, con la domanda ‘Rimetti a noi i nostri debiti’, torniamo a lui, come il figlio prodigo (cf. Lc 15,11-32), e ci riconosciamo peccatori davanti a lui, come il pubblicano (cf. Lc 18,13). La nostra richiesta inizia con la nostra ‘confessione’, con la quale confessiamo ad un tempo la nostra miseria e la sua misericordia” (53)

È pertanto la Chiesa intera che, mediante la confessione del peccato dei suoi figli, confessa la sua fede in Dio e ne celebra l’infinita bontà e capacità di perdono: grazie al vincolo stabilito dallo Spirito Santo la comunione che esiste fra tutti i battezzati nel tempo e nello spazio è tale, che in essa ciascuno è se stesso, ma nello stesso tempo è condizionato dagli altri ed esercita su di loro un influsso nello scambio vitale dei beni spirituali. In tal modo, la santità degli uni influenza la crescita nel bene degli altri, ma anche il peccato non ha mai soltanto una rilevanza esclusivamente individuale, perché pesa e oppone resistenza sul cammino della salvezza di tutti e in tal senso tocca veramente la Chiesa nella sua interezza, attraverso la varietà dei tempi e dei luoghi. Questa convinzione spinge i Padri ad affermazioni nette come questa di Ambrogio: “Stiamo bene attenti a che la nostra caduta non diventi una ferita della Chiesa” (54)Essa, perciò, “pur essendo santa per la sua incorporazione a Cristo, non si stanca di fare penitenza: e riconosce sempre come propri, davanti a Dio e agli uomini, i figli peccatori” (55)quelli di oggi, come quelli di ieri.
 

3.4. La maternità della Chiesa
La convinzione che la Chiesa possa farsi carico del peccato dei suoi figli in forza della solidarietà esistente fra di essi nel tempo e nello spazio grazie alla loro incorporazione a Cristo e all’opera dello Spirito Santo, è espressa in modo particolarmente efficace dall’idea della ‘Chiesa Madre’ (‘Mater Ecclesia’), che “nella concezione protopatristica è il concetto centrale di tutto l’anelito cristiano” (56)la Chiesa - afferma il Vaticano II - “per mezzo della Parola di Dio accolta con fedeltà diventa essa pure madre, poiché con la predicazione ed il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio” (57)Alla vastissima tradizione, di cui queste idee sono eco, dà voce ad esempio Agostino con queste parole: “Questa santa madre degna di venerazione, la Chiesa, è uguale a Maria: essa partorisce ed è vergine, da lei siete nati - essa genera Cristo, perché voi siete le membra di Cristo” (58)Cipriano di Cartagine afferma nettamente: “Non può avere Dio per padre chi non ha la Chiesa come madre” (59)E Paolino di Nola canta cosí la maternità della Chiesa: “Come madre riceve il seme della Parola eterna, porta i popoli nel grembo e li dà alla luce” (60)

Secondo questa visione, la Chiesa si realizza continuamente nello scambio e nella comunicazione dello Spirito dall’uno all’altro dei credenti come ambiente generatore di fede e di santità nella comunione fraterna, nell’unanimità orante, nella partecipazione solidale alla Croce, nella testimonianza comune. In forza di questa comunicazione vitale ciascun battezzato può essere considerato al tempo stesso figlio della Chiesa, in quanto generato in essa alla vita divina, e Chiesa Madre, in quanto coopera con la sua fede e la sua carità a generare nuovi figli per Dio: è anzi tanto piú Chiesa Madre, quanto piú grande è la sua santità e piú ardente lo sforzo di comunicare ad altri il dono ricevuto. D’altra parte, non cessa di essere figlio della Chiesa il battezzato che a causa del peccato si separasse col cuore da essa: egli potrà sempre di nuovo accedere alle sorgenti della grazia e rimuovere il peso che la sua colpa fa gravare sull’intera comunità della Chiesa Madre. Questa, a sua volta, come vera Madre non potrà non essere ferita dal peccato dei suoi figli di oggi, come di ieri, continuando sempre ad amarli, al punto da farsi carico in ogni tempo del peso prodotto dalle loro colpe: in quanto tale, la Chiesa appare ai Padri come Madre dei dolori, non solo a causa delle persecuzioni esterne, ma soprattutto per i tradimenti, i fallimenti, i ritardi e le contaminazioni dei suoi figli.

La santità e il peccato nella Chiesa si riflettono dunque nei loro effetti sulla Chiesa intera, anche se è convinzione della fede che la santità sia piú forte del peccato in quanto frutto della grazia divina: ne sono prova luminosa le figure dei santi, riconosciuti come modello e aiuto per tutti! Fra la grazia e il peccato non c’è un parallelismo, e neppure una sorta di simmetria o di rapporto dialettico: l’influsso del male non potrà mai vincere la forza della grazia e l’irradiazione del bene, anche il piú nascosto! In questo senso la Chiesa si riconosce esistenzialmente santa nei suoi santi: mentre però si rallegra di questa santità e ne avverte il beneficio, si confessa non di meno peccatrice, non in quanto soggetto del peccato, ma in quanto assume con solidarietà materna il peso delle colpe dei suoi figli, per cooperare al loro superamento sulla via della penitenza e della novità di vita. Perciò, la Chiesa santa avverte il dovere “di rammaricarsi profondamente per le debolezze di tanti suoi figli, che ne hanno deturpato il volto, impedendole di riflettere pienamente l’immagine del suo Signore crocifisso, testimone insuperabile di amore paziente e di umile mitezza” (61)

Ciò può essere fatto in modo particolare da chi per carisma e ministero esprime nella forma piú densa la comunione del popolo di Dio: a nome delle Chiese locali potranno dar voce alle eventuali confessioni di colpa e richieste di perdono i rispettivi Pastori; a nome della Chiesa intera, una nel tempo e nello spazio, potrà pronunciarsi Colui che esercita il ministero universale di unità, il Vescovo della Chiesa “che presiede nell’amore” (62)il Papa. Ecco perché è particolarmente significativo che sia venuto proprio da Lui l’invito a che “la Chiesa si faccia carico con piú viva consapevolezza del peccato dei suoi figli” e riconosca la necessità di farne “ammenda, invocando con forza il perdono di Cristo” (63)
 
 

4. GIUDIZIO STORICO E GIUDIZIO TEOLOGICO

L’individuazione delle colpe del passato di cui fare ammenda implica anzitutto un corretto giudizio storico, che sia alla base anche della valutazione teologica. Ci si deve domandare: che cosa è precisamente avvenuto? che cosa è stato propriamente detto e fatto? Solo quando a questi interrogativi sarà stata data una risposta adeguata, frutto di un rigoroso giudizio storico, ci si potrà anche chiedere se ciò che è avvenuto, che è stato detto o compiuto può essere interpretato come conforme o no al Vangelo, e, nel caso non lo fosse, se i figli della Chiesa che hanno agito cosí avrebbero potuto rendersene conto a partire dal contesto in cui operavano. Unicamente quando si perviene alla certezza morale che quanto è stato fatto contro il Vangelo da alcuni figli della Chiesa ed a suo nome avrebbe potuto essere compreso da essi come tale ed evitato, può aver significato per la Chiesa di oggi fare ammenda di colpe del passato.

Il rapporto tra ‘giudizio storico’ e ‘giudizio teologico’ risulta dunque tanto complesso, quanto necessario e determinante. Perciò, occorre metterlo in atto senza prevaricazioni da una parte o dall’altra: ciò che bisogna evitare è tanto un’apologetica che voglia tutto giustificare, quanto un’indebita colpevolizzazione, fondata sull’attribuzione di responsabilità storicamente insostenibili. Ha affermato Giovanni Paolo II, riferendosi alla valutazione storico-teologica dell’opera dell’Inquisizione: “Il Magistero ecclesiale non può certo proporsi di compiere un atto di natura etica, quale è la richiesta di perdono, senza prima essersi esattamente informato circa la situazione di quel tempo. Ma neppure può appoggiarsi sulle immagini del passato veicolate dalla pubblica opinione, giacché esse sono spesso sovraccariche di una emotività passionale che impedisce la diagnosi serena ed obiettiva [...]. Ecco perché il primo passo consiste nell’interrogare gli storici, ai quali non viene chiesto un giudizio di natura etica, che sconfinerebbe dall’ambito delle loro competenze, ma di offrire un aiuto alla ricostruzione il piú possibile precisa degli avvenimenti, degli usi, della mentalità di allora, alla luce del contesto storico dell’epoca” (64)
 

4.1. L’interpretazione della storia
Quali sono le condizioni di una corretta interpretazione del passato dal punto di vista del sapere storico? Per determinarle, occorre tener conto della complessità del rapporto che intercorre fra il soggetto che interpreta e il passato oggetto dell’interpretazione (65)in primo luogo, va sottolineata la reciproca estraneità fra di essi. Eventi o parole del passato sono anzitutto ‘passati’: come tali essi non sono riducibili totalmente alle istanze attuali, ma hanno uno spessore e una complessità oggettivi, che impediscono di disporne in maniera unicamente funzionale agli interessi del presente. Bisogna pertanto accostarsi ad essi mediante un’indagine storico-critica, che miri ad utilizzare tutte le informazioni accessibili in vista della ricostruzione dell’ambiente, dei modi di pensare, dei condizionamenti e del processo vitale in cui quegli eventi e quelle parole si collocano, per accertare in tal modo i contenuti e le sfide che - proprio nella loro diversità - essi propongono al nostro presente.

In secondo luogo, fra chi interpreta e ciò che è interpretato si deve riconoscere una certa coappartenenza, senza la quale nessun legame e nessuna comunicazione potrebbero sussistere fra passato e presente: questo legame comunicativo è fondato nel fatto che ogni essere umano di ieri o di oggi si situa in un complesso di relazioni storiche ed ha bisogno per viverle della mediazione linguistica, sempre storicamente determinata. Tutti apparteniamo alla storia! Mettere in luce la coappartenenza fra l’interprete e l’oggetto dell’interpretazione - che deve essere raggiunto attraverso le molteplici forme in cui il passato ha lasciato testimonianza di sé (testi, monumenti, tradizioni, ecc.) - vuol dire giudicare della correttezza delle possibili corrispondenze e delle eventuali difficoltà di comunicazione col presente rilevate dalla propria intelligenza delle parole o degli eventi passati: ciò esige di tener conto delle domande che motivano la ricerca e della loro incidenza sulle risposte ottenute, del contesto vitale in cui si opera e della comunità interpretante, il cui linguaggio si parla ed alla quale si intende parlare. A tal fine è necessario rendere il piú possibile riflessa e consapevole la precomprensione, che di fatto è sempre inclusa in ogni interpretazione, per misurarne e temperarne la reale incidenza sul processo interpretativo.

Infine, fra chi interpreta e il passato oggetto dell’interpretazione viene a compiersi, attraverso lo sforzo conoscitivo e valutativo, una osmosi (‘fusione di orizzonti’), in cui consiste propriamente l’atto della comprensione. In essa si esprime quella che si giudica essere l’intelligenza corretta degli eventi o delle parole del passato: il che equivale a cogliere il significato che essi possono avere per l’interprete e il suo mondo. Grazie a questo incontro di mondi vitali la comprensione del passato si traduce nella sua applicazione al presente: il passato è colto nelle potenzialità che schiude, nello stimolo che offre a modificare il presente; la memoria diventa capace di suscitare nuovo futuro.

All’osmosi feconda col passato si giunge attraverso l’intreccio di alcune operazioni ermeneutiche fondamentali, corrispondenti ai momenti indicati dell’estraneità, della coappartenenza e della comprensione vera e propria. In relazione a un ‘testo’ del passato - inteso in generale come testimonianza scritta, orale, monumentale o figurativa - queste operazioni possono essere espresse cosí: “1) Capire il testo, 2) giudicare della correttezza della propria intelligenza del testo e 3) esprimere quella che si giudica essere l’intelligenza corretta del testo” (66)Capire la testimonianza del passato vuol dire raggiungerla il piú possibile nella sua oggettività, attraverso tutte le fonti di cui è possibile disporre; giudicare della correttezza della propria interpretazione significa verificare con onestà e rigore in che misura essa possa essere stata orientata o comunque condizionata dalla precomprensione e dai possibili pregiudizi dell’interprete; esprimere l’interpretazione raggiunta significa rendere gli altri partecipi del dialogo intessuto col passato, sia per verificarne la rilevanza, sia per esporsi al confronto di eventuali altre interpretazioni.
 

4.2. Indagine storica e valutazione teologica
Se queste operazioni sono presenti in ogni atto ermeneutico, esse non possono mancare neanche nell’interpretazione in cui giudizio storico e giudizio teologico vengono a integrarsi: ciò esige in primo luogo che in questo tipo di interpretazione si presti la massima attenzione agli elementi di differenziazione ed estraneità fra presente e passato. In particolare, quando si intende giudicare di possibili colpe del passato occorre tener presente che diversi sono i tempi storici, diversi i tempi sociologici e culturali dell’agire ecclesiale, per cui paradigmi e giudizi propri di una società e di un’epoca potrebbero essere erroneamente applicati nella valutazione di altre fasi della storia, generando non pochi equivoci; diverse sono le persone, le istituzioni e le loro rispettive competenze; diverse le maniere di pensare e diversi i condizionamenti. Vanno perciò precisate le responsabilità degli eventi e delle parole dette, tenendo conto del fatto che una richiesta ecclesiale di perdono impegna lo stesso soggetto teologico - la Chiesa - nella varietà dei modi e dei gradi con cui i singoli rappresentano la comunità ecclesiale e nella diversità delle situazioni storiche e geografiche, fra di loro spesso molto differenti. Ogni generalizzazione va evitata. Ogni eventuale pronunciamento attuale va situato e deve essere prodotto dai soggetti piú propriamente chiamati in causa (Chiesa universale, Episcopati nazionali, Chiese particolari, ecc.).

In secondo luogo, la correlazione di giudizio storico e giudizio teologico deve tener conto del fatto che, per l’interpretazione della fede, il legame fra passato e presente non è motivato solo dall’interesse attuale e dalla comune appartenenza di ogni essere umano alla storia e alle sue mediazioni espressive, ma si fonda anche sull’azione unificante dello Spirito di Dio e sull’identità permanente del principio costitutivo della comunione dei credenti, che è la rivelazione. La Chiesa - in forza della comunione prodotta in essa dallo Spirito di Cristo nel tempo e nello spazio - non può non riconoscersi nel suo principio soprannaturale, presente e operante in tutti i tempi, come soggetto in certo modo unico, chiamato a corrispondere al dono di Dio in forme e situazioni diverse attraverso le scelte dei suoi figli, pur con tutte le carenze che possono averle caratterizzate. La comunione nell’unico Spirito Santo fonda anche diacronicamente una comunione dei ‘santi’, in forza della quale i battezzati di oggi si sentono legati ai battezzati di ieri e - come beneficiano dei loro meriti e si nutrono della loro testimonianza di santità - cosí si sentono in dovere di assumere l’eventuale peso attuale delle loro colpe, dopo averne fatto attento discernimento storico e teologico.

Grazie a questo fondamento oggettivo e trascendente della comunione del popolo di Dio nelle sue varie situazioni storiche, l’interpretazione credente riconosce al passato della Chiesa un significato per l’oggi del tutto peculiare: l’incontro con esso, che si produce nell’atto dell’interpretazione, può rivelarsi carico di particolari valenze per il presente, ricco di una efficacia ‘performativa’ non sempre previamente calcolabile. Naturalmente, la forte unitarietà dell’orizzonte ermeneutico e del soggetto ecclesiale interpretante espone piú facilmente lo sguardo teologico al rischio di cedere a letture apologetiche o strumentali: è qui che l’esercizio ermeneutico volto a capire eventi e parole del passato e a misurare la correttezza della loro interpretazione per l’oggi è quanto mai necessario. La lettura credente si servirà a tal fine di tutti i possibili contributi offerti dalle scienze storiche e dai metodi interpretativi. L’esercizio dell’ermeneutica storica non dovrà però impedire alla valutazione della fede di interpellare i testi secondo la peculiarità che la caratterizza, e quindi facendo interagire presente e passato nella coscienza dell’unità fondamentale del soggetto ecclesiale implicato in essi. Ciò mette in guardia da ogni storicismo che relativizzi il peso delle colpe passate e che consideri la storia giustificatrice di tutto. Come osserva Giovanni Paolo II, “un corretto giudizio storico non può prescindere da un’attenta considerazione dei condizionamenti culturali del momento [...]. Ma la considerazione delle circostanze attenuanti non esonera la Chiesa dal dovere di rammaricarsi profondamente per le debolezze di tanti suoi figli” (67)La Chiesa, insomma, “non teme la verità che emerge dalla storia ed è pronta a riconoscere gli sbagli, là dove sono accertati, soprattutto quando si tratta del rispetto dovuto alle persone e alle comunità. Essa è propensa a diffidare delle sentenze generalizzate di assoluzione o di condanna rispetto alle varie epoche storiche. Affida l’indagine sul passato alla paziente e onesta ricostruzione scientifica, libera da pregiudizi di tipo confessionale o ideologico, sia per quanto riguarda gli addebiti che le vengono fatti, sia per i torti da essa subiti” (68)Gli esempi offerti nel capitolo seguente potranno darne una concreta dimostrazione.
 
 

5. DISCERNIMENTO ETICO

Perché la Chiesa compia un appropriato esame di coscienza storico al cospetto di Dio in vista del proprio rinnovamento interiore e della crescita nella grazia e nella santità, è necessario che essa sappia riconoscere le “forme di controtestimonianza e di scandalo”, che si sono presentate nella sua storia, in particolare durante il trascorso millennio. Non è possibile adempiere a un tale compito senza essere consapevoli della sua rilevanza morale e spirituale. Ciò esige la definizione di alcuni termini chiave, oltre che la formulazione di alcune precisazioni necessarie sul piano etico.
 

5.1. Alcuni criteri etici
Sul piano morale, la richiesta di perdono presuppone sempre un’ammissione di responsabilità, e precisamente della responsabilità relativa a una colpa commessa contro altri. La responsabilità morale di solito si riferisce alla relazione fra l’azione e la persona che la compie: essa stabilisce l’appartenenza di un atto, la sua attribuzione a una certa persona o a piú persone. La responsabilità può essere oggettiva o soggettiva: la prima si riferisce al valore morale dell’atto in se stesso in quanto buono o cattivo, e dunque all’imputabilità dell’azione; la seconda riguarda l’effettiva percezione da parte della coscienza individuale della bontà o malizia dell’atto compiuto. La responsabilità soggettiva cessa con la morte di chi ha compiuto l’atto: essa, cioè, non si trasmette per generazione, per cui i discendenti non ereditano la (soggettiva) responsabilità degli atti dei loro antenati. In tal senso, chiedere perdono presuppone una contemporaneità fra coloro che sono offesi da un’azione e coloro che l’hanno compiuta. La sola responsabilità in grado di continuare nella storia può essere quella di tipo oggettivo, alla quale si può sempre liberamente aderire o meno soggettivamente. Cosí, il male fatto spesso sopravvive a chi l’ha fatto attraverso le conseguenze dei comportamenti, che possono diventare un fardello pesante sulla coscienza e la memoria dei discendenti.

In tale contesto si può parlare di una solidarietà che unisce il passato e il presente in un rapporto di reciprocità. In certe situazioni il peso che grava sulla coscienza può essere cosí pesante da costituire una sorta di memoria morale e religiosa del male fatto, che è per sua natura una memoria comune: essa testimonia in modo eloquente della solidarietà obiettivamente esistente fra coloro che hanno fatto il male nel passato e i loro eredi nel presente. È allora che diviene possibile parlare di una responsabilità comune oggettiva. Dal peso di una tale responsabilità ci si libera anzitutto implorando il perdono di Dio per le colpe del passato, e quindi, dove è il caso, attraverso la ‘purificazione della memoria’, culminante nel reciproco perdono dei peccati e delle offese nel presente.

Purificare la memoria significa eliminare dalla coscienza personale e collettiva tutte le forme di risentimento o di violenza che l’eredità del passato vi avesse lasciato, sulla base di un nuovo e rigoroso giudizio storico-teologico, che fonda un conseguente, rinnovato comportamento morale. Ciò avviene tutte le volte in cui si giunge ad attribuire ad atti storici passati una diversa qualità, che comporti una loro nuova e diversa incidenza sul presente in vista della crescita della riconciliazione nella verità, nella giustizia e nella carità fra gli esseri umani ed in particolare fra la Chiesa e le diverse comunità religiose, culturali o civili con cui essa ha rapporti. Modelli emblematici di questa incidenza che un giudizio interpretativo autorevole posteriore può avere sull’intera vita della Chiesa sono la recezione dei Concili o atti come l’abolizione di reciproci anatemi, che esprimono una nuova qualificazione della storia passata in grado di produrre una diversa caratterizzazione delle relazioni vissute nel presente. La memoria della divisione e della contrapposizione è purificata e sostituita da una memoria riconciliata, a cui tutti nella Chiesa sono invitati ad aprirsi ed educarsi.

La combinazione di giudizio storico e giudizio teologico nel processo interpretativo del passato si salda qui alle ripercussioni etiche che essa può avere nel presente, e che implicano alcuni principi, corrispondenti sul piano morale alla fondazione ermeneutica del rapporto fra giudizio storico e giudizio teologico. Essi sono:
a. Il principio di coscienza. La coscienza, tanto come ‘giudizio morale’, quanto come ‘imperativo morale’, costituisce la 
      valutazione ultima di un atto in relazione alla sua bontà o malizia davanti a Dio. In effetti, solo Dio conosce il valore morale 
      di ciascun atto umano, anche se la Chiesa, come Gesú, può e deve classificare, giudicare e talvolta condannare alcuni tipi 
      di azione (cf. Mt 18,15-18).
b. Il principio di storicità. Precisamente in quanto ciascun atto umano appartiene a chi lo fa, ogni coscienza individuale ed ogni 
      società sceglie ed agisce all’interno di un determinato orizzonte di tempo e spazio. Per comprendere veramente gli atti 
      umani o le dinamiche ad essi connesse, perciò, dovremmo entrare nel mondo proprio di coloro che li hanno compiuti: solo 
      cosí potremmo giungere a conoscere le loro motivazioni e i loro principi morali. E questo va detto senza pregiudizio della 
      solidarietà che lega i membri di una specifica comunità attraverso lo scorrere del tempo.
c. Il principio del cambiamento di ‘paradigma’. Mentre prima dell’avvento dell’Illuminismo esisteva una sorta di osmosi fra 
      Chiesa e Stato, fra fede e cultura, moralità e legge, a partire dal XVIII secolo questa relazione è stata notevolmente 
      modificata. Il risultato è una transizione da una società sacrale a una società pluralista o, come è avvenuto in alcuni casi, ad 
      una società secolare: i modelli di pensiero e di azione, i cosí detti ‘paradigmi’ di azione e di valutazione cambiano. Una
      simile transizione ha un impatto diretto sui giudizi morali, anche se questo influsso non giustifica in alcun modo un’idea 
      relativistica dei principi morali o della natura della moralità stessa.

L’intero processo della purificazione della memoria, comunque, in quanto richiede la corretta combinazione di valutazione storica e di sguardo teologico va vissuto da parte dei figli della Chiesa non solo con il rigore, che tenga conto precisamente dei criteri e dei principi indicati, ma anche nella continua invocazione dell’assistenza dello Spirito Santo, affinché non si cada nel risentimento o nell’auto-flagellazione e si pervenga invece alla confessione del Dio la cui “misericordia è di generazione in generazione” (Lc 1,50), che vuole la vita e non la morte, il perdono e non la condanna, l’amore e non il timore. Va qui evidenziato anche il carattere di esemplarità che l’onesta ammissione delle colpe passate può esercitare sulle mentalità nella Chiesa e nella società civile, sollecitando un rinnovato impegno di obbedienza alla Verità e di conseguente rispetto per la dignità ed i diritti degli altri, soprattutto piú deboli. In tal senso, le numerose richieste di perdono formulate da Giovanni Paolo II costituiscono un esempio, che mette in evidenza un bene e ne stimola l’imitazione, richiamando i singoli e i popoli a un esame di coscienza onesto e fruttuoso in vista di cammini di riconciliazione.

Alla luce di questi chiarimenti sul piano etico, si possono ora approfondire alcuni esempi - fra cui quelli menzionati dalla Tertio Millennio Adveniente (69)di situazioni in cui il comportamento dei figli della Chiesa sembra aver contraddetto il Vangelo di Gesú Cristo in maniera rilevante.
 

5.2. La divisione dei cristiani
L’unità è la legge della vita del Dio trinitario rivelata al mondo dal Figlio (cf. Gv 17,21), che, nella forza dello Spirito Santo, amando fino alla fine (cf. Gv 13,1), partecipa questa vita ai suoi. Questa unità dovrà essere la sorgente e la forma della comunione di vita dell’umanità con il Dio trino. Se i cristiani vivranno questa legge di amore reciproco, cosí da essere uno “come il Padre e il Figlio sono uno”, ne risulterà che “il mondo crederà che il Figlio è stato inviato dal Padre” (Gv 17,21) e “tutti sapranno che essi sono suoi discepoli” (Gv 13,35). Cosí purtroppo non è avvenuto, particolarmente nel millennio che volge alla fine, in cui grandi divisioni sono apparse fra i cristiani in aperta contraddizione con l’esplicita volontà di Cristo, come se Lui stesso fosse stato diviso (cf. 1 Cor 1,13). Il Concilio Vaticano II giudica cosí questo fatto: “Tale divisione contraddice apertamente alla volontà di Cristo, è di scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del Vangelo a ogni creatura” (70)

Le principali scissioni che durante il millennio trascorso “hanno intaccato l’inconsutile tunica di Cristo” (71)sono lo scisma fra le Chiese d’Oriente e d’Occidente all’inizio di questo millennio e in Occidente - quattro secoli dopo - la lacerazione causata da quegli eventi “che comunemente passano sotto il nome di Riforma” (72)È vero che “queste diverse divisioni differiscono molto tra di loro non solo in ragione dell’origine, del luogo e del tempo, ma soprattutto per la natura e gravità delle questioni che riguardano la fede e la struttura della Chiesa” (73)Nello scisma del secolo XI fattori culturali e storici hanno giocato un ruolo importante, mentre l’aspetto dottrinale concerneva l’autorità della Chiesa e il Vescovo di Roma, una materia che in quel momento non aveva raggiunto la chiarezza con cui si presenta oggi grazie allo sviluppo dottrinale di questo millennio. Con la Riforma, invece, altri campi della rivelazione e della dottrina furono oggetto di controversia.

La via che si è aperta per superare queste differenze è quella del dialogo dottrinale animato da reciproco amore. Comune ad entrambi le lacerazioni sembra essere stata la mancanza di amore soprannaturale, di agape. Dal momento che questa carità è il comandamento supremo del Vangelo, senza cui tutto il resto è soltanto “un bronzo che risuona e un cembalo che tintinna” (1 Cor 13,1), una tale mancanza va vista in tutta la sua serietà davanti al Risorto, Signore della Chiesa e della storia. È in forza del riconoscimento di questa mancanza che Papa Paolo VI ha chiesto perdono a Dio e ai ‘fratelli separati’, che si sentissero offesi ‘da noi’ (la Chiesa Cattolica) (74)

Nel 1965, nel clima prodotto dal Concilio Vaticano II, il Patriarca Atenagora nel suo dialogo con Paolo VI mise in risalto il tema della restaurazione (apokatastasis) dell’amore reciproco, essenziale dopo una storia tanto carica di contrapposizioni, di sfiducia reciproca e di antagonismi (75)Ciò che era in gioco era un passato ancora influente attraverso la memoria: gli eventi del 1965 (culminanti il 7 Dicembre 1965 nell’abolizione degli anatemi del 1054 fra Oriente e Occidente) rappresentano una confessione della colpa contenuta nella precedente reciproca esclusione, tale da purificare la memoria e generarne una nuova. Il fondamento di questa nuova memoria non può che essere il reciproco amore o, meglio, il rinnovato impegno a viverlo. Questo è il comandamento ante omnia (1 Pt 4,8) per la Chiesa, in Oriente come in Occidente. In tal modo la memoria libera dalla prigionia del passato ed invita Cattolici ed Ortodossi, come pure Cattolici e Protestanti, a essere gli architetti di un futuro piú conforme al comandamento nuovo. La testimonianza resa a questa nuova memoria dal Papa Paolo VI e dal Patriarca Atenagora è in tal senso esemplare.

Particolarmente rilevante in rapporto al cammino verso l’unità dei cristiani può risultare la tentazione a essere guidati, o perfino determinati, da fattori culturali, da condizionamenti storici o da pregiudizi, che alimentano la separazione e la sfiducia reciproca fra cristiani, sebbene non abbiano niente a che vedere con le materie di fede. I figli della Chiesa devono esaminare la loro coscienza con serietà per vedere se sono attivamente impegnati nell’obbedire all’imperativo dell’unità e vivono l’‘interiore conversione’, “poiché il desiderio dell’unità nasce e matura dal rinnovamento della mente, dall’abnegazione di se stessi e dalla liberissima effusione della carità” (76)Nel tempo passato dalla conclusione del Concilio ad oggi la resistenza opposta al suo messaggio ha certo rattristato lo Spirito di Dio (cf. Ef 4,30). Nella misura in cui alcuni Cattolici si compiacciono di rimanere legati alle separazioni del passato, non facendo nulla per rimuovere gli ostacoli che impediscono l’unità, si potrebbe giustamente parlare di solidarietà nel peccato della divisione (cf. 1 Cor 1,10-16). In tale contesto potrebbero essere richiamate le parole del Decreto sull’Ecumenismo: “Con umile preghiera chiediamo perdono a Dio e ai fratelli separati, come pure noi rimettiamo ai nostri debitori” (77)
 

5.3. L’uso della violenza al servizio della verità
Alla contro-testimonianza della divisione fra i cristiani bisogna aggiungere quella delle varie occasioni in cui nel millennio trascorso sono stati impiegati mezzi dubbi per conseguire fini giusti, quali sono tanto la predicazione del Vangelo, quanto la difesa dell’unità della fede: “Un altro capitolo doloroso sul quale i figli della Chiesa non possono non tornare con animo aperto al pentimento è costituito dall’acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e persino di violenza nel servizio della verità” (78)Ci si riferisce alle forme di evangelizzazione che hanno impiegato strumenti impropri per annunciare la verità rivelata o non hanno operato un discernimento evangelico adeguato dei valori culturali dei popoli o non hanno rispettato le coscienze delle persone a cui la fede veniva presentata, come pure alle forme di violenza esercitate nella repressione e correzione degli errori.

Analoga attenzione va riservata alle possibili omissioni, di cui i figli della Chiesa si fossero resi responsabili nelle piú diverse situazioni della storia riguardo alla denuncia di ingiustizie e di violenze: “Vi è poi il mancato discernimento di non pochi cristiani rispetto a situazioni di violazione dei diritti umani fondamentali. La richiesta di perdono vale per quanto è stato omesso o taciuto per debolezza o errata valutazione, per ciò che è stato fatto o detto in modo indeciso o poco idoneo” (79)

Come sempre, è decisivo stabilire mediante la ricerca storico-critica la verità storica. Stabiliti i fatti, sarà necessario valutare il loro valore spirituale e morale, come pure il loro significato obiettivo. Solo cosí sarà possibile evitare ogni sorta di memoria mitica e accedere ad un’adeguata memoria critica, capace - alla luce della fede - di produrre frutti di conversione e di rinnovamento: “Da quei tratti dolorosi del passato emerge una lezione per il futuro, che deve indurre ogni cristiano a tenersi ben saldo all’aureo principio dettato dal Concilio: ‘La verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore’” (80)
 

5.4. Cristiani ed Ebrei
Uno dei campi che esige un particolare esame di coscienza è il rapporto fra cristiani ed ebrei (81)La relazione della Chiesa con il popolo ebraico è diversa da quella che condivide con ogni altra religione (82)Eppure, “la storia delle relazioni tra ebrei e cristiani è una storia tormentata [...]. In effetti, il bilancio di queste relazioni durante i due millenni è stato piuttosto negativo” (83)L’ostilità o la diffidenza di numerosi cristiani verso gli ebrei nel corso del tempo è un fatto storico doloroso ed è causa di profondo rammarico per i cristiani coscienti del fatto che “Gesú era un discendente di Davide; che dal popolo ebraico nacquero la Vergine Maria e gli Apostoli; che la Chiesa trae sostentamento dalle radici di quel buon ulivo a cui sono innestati i rami dell’ulivo selvatico dei Gentili (cf. Rm 11,17-24); che gli ebrei sono nostri cari e amati fratelli, e che, in un certo senso, sono veramente i ‘nostri fratelli maggiori’” (84)

La Shoah fu certamente il risultato di una ideologia pagana, qual era il nazismo, animata da uno spietato antisemitismo, che non solo disprezzava la fede, ma negava anche la stessa dignità umana del popolo ebraico. Tuttavia, “ci si deve chiedere se la persecuzione del nazismo nei confronti degli ebrei non sia stata facilitata dai pregiudizi antigiudaici presenti nelle menti e nei cuori di alcuni cristiani [...]. I cristiani offrirono ogni possibile assistenza ai perseguitati, e in particolare agli ebrei?” (85)Senza dubbio vi furono molti cristiani che rischiarono la vita per salvare ed assistere i loro conoscenti ebrei. Sembra però anche vero che “accanto a tali coraggiosi uomini e donne, la resistenza spirituale e l’azione concreta di altri cristiani non fu quella che ci si sarebbe potuto aspettare da discepoli di Cristo” (86)Questo fatto costituisce un richiamo alla coscienza di tutti i cristiani oggi, tale da esigere “un atto di pentimento (teshuva)” (87)e diventare uno sprone a raddoppiare gli sforzi per essere “trasformati rinnovando la mente” (Rm 12,2) e per mantenere una “memoria morale e religiosa” della ferita inflitta agli ebrei. In questo campo il molto che è già stato fatto potrà essere confermato e approfondito.
 

5.4. La nostra responsabilità per i mali di oggi
“L’epoca attuale, accanto a molte luci, presenta anche non poche ombre” (88)In primo piano fra queste può essere segnalato il fenomeno della negazione di Dio nelle sue molte forme. Ciò che colpisce particolarmente è che questa negazione, specialmente nei suoi aspetti piú teoretici, è un processo emerso nel mondo occidentale. Connessa con l’eclissi di Dio si incontra poi una serie di fenomeni negativi, quali l’indifferenza religiosa, la diffusa mancanza del senso trascendente della vita umana, un clima di secolarismo e di relativismo etico, la negazione del diritto alla vita del bambino non nato, perfino sancita nelle legislazioni abortiste, e un’ampia indifferenza nei confronti del grido dei poveri in interi settori della famiglia umana.

La questione inquietante da porre è in che misura i credenti siano essi stessi responsabili di queste forme di ateismo, teorico e pratico. La Gaudium et Spes risponde con parole accuratamente scelte: “In questo campo anche i credenti spesso hanno una certa responsabilità. Infatti, l’ateismo considerato nella sua interezza non è qualcosa di originario, bensí deriva da cause diverse, e tra queste va annoverata anche una reazione critica contro le religioni e, in alcune regioni, proprio anzitutto contro la religione cristiana. Per questo nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti” (89)

Dal momento che il volto autentico di Dio è stato rivelato in Gesú Cristo, ai cristiani è offerta la grazia incommensurabile di conoscere questo Volto: essi, però, hanno anche la responsabilità di vivere in maniera da manifestare agli altri il vero Volto del Dio vivente. Essi sono chiamati ad irradiare al mondo la verità che “Dio è amore (agape)” (1 Gv 4,8.16). Poiché Dio è amore, Egli è anche Trinità di Persone, la cui vita consiste nella loro infinita reciproca comunicazione nell’amore. Ne consegue che la via migliore perché i cristiani irradino la verità del Dio amore è il reciproco amore: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). E questo fino al punto da poter dire che spesso i cristiani “per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione fallace della dottrina, o anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, nascondono piuttosto che manifestare il genuino volto di Dio e della religione” (90)

Va sottolineato, infine, che menzionare queste colpe dei cristiani del passato non è solo confessarle a Cristo Salvatore, ma anche lodare il Signore della storia per l’amore misericordioso. I cristiani infatti non credono solo nell’esistenza del peccato, ma anche e soprattutto nel ‘perdono dei peccati’. Inoltre, richiamare queste colpe vuol dire anche accettare la nostra solidarietà con coloro che nel bene e nel male ci hanno preceduto sulla via della verità, offrire al presente un motivo forte di conversione alle esigenze del Vangelo, e porre un necessario preludio alla richiesta di perdono a Dio, che schiude la via alla riconciliazione reciproca.
 
 

6. PROSPETTIVE PASTORALI E MISSIONARIE

Alla luce delle considerazioni fatte, è possibile ora domandarsi: quali sono le finalità pastorali in vista delle quali la Chiesa si fa carico delle colpe commesse nel passato dai suoi figli in suo nome e ne fa ammenda? Quali le implicazioni nella vita del popolo di Dio? E quali le risonanze in rapporto alla missione della Chiesa e al suo dialogo con le diverse culture e religioni?
 

6.1. Le finalità pastorali
Fra le molteplici finalità pastorali del riconoscimento delle colpe del passato possono essere evidenziate le seguenti:
- in primo luogo questi atti tendono alla purificazione della memoria, che - come s’è detto - è il processo di rinnovata 
      valutazione del passato, capace di incidere non poco sul presente, perché i peccati passati fanno spesso sentire ancora il 
      loro peso e permangono come altrettante tentazioni anche nell’oggi. Soprattutto se maturata nel dialogo e nella paziente 
      ricerca della reciprocità con chi potesse sentirsi offeso da eventi o parole del passato, la rimozione dalla memoria personale 
      e collettiva di ogni causa di possibile risentimento per il male subito e di ogni influsso negativo di quello fatto può 
      contribuire a far crescere la comunità ecclesiale nella santità, attraverso la via della riconciliazione e della pace 
      nell’obbedienza alla Verità. “Riconoscere i cedimenti di ieri - sottolinea il Papa - è atto di lealtà e di coraggio che ci aiuta a 
      rafforzare la nostra fede, rendendoci avvertiti e pronti ad affrontare le tentazioni e le difficoltà dell’oggi” (91)È bene a 
      tal fine che la memoria della colpa comprenda tutte le possibili mancanze commesse, anche se solo alcune di esse sono 
      oggi piú frequentemente menzionate. Non va comunque mai dimenticato il prezzo pagato da tanti cristiani per la loro 
      fedeltà al Vangelo e al servizio del prossimo nella carità (92)

- Una seconda finalità pastorale, strettamente connessa alla precedente, può essere riconosciuta nella promozione della perenne 
      riforma del popolo di Dio, “in modo che se alcune cose, sia nei costumi che nella disciplina ecclesiastica e anche nel modo 
      di esporre la dottrina - che deve essere diligentemente distinto dallo stesso deposito della fede - sono state, secondo le 
      circostanze di fatto e di tempo, osservate meno accuratamente, siano in tempo opportuno rimesse nel giusto e debito 
      ordine” (93)Tutti i battezzati sono chiamati a “esaminare la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e, com’è 
      doveroso, a intraprendere con vigore l’opera di rinnovamento e di riforma” (94)Il criterio della vera riforma e 
      dell’autentico rinnovamento non può che essere la fedeltà alla volontà di Dio riguardo al Suo popolo (95)che suppone 
      uno sforzo sincero per liberarsi da tutto ciò che allontana da essa, sia che si tratti di colpe presenti, sia che riguardi eredità 
      del passato.

- Un’ulteriore finalità può essere vista nella testimonianza che in tal modo la Chiesa rende al Dio della misericordia e alla Sua 
      Verità che libera e salva, a partire dall’esperienza che essa ha fatto e fa di Lui nella storia, e nel servizio che in tal modo 
      svolge nei confronti dell’umanità per contribuire a superare i mali del presente. Giovanni Paolo II afferma che “un serio 
      esame di coscienza è stato auspicato da numerosi cardinali e vescovi soprattutto per la Chiesa del presente. Alle soglie del 
      nuovo millennio i cristiani devono porsi umilmente davanti al Signore per interrogarsi sulle responsabilità che anch’essi 
      hanno nei confronti dei mali del nostro tempo” (96)e per contribuire di conseguenza al loro superamento 
      nell’obbedienza allo splendore della Verità salvifica.
 

6.2. Le implicazioni ecclesiali

Quali implicazioni ha un atto ecclesiale di richiesta di perdono nella vita della Chiesa stessa? Emergono vari aspetti:
- Occorre anzitutto tener conto dei processi diversificati di recezione degli atti di pentimento ecclesiale, perché essi variano a 
      seconda dei contesti religiosi, culturali, politici, sociali, personali ecc. In questa luce va considerato che eventi o parole 
      legati a una storia contestualizzata non hanno necessariamente una portata universale e, viceversa, che atti condizionati da 
      una determinata prospettiva teologica e pastorale hanno comportato conseguenze di grande peso sulla diffusione del 
      Vangelo (si pensi ad esempio ai vari modelli storici della teologia della missione). Va inoltre valutato il rapporto fra 
      benefici spirituali e possibili costi di simili atti, anche tenendo conto delle accentuazioni indebite che i ‘media’ possono dare 
      ad alcuni aspetti dei pronunciamenti ecclesiali: va sempre tenuto presente l’ammonimento dell’apostolo Paolo di accogliere, 
      considerare e sostenere con prudenza e amore i ‘deboli nella fede’ (cf. Rm 14,1) . In particolare, occorre prestare 
      attenzione alla storia, all’identità e ai contesti delle Chiese orientali e delle Chiese che operano in continenti o paesi dove la 
      presenza cristiana è largamente minoritaria.

- Va precisato il soggetto adeguato chiamato a pronunciarsi in relazione a colpe passate, sia che si tratti di Pastori locali, 
      personalmente o collegialmente considerati, sia che si tratti del Pastore universale, il Vescovo di Roma. In questa 
      prospettiva è opportuno tener conto - nel riconoscimento delle colpe passate e dei referenti attuali che meglio potrebbero 
      farsi carico di esse - della distinzione fra Magistero e autorità nella Chiesa: non ogni atto di autorità ha valore di Magistero, 
      per cui un comportamento contrario al Vangelo di una o piú persone rivestite di autorità non implica di per sé un 
      coinvolgimento del carisma magisteriale, assicurato dal Signore ai Pastori della Chiesa, e non domanda di conseguenza 
      alcun atto magisteriale di riparazione.

- Occorre sottolineare che il destinatario di ogni possibile domanda di perdono è Dio e che eventuali destinatari umani, 
      soprattutto se collettivi, all’interno o fuori della comunità ecclesiale, vanno individuati con opportuno discernimento storico 
      e teologico, sia per compiere convenienti atti di riparazione, che per testimoniare ad essi la buona volontà e l’amore alla 
      verità dei figli della Chiesa. Ciò sarà fatto tanto meglio, quanto piú ci sarà dialogo e reciprocità fra le parti in causa in un 
      eventuale cammino di riconciliazione, connesso al riconoscimento delle colpe e al pentimento per esse, senza ignorare che 
      la reciprocità - a volte impossibile a causa delle convinzioni religiose dell’interlocutore - non può essere comunque 
      considerata condizione indispensabile e che la gratuità dell’amore si esprime spesso in una iniziativa unilaterale.

- Gli eventuali gesti di riparazione sono legati al riconoscimento di una responsabilità perdurante nel tempo e potranno tanto 
      avere un carattere simbolico-profetico, quanto un valore di effettiva riconciliazione (ad esempio fra i cristiani divisi). Anche 
      nella definizione di questi atti è auspicabile una ricerca comune con gli eventuali destinatari, ascoltando le legittime richieste 
      che essi possano presentare.

- Sul piano pedagogico è opportuno evitare di perpetuare immagini negative dell’altro, come pure di attivare processi di 
      indebita autocolpevolizzazione, sottolineando come il farsi carico di colpe passate sia per chi crede una sorta di 
      partecipazione al mistero di Cristo crocefisso e risorto, che si è fatto carico delle colpe di tutti. Questa prospettiva pasquale 
      si rivela particolarmente adatta a produrre frutti di liberazione, di riconciliazione e di gioia per tutti coloro che con fede viva 
      sono implicati nella richiesta di perdono, tanto come soggetti che come destinatari.
 

6.3. Le implicazioni sul piano del dialogo e della missione
Diverse sono le implicazioni prevedibili sul piano del dialogo e della missione in conseguenza di un riconoscimento ecclesiale di colpe del passato:
- Sul piano missionario occorre anzitutto evitare che simili atti contribuiscano a inibire lo slancio dell’evangelizzazione 
      mediante l’esasperazione degli aspetti negativi. Non di meno si deve tener conto del fatto che questi stessi atti potranno far 
      crescere la credibilità del messaggio, in quanto nascono dall’obbedienza alla verità e tendono a effettivi frutti di 
      riconciliazione. In particolare, i missionari ‘ad gentes’ avranno cura di contestualizzare la proposta di questi temi in 
      rapporto all’effettiva capacità di recezione di essi negli ambienti in cui operano (cosí ad esempio aspetti della storia della 
      Chiesa in Europa potranno risultare poco significativi per molti popoli non europei).

- Sul piano ecumenico la finalità di eventuali atti ecclesiali di pentimento non può che essere l’unità voluta dal Signore. In 
      questa prospettiva è quanto mai auspicabile che essi si compiano nella reciprocità, anche se a volte gesti profetici potranno 
      richiedere una iniziativa unilaterale e assolutamente gratuita.

- Sul piano interreligioso è opportuno rilevare come per i credenti in Cristo il riconoscimento delle colpe passate da parte della 
      Chiesa sia conforme alle esigenze della fedeltà al Vangelo e dunque costituisca una testimonianza luminosa della loro fede 
      nella verità e nella misericordia del Dio rivelato da Gesú. Ciò che va evitato è che simili atti siano equivocati come 
      conferme di eventuali pregiudizi nei confronti del cristianesimo. Sarebbe inoltre auspicabile che questi atti di pentimento 
      stimolassero anche i fedeli di altre religioni a riconoscere le colpe del proprio passato. Come la storia dell’umanità è piena 
      di violenze, genocidi, violazioni dei diritti umani e di quelli dei popoli, sfruttamento dei deboli e divinizzazione dei potenti, 
      cosí quella delle varie religioni è cosparsa di intolleranza, superstizione, connivenza con poteri ingiusti e negazione della 
      dignità e libertà della coscienze. I cristiani non sono stati un’eccezione e sono consapevoli di quanto tutti siano peccatori
      davanti a Dio!

- Nel dialogo con le culture vanno anzitutto tenute presenti la complessità e la pluralità delle mentalità con cui si dialoga 
      riguardo all’idea di pentimento e di perdono. In ogni caso il farsi carico da parte della Chiesa di colpe passate va chiarito 
      alla luce del messaggio evangelico e in particolare della presentazione del Signore crocifisso, rivelazione della misericordia 
      e fonte di perdono, oltre che della peculiare natura della comunione ecclesiale, una nel tempo e nello spazio. Lí dove una 
      cultura fosse del tutto aliena dall’idea di una richiesta di perdono, devono essere opportunamente presentate le ragioni 
      teologiche e spirituali che motivano questo atto a partire dal messaggio cristiano e va tenuto in conto il suo carattere 
      critico-profetico. Dove si avesse a che fare con una pregiudiziale indifferenza verso la parola della fede si tenga conto del 
      duplice possibile effetto di questi atti di pentimento ecclesiale, che - se da una parte possono confermare pregiudizi negativi 
      o atteggiamenti di disprezzo e di ostilità - dall’altra partecipano della misteriosa attrazione caratteristica del ‘Dio crocifisso’ 
      (97)Si tenga conto inoltre del fatto che nell’attuale contesto culturale soprattutto in Occidente l’invito alla 
      purificazione della memoria coinvolge in un impegno comune credenti e non credenti. Già questo lavoro comune 
      costituisce una testimonianza positiva di docilità alla verità.

- In rapporto alla società civile, infine, va considerata la differenza che esiste fra la Chiesa mistero di grazia e una qualunque 
      società temporale, ma va anche non di meno sottolineato il carattere di esemplarità che la richiesta ecclesiale di perdono può 
      presentare ed il conseguente stimolo che può offrire a compiere analoghi passi di purificazione della memoria e di 
      riconciliazione nelle piú diverse situazioni in cui potrebbe esserne riconosciuta l’urgenza. Afferma Giovanni Paolo II: “La 
      richiesta di perdono [...] riguarda in primo luogo la vita della Chiesa, la sua missione di annunzio della salvezza, la sua 
      testimonianza a Cristo, il suo impegno per l’unità, in una parola la coerenza che deve contrassegnare l’esistenza cristiana. 
      Ma la luce e la forza del Vangelo, di cui la Chiesa vive, hanno la capacità di illuminare e sostenere, come per 
      sovrabbondanza, le scelte e le azioni della società civile, nel pieno rispetto della loro autonomia [...]. Alle soglie del terzo 
      millennio, è legittimo sperare che i responsabili politici e i popoli, soprattutto quelli coinvolti in drammatici conflitti, 
      alimentati dall’odio e dal ricordo di ferite spesso antiche, si lascino guidare dallo spirito di perdono e di riconciliazione 
      testimoniato dalla Chiesa e si sforzino di risolvere i contrasti mediante un dialogo leale ed aperto” (98)
 
 

CONCLUSIONE

A conclusione della riflessione fatta è opportuno mettere ancora una volta in risalto come in tutte le forme di pentimento per le colpe del passato ed in ciascuno dei gesti ad esse connessi la Chiesa si rivolga anzitutto a Dio e intenda glorificare Lui e la Sua misericordia. Proprio cosí essa sa di celebrare anche la dignità della persona umana chiamata alla pienezza della vita nell’alleanza fedele col Dio vivo: “La gloria di Dio è l’uomo vivente - la vita dell’uomo è la visione di Dio” (99)Agendo in tal modo, la Chiesa testimonia anche la sua fiducia nella forza della Verità, che rende liberi (cf. Gv 8,32): la sua “domanda di perdono non deve essere intesa come ostentazione di finta umiltà, né come rinnegamento della sua storia bimillenaria certamente ricca di meriti nei campi della carità, della cultura e della santità. Essa risponde invece a un’irrinunciabile esigenza di verità, che accanto agli aspetti positivi, riconosce i limiti e le debolezze umane delle varie generazioni dei discepoli di Cristo” (100)E la Verità riconosciuta è sorgente di riconciliazione e di pace, perché, come afferma lo stesso Papa, “l’amore della verità, ricercata con umiltà, è uno dei grandi valori capaci di riunire gli uomini di oggi attraverso le varie culture” (101)Anche per la Sua responsabilità verso la Verità la Chiesa “non può varcare la soglia del nuovo millennio senza spingere i suoi figli a purificarsi, nel pentimento, da errori, infedeltà, incoerenze, ritardi. Riconoscere i cedimenti di ieri è atto di lealtà e di coraggio” (102)Esso schiude per tutti un nuovo domani.
 
 

(1) Incarnationis mysterium, 11. (SU!)
(2) Ib. Già in numerosi interventi, ed in particolare al numero 33 della Lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente
      (TMA), il Papa aveva indicato alla Chiesa il cammino da compiere per purificare la propria memoria in rapporto alle colpe 
      del passato e dare esempio di pentimento ai singoli ed alle società civili. (SU!)
(3) Lumen Gentium, 8. (SU!)
(4) Cf. Extravagantes communes, lib. V, tit. IX, c. 1 (A. FRIEDBERG, Corpus iuris canonici, t. II, c. 1304). (SU!)
(5) Cf. BENEDETTO XIV, Lettera Salutis nostrae, 30 aprile 1774, ‘ 2. LEONE XII, Lettera Quod hoc ineunte, 24 
      maggio 1824, ‘ 2, parla dell’“anno di espiazione, di perdono e di redenzione, di grazia, di remissione e d’indulgenza”. 

(6) In tal senso si muove la definizione dell’indulgenza che Clemente VI dà nell’istituire, nel 1343, la periodicità del 
      giubileo ogni cinquanta anni. Clemente VI vede nel giubileo ecclesiale “ il compimento spirituale” del “giubileo di 
      remissione e di gioia” dell’Antico Testamento (Lv 25). (SU!)
(7) “Ciascuno di noi deve esaminare in che cosa è caduto ed esaminarsi lui stesso piú rigorosamente di quanto non lo sarà 
      da Dio nel giorno della Sua collera”, in: Deutsche Reichstagsakten, nuova serie, III, 390-399, Gotha 1893. (SU!)
(8) Unitatis redintegratio, 7. (SU!)
(9) Gaudium et spes, 36. (SU!)
(10) Ibid., 19. (SU!)
(11) Nostra Aetate, 4. (SU!)
(12) Gaudium et spes, 43 ‘ 6. (SU!)
(13) Lumen gentium, 8; cf. Unitatis redintegratio, 6: “La Chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo a questa continua 
        riforma di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno”. (SU!)
(14) Nostra Aetate, 4. (SU!)
(15) Unitatis redintegratio, 3. (SU!)
(16) Cf. PAOLO VI, Lettera Apostolica Apostolorum limina, 23 maggio 1974 (Enchiridion Vaticanum 5, 305). (SU!)
(17) PAOLO VI, Esortazione Paterna cum benevolentia, 8 dicembre 1974 (Enchiridion Vaticanum 5, 526-553). (SU!)
(18) Cf. Enciclica Ut unum sint, del 25 maggio 1995, n. 88: “Per quello di cui siamo responsabili, imploro perdono”.  (19) Per esempio, il Papa “domanda perdono, a nome di tutti i cattolici, per i torti causati ai non-cattolici nel corso della 
        storia” presso i Moravi (cf. canonizzazione di Jan Sarkander, nella Repubblica cèca, 21 maggio 1995). Ha desiderato 
        compiere “un atto d’espiazione” e domandare perdono agli Indios dell’America latina e agli Africani deportati come 
        schiavi (Messaggio agli indiani d’America, Santo-Domingo, 13 ottobre 1992, e Discorso all’udienza generale del 21 
        ottobre 1992). Dieci anni prima aveva già domandato perdono agli Africani per la tratta dei Neri (Discorso a Yaoundé
        13 agosto 1985). (SU!)
(20) Cf. TMA, 33-36. (SU!)
(21) Cf. ibid., 33. (SU!)
(22) Ibid., 33. (SU!)
(23) Cf. ibid., 36. (SU!)
(24) Cf. ibid., 34. (SU!)
(25) Cf. ibid., 35. (SU!)
(26) Quest’ultimo aspetto affiora in TMA solamente al n. 33, lí dove si dice che la Chiesa riconosce come suoi i propri 
        figli peccatori “davanti a Dio e davanti agli uomini”. (SU!)
(27) GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Reconciliatio et Paenitentia, del 2 dicembre 1984, 31. (SU!)
(28) Ibid., 16. (SU!)
(29) Cf. Mt 13,24-30.36-43; S. AGOSTINO, De civitate Dei I, 35: CCL 47, 33; XI, 1: CCL 48, 321; XIX, 26: CCL 
        48, 696. (SU!)
(30) Sui diversi metodi di lettura della Sacra Scrittura cf. il documento della Pontificia Commissione Biblica, 
        L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993). (SU!)
(31) Possono ricondursi a questa serie ad esempio: Dt 1,41 (la generazione del deserto riconosce di aver peccato rifiutando 
        di avanzare per entrare nella terra promessa); Gdc 10,10.12 (al tempo dei Giudici il popolo per due volte dice “abbiamo 
        peccato” contro il Signore, riferendosi all’aver servito ai Baal); 1 Sam 7,6 (il popolo del tempo di Samuele afferma: 
        “Abbiamo peccato contro il Signore!”); Nm 21,7 (questo testo si distingue in quanto qui il popolo della generazione 
        mosaica ammette che, nel lamentarsi a riguardo del cibo, si è reso colpevole di ‘peccato’ perché ha parlato contro il 
        Signore ed anche contro la sua guida umana, Mosè); 1 Sam 12,19 (gli Israeliti dell’epoca di Samuele riconoscono che - 
        chiedendo di avere un re - hanno aggiunto questo “a tutti i loro peccati”); Esd 10,13 (il popolo riconosce davanti ad Esdra 
        di aver grandemente “peccato in questa materia” [sposando donne straniere]); Sal 65,2-2; 90,8; 103,10 (107,10-11.17); 
        Is 59,9-15; 64,5-9; Ger 8,14; 14,7; Lam 1,14,18a.22 (‘Io’= personificazione di Gerusalemme); 3,42 (4,13); Bar 
        4,12-13 (Sion evoca le colpe dei suoi figli che hanno portato alla sua devastazione); Ez 33,10; Mic 7,9 (‘Io’).18-19.  (32) Ad esempio: Es 9,27 (il Faraone dice a Mosè ed Aronne: “Questa volta ho peccato: il Signore ha ragione; io e il mio 
        popolo siamo colpevoli”); 34,9 (Mosè invoca: “Perdona la nostra colpa e il nostro peccato”); Lv 16,21 (il Sommo 
        Sacerdote confessa i peccati del popolo sul capo del ‘capro espiatorio’ nel giorno dell’espiazione); Es 32,11-13 (cf. Dt 
        9,26-29: Mosè); 32,31 (Mosè); 1 Re 8,33ss (cf. 2 Cr 6,22ss: Salomone prega perché Dio perdoni eventuali futuri peccati 
        del popolo); 2 Cr 28,13 (i capi degli Israeliti affermano: “La nostra colpa è già grande”); Esd 10,2 (Secania dice ad Esdra: 
        “Noi siamo stati infedeli verso il nostro Dio, sposando donne straniere”); Ne 1,5-11 (Neemia confessa i peccati 
        commessi dal popolo d’Israele, da se stesso e dalla casa di suo padre); Est 4,17(n) (Ester confessa: “Abbiamo peccato 
        contro di te e ci hai messi nelle mani dei nostri nemici, per aver noi dato gloria ai loro dei”); 2 Mac 7,18.32 (i martiri 
        giudei affermano che stanno soffrendo a causa dei ‘nostri peccati’ contro Dio). (SU!)
(33) Fra gli esempi di questo tipo di confessione nazionale si può rinviare a: 2 Re 22,13 (cf. 2 Cr 34,21: Giosia teme la 
        collera del Signore “perché i nostri padri non hanno ascoltato le parole di questo libro”); 2 Cr 29,6-7 (Ezechia afferma: “I 
        nostri padri sono stati infedeli”); Sal 78,8ss. (un ‘Io’ riassume i peccati delle generazioni passate a partire dall’Esodo). 
        Cf. pure il detto popolare citato in Ger 31,29 ed Ez 18,2: ‘I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono 
        allegati’. (SU!)
(34) È il caso di testi come i seguenti: Lv 26,40 (gli esiliati sono chiamati a “confessare la loro iniquità e l’iniquità dei loro 
        padri”); Esd 9,5b-15 (preghiera penitenziale di Esdra, v. 7: “Dai giorni dei nostri padri fino ad oggi siamo stati molto 
        colpevoli”; cf. Ne 9,6-37); Tb 3,1-5 (nella sua preghiera Tobi invoca: “Non punirmi per i miei peccati e per gli errori miei 
        e dei miei padri” [v. 3] e prosegue con la costatazione: “non abbiamo osservato i tuoi decreti” [v. 5]); Sal 79,8-9 [questo 
        lamento collettivo implora Dio di “non imputare a noi le colpe dei nostri padri [...] salvaci e perdona i nostri peccati”); 
        106,6 (“abbiamo peccato come i nostri padri”); Ger 3,25 (“[...] abbiamo peccato contro il Signore nostro Dio [...] noi e i 
        nostri padri”); Ger 14,19-22 (“riconosciamo la nostra iniquità e l’iniquità dei nostri padri”, v. 20); Lam 5 (“i nostri padri 
        peccarono e non sono piú, noi portiamo la pena delle loro iniquità” [v. 7] “guai a noi, perché abbiamo peccato” [v. 16b]); 
        Bar 1,15-3,18 (“abbiamo offeso il Signore” [1,17, cf. 1,19.21;2,5.24] - “non ricordare l’iniquità dei nostri padri” [3,5, 
        cf. 2,33; 3,4.7]); Dn 3,26-45 (la preghiera di Azaria: “Con verità e giustizia ci hai inflitto tutto questo a causa dei nostri 
        peccati”: v. 28); Dn 9,4-19 (“poiché per i nostri peccati e per l’iniquità dei nostri padri Gerusalemme [...] è oggetto di 
        vituperio [...]”, v. 16). (SU!)
(35) Essi includono mancanze di fiducia in Dio (cosí, per esempio, Dt 1,41; Nm 14,10), idolatria (come in Gdc 
        10,10-15), richiesta di un re umano (1 Sam 12,9), matrimoni con donne straniere in contrasto con la Legge divina (Esd 
        9-10). In Is 59,13b il popolo dice di sé di “parlare di oppressione e di ribellione, concepire con il cuore e pronunciare 
        parole false”. (SU!)
(36) Cf. il caso analogo del ripudio delle mogli straniere da parte dei Giudei raccontato in Esd 9-10, con tutte le 
        conseguenze negative che esso avrebbe avuto sulle donne implicate. La questione di una richiesta di perdono rivolta a 
        loro (e o ai loro discendenti) non si pone proprio, in quanto il ripudio è presentato come un’esigenza della Legge divina 
        (cf. Dt 7,3) in tutti questi capitoli. (SU!)
(37) Viene in mente a questo proposito il caso delle relazioni permanentemente tese fra Israele ed Edom. Questo popolo - 
        nonostante la sua condizione di ‘fratello’ d’Israele - participò e gioí alla caduta di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi 
        (cf., ad esempio, Abdia 10-14). Israele, in segno di oltraggio per questo tradimento, non sentí alcun bisogno di chiedere 
        perdono per la strage dei prigionieri Edomiti indifesi, perpetrata dal Re Amazia secondo 2 Cr 25,12. (SU!)
(38) GIOVANNI PAOLO II, Discorso del 1 settembre 1999, in L’Osservatore Romano, 2 Settembre 1999, 4. (SU!)
(39) Cf. TMA, 33-36. (SU!)
(40) TMA, 33. (SU!)
(41) Si pensi al motivo, presente in autori cristiani di varie epoche, del rimprovero alla Chiesa per le sue colpe, di cui un 
        esempio fra i piú rappresentativi è costituito dal Liber asceticus di MASSIMO IL CONFESSORE: PL 90,912-956.  (42) Lumen Gentium, 8. (SU!)
(43) Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), 770. (SU!)
(44) Lumen Gentium, 8. (SU!)
(45) Ibid. Cf. pure Unitatis Redintegratio, 3 e 6. (SU!)
(46) CCC, 827. (SU!)
(47) PAOLO VI, Credo del popolo di Dio (30 giugno 1968), n. 19 (Enchiridion Vaticanum 3,264s). (SU!)
(48) Lumen Gentium, 39. (SU!)
(49) Lumen Gentium, 40. (SU!)
(50) Ibid., 48. (SU!)
(51) SANT’AGOSTINO, Sermo 181, 5, 7: PL 38, 982. (SU!)
(52) SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., III, q. 8, a. 3 ad 2. (SU!)
(53) CCC, 2839. (SU!)
(54) SANT’AMBROGIO, De virginitate 8, 48: PL 16, 278D: “Caveamus igitur, ne lapsus noster vulnus Ecclesiae fiat”. 
        Di ‘ferita’ inflitta alla Chiesa dal peccato dei suoi figli parla anche Lumen Gentium, 11. (SU!)
(55) TMA, 33. (SU!)
(56) K. DELAHAYE, La Comunità, Madre dei credenti, Cassano M. (Bari) 1974, 110. Cf. pure H. RAHNER, Mater 
        Ecclesia. Inni di lode alla Chiesa tratti dal primo millennio della letteratura cristiana, Milano 1972. (SU!)
(57) Lumen Gentium, 64. (SU!)
(58) SANT’AGOSTINO, Sermo 25, 8: PL 46, 938: “Mater ista sancta, honorata, Mariae similis, et parit et Virgo est. 
        Ex illa nati estis et Christum parit: nam membra Christi estis”. (SU!)
(59) CIPRIANO, De Ecclesiae Catholicae unitate 6: CCL 3, 253: “Habere iam non potest Deum patrem qui ecclesiam 
        non habet matrem”. Lo stesso Cipriano afferma altrove: “Ut habere quis possit DeumPatrem, habeat ante ecclesiam 
        matrem “ (Epist. 74, 7: CCL 3C, 572). E Agostino: “Tenete ergo, carissimi, tenete omnes unanimiter Deum patrem, et 
        matrem Ecclesiam” (In Ps 88, Sermo 2, 14: CCL 39, 1244). (SU!)
(60) PAOLINO DI NOLA, Carmen 25, 171-172: CSEL 30, 243: “Inde manet mater aeterni semine verbi concipiens 
        populos et pariter pariens”. (SU!)
(61) TMA, 35. (SU!)
(62) IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ad Romanos, Prooem.: SCh 10, 124 (Th. Camelot, Paris 1958(2). (SU!)
(63) TMA, 33.34. (SU!)
(64) Discorso ai partecipanti al Simposio Internazionale di studio sull’Inquisizione, promosso dalla Commissione 
        Teologico-Storica del Comitato Centrale del Giubileo, n. 4, 31 ottobre 1998. (SU!)
(65) Cf. per quanto segue H.G. GADAMER, Verità e metodo, Milano 1985. (SU!)
(66) B. LONERGAN, Il metodo in teologia, Brescia 1975, 173. (SU!)
(67) TMA, 35. (SU!)
(68) GIOVANNI PAOLO II, Discorso del 1 settembre 1999, in L’Osservatore Romano, 2 Settembre 1999, 4. (SU!)
(69) Cf. TMA, 34-36. (SU!)
(70) Unitatis Redintegratio, 1. (SU!)
(71) Ibid., 13. TMA, 34 dice che “ancor piú che nel primo millennio, la comunione ecclesiale ha conosciuto dolorose 
        lacerazioni”. (SU!)
(72) Unitatis Redintegratio, 13. (SU!)
(73) Ibid. (SU!)
(74) Cf. il Discorso di apertura della Seconda Sessione del Concilio, del 29 settembre 1964: Enchiridion Vaticanum 1, 
        [106], n. 176. (SU!)
(75) Cf. la documentazione del dialogo della carità fra la Santa Sede e il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli nel 
        Tómos Agápes: Vatican - Phanar (1958-1970), Roma - Istanbul 1971. (SU!)
(76) Unitatis Redintegratio, 7. (SU!)
(77) Ibid. (SU!)
(78) TMA, 35. (SU!)
(79) GIOVANNI PAOLO II, Discorso del 1 settembre 1999, in L’Osservatore Romano, 2 settembre 1999, 4. (SU!)
(80) TMA, 35. La citazione del Vaticano II è da Dignitatis Humanae, 1. (SU!)
(81) L’argomento è trattato rigorosamente nella Dichiarazione Nostra Aetate del Vaticano II. (SU!)
(82) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla Sinagoga di Roma, 13 aprile 1986, 4: AAS 78 (1986) 1120. (SU!)
(83) Questo è il giudizio del recente documento della Commissione per i Rapporti Religiosi conl’Ebraismo, Noi 
        ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, Roma, 16 Marzo 1998, 3. (SU!)
(84) Ibid., 7. (SU!)
(85) Ibid., 5. (SU!)
(86) Ibid., 6. (SU!)
(87) Ibid., 5. (SU!)
(88) TMA, 36. (SU!)
(89) Gaudium et Spes, 19. (SU!)
(90) Ibid. (SU!)
(91) TMA, 33. (SU!)
(92) Si pensi solo al segno del martirio: cf. TMA, 37. (SU!)
(93) Unitatis Redintegratio, 6. È lo stesso testo ad affermare che “la Chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo a questa 
        continua riforma (ad hanc perennem reformationem) di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre 
        bisogno”. (SU!)
(94) “Opus renovationis nec non reformationis”: ibid., 4. (SU!)
(95) Ibid., 6: “Ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente nell’accresciuta fedeltà alla sua vocazione”. (SU!)
(96) TMA., 36. (SU!)
(97) La formula - particolarmente forte è di AGOSTINO: De Trinitate I, 13, 28: CCL 50, 69, 13; Epist. 169, 2: 
        CSEL 44,617; Sermo 341A, 1: Misc. Agost. 314, 22. (SU!)
(98) GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti al Simposio Internazionale di studio sull’Inquisizione, promosso 
        dalla Commissione Teologico-Storica del Comitato Centrale del Giubileo, 5, 31 ottobre 1998. (SU!)
(99) “Gloria Dei vivens homo: vita autem hominis visio Dei”: SANT’IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses IV, 20, 7: 
        SCh 100, t. II, 648. (SU!)
(100) GIOVANNI PAOLO II, Discorso del 1 settembre 1999, in L’Osservatore Romano, 2 Settembre 1999, 4. (SU!)
(101) Discorso al Centro Europeo per la ricerca nucleare, Ginevra, 15 giugno 1982, in: Insegnamenti di Giovanni Paolo 
          II, V,2, Vaticano 1982, 2321. (SU!)
(102) TMA, 33. (SU!)



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