La Pontificia Commissione «Ecclesia Dei»
al servizio dell’unità della Chiesa
Conferenza tenuta da Mons. Camille Perl, segretario della
Pontificia Commissione «Ecclesia Dei»,
in occasione della presentazione ufficiale degli Atti
del 5° Colloquio del C. I. E. L.,
a Roma, il 5 aprile 2000.
(il testo ci è stato fornito dal C. I. E. L. - Centre International
d'Etudes Liturgiques
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(Il testo di questa conferenza, ovviamente, impegna solo il suo autore,
ma non v'è dubbio che esso debba essere considerato come indicativo
di uno stato d'animo diffuso in seno alla Curia Romana.
La pubblicazione da parte nostra non ci impegna circa i contenuti,
ma anche qui è ovvio che tali contenuti debbano essere oggetto di
una attenta riflessione da parte di tutti gli amici tradizionalisti)
(il testo è stato evidenziato da noi)
Unità della Chiesa: ecco un’espressione che, da sempre, ha avuto
una notevole risonanza in seno alla Chiesa. Forse perché la perfetta
unità della Chiesa non è mai esistita.
A chi si scandalizza per una affermazione siffatta consigliamo di leggere
quanto scrive San Paolo ai Corinti, a proposito delle fazioni che si erano
formate in seno alla comunità cristiana del tempo.
Un secolo piú tardi, Papa Clemente scrive agli stessi Corinti
una lettera nella quale è costretto a raccomandare l’unità
che manca in quella chiesa.
La storia ci insegna che fin dall’inizio, a fianco della dottrina ortodossa,
in seno alla Chiesa nacquero molte eresie, le quali tendevano a costituire
dei gruppi dissidenti e staccati dal corpo ecclesiale: basta citare qualche
nome, i Donatisti, i Monofisiti, i Nestoriani o, come accadde piú
tardi, le comunità sorte in seguito alla riforma protestante; e
cosí di seguito fino ai nostri giorni. Sfortunatamente la completa
unità della Chiesa non è mai esistita, nonostante Gesú
abbia fondata e voluta una sola Chiesa, per la quale ha pregato il suo
Padre celeste «ut sint unum sicut, Pater, in me et ego in te».
Il modello dell’unità della Chiesa è quello stesso della
divina Trinità.
È ovvio che la Chiesa, e innanzi tutto i Vescovi, hanno sempre
combattuto queste divisioni e questi scismi, come si comprende facilmente
dall’opera di Sant’Agostino, che si impegnò in tutti i modi per
risolvere il problema della chiesa parallela dei Donatisti, allora molto
attiva nell’Africa del Nord.
Questa ricerca dell’unità è una costante di tutta la
storia della Chiesa.
Il tema della nostra piccola riflessione: “La Pontificia Commissione
«Ecclesia Dei» al servizio dell’unità della Chiesa”,
indica chiaramente che questa ricerca continua ancora oggi, e non solamente
sul piano dell’ecumenismo ufficiale - per cui la Santa Sede ha istituito
dopo l’ultimo Concilio un Consiglio apposito, il “Pontificio Consiglio
per l’Unità dei Cristiani” -, ma anche sul piano che qui ci interessa
e di cui si parla poco, sul quale centreremo la nostra attenzione.
In effetti, nel 1988, il Santo Padre Giovanni Paolo II fu costretto
a compiere uno sforzo straordinario per salvaguardare e ristabilire l’unità,
dopo che un Vescovo francese, Mons. Marcel Lefèbvre, aveva causato
una rottura nella Chiesa consacrando quattro Vescovi senza il mandato e
contro la volontà del Papa. La Santa Sede reagí immediatamente,
pubblicando una lettera apostolica «motu proprio
data», nella quale la consacrazione dei quattro Vescovi venne
definita come «un atto scismatico», e ben sapendo che Mons.
Lefèbvre non era isolato, ma contava su numerosi sostenitori che
l’avrebbero seguito in questa sua azione, in particolare la Fraternità
Sacerdotale San Pio X, che egli stesso aveva fondata.
Com’è che si giunse ad una situazione del genere, che cinquant’anni
fa non si sarebbe neanche sospettata?
Questa sera ci dobbiamo accontentare di qualche sommario cenno storico.
Nel corso del Concilio Vaticano II, i Padri conciliari si possono
suddividere grosso modo in tre gruppi:
1) i progressisti, che avevano intenzione di operare delle riforme
drastiche in seno alla Chiesa;
2) i conservatori, che non si opponevano alle riforme in sé
stesse, ma alla loro drasticità, la quale, secondo
loro, avrebbe condotto ad una
certa liberalizzazione e protestantizzazione;
3) gli indecisi, che assumevano posizione volta per volta.
Di fatto, la fine del Concilio vide la vittoria dei progressisti
e la disfatta dei conservatori.
Quasi tutte le riforme decise dal Concilio e attuate nel post-concilio
erano dirette a realizzare una liberalizzazione e una apertura al mondo
(parola d’ordine questa, in quel tempo!), nonché una apertura
ai cristiani dissidenti, essenzialmente ai protestanti - anche se esse
furono dettate dal sincero desiderio di rendere la Chiesa cattolica piú
simpatica ai protestanti - il tutto come avevano paventato i conservatori.
Tale intenzione del Concilio di per sé era buona e costituiva
un segno preciso della volontà di ritrovare l’unità perduta.
Ma tutto questo divenne anche causa di una nuova rottura, che, a giusta
ragione, può definirsi una tragedia.
Tragedia che si svolse in due tempi:
1) Di fatto, tante di queste riforme si sono spinte molto
oltre, allontanandosi parecchio da tutto ciò che la Chiesa aveva
conosciuto e vissuto fino ad allora; cosa questa che vale soprattutto per
la riforma liturgica attuata sotto il pontificato del Papa Paolo VI. Questa
nuova liturgia si caratterizza per una considerevole differenza rispetto
alla liturgia romana; differenza che si è ulteriormente accentuata
tramite le traduzioni nelle lingue nazionali, le quali hanno rimpiazzato
dovunque la lingua latina; differenza che talvolta è divenuta abissale
a causa della creatività che, in materia liturgica, regna nelle
diverse chiese.
2) È inevitabile che per i conservatori una tale riforma
costituisca piuttosto una rivoluzione liturgica; essa infatti, e logicamente,
ha provocato la loro reazione: in numerosi paesi sono sorti dei movimenti
che hanno provato a reagire raccogliendo gli oppositori.
Chi erano costoro?
Spesso delle persone, uomini e donne, cattolici fedeli, che erano rimasti
profondamente feriti da riforme a cui nessuno li aveva preparati. Certamente
fra loro vi erano degli intellettuali, degli artisti, degli scrittori,
ma la grande maggioranza era costituita da gente comune, di tutte le età.
Questi movimenti trovarono ben presto la loro figura emblematica
nella persona di Mons. Lefèbvre, uomo di grande prestigio per il
suo passato di Delegato Apostolico in Africa Occidentale, ove egli aveva
lavorato con successo per molti anni.
Già nel corso del Concilio, Mons. Lefèbvre era stato
uno dei personaggi piú in vista del partito dei conservatori, insieme
al Card. Ottaviani e ad altri. Dopo diverse peripezie ed esperienze negative
nei seminari francesi, egli decise di creare un seminario per alcuni seminaristi
che si erano rivolti a lui, e realizzò questo progetto prima Friburgo,
in Svizzera, e poi a Ecône, nel cantone svizzero di Valais. I professori
venuti a collaborare col Vescovo, educano i seminaristi in vista
della realizzazione del suo progetto, quello cioè di assicurare
il sacerdozio cattolico che, secondo lui, rischiava di sparire travolto
dalla marea di secolarizzazione che in quegli anni aveva invaso la Chiesa
d’Occidente.
Con questo stesso scopo, nel 1970, Mons. Lefèbvre fondò
la Fraternità Sacerdotale sotto il Patronato di San Pio X, nella
quale venivano integrati i preti che, una volta completata la loro formazione,
venivano ordinati da lui con la precisa intenzione di perpetuare l’antica
liturgia.
Una tale attività era ben nota ai Vescovi francesi, i quali
cercavano di impedire queste ordinazioni di seminaristi in maggioranza
francesi. Dopo dure lotte con questi Vescovi, Mons. Lefèbvre venne
sospeso «a divinis» per queste ordinazioni illecite, ma egli
continuò il suo lavoro, convinto che si trattasse del solo mezzo
per reagire alla crisi sempre piú grave nella quale egli vedeva
dibattersi la Chiesa, sia in Francia sia nel mondo intero.
Ogni anno venivano ordinati da 20 a 30 preti, con i quali vennero creati
molto priorati, aperti all’apostolato tra i fedeli rimasti legati alla
liturgia antica.
Il problema diveniva sempre piú grave, le relazioni con i Vescovi
andavano peggiorando, e la Santa Sede, nel 1987, decise di giungere ad
una soluzione e di riprendere il dialogo con la Fraternità San Pio
X, inviando per prima cosa visita apostolica.
Nel 1988 si giunse ad un accordo, che prevedeva
l’autonomia parziale della Fraternità e la nomina di un Vescovo,
come successore di Mons. Lefèbvre, che aveva ormai 80 anni. Sfortunatamente
la tragedia giunse al suo culmine.
Mons. Lefèbvre ritirò la sua firma, ritenendo di non potersi
fidare della Santa Sede, e procedette alla consacrazione di quattro Vescovi
scelti tra i preti della sua Fraternità, e ciò malgrado la
formale interdizione del Santo Padre, il solo che nella Chiesa latina abbia
il diritto di nominare dei nuovi Vescovi.
La conseguenza logica fu la scomunica del Vescovo e dei quattro nuovi
consacrati, e la messa in guardia di tutti fedeli a non intrattenere piú
alcuna relazione con la Fraternità San Pio X.
Quest’ultima, dopo la morte di Mons. Lefèbvre, scelse un nuovo
Superiore Generale tra uno dei quattro Vescovi scomunicati. Cosí
si consumò la tragedia: ciò che era stato iniziato con le
buone intenzioni di impedire la deriva dell’immediato post-concilio, sfociò
in un movimento scismatico, in una nuova rottura dell’unità della
Chiesa.
La reazione della Chiesa a quest’atto scismatico fu molto rapida: già
il 2 luglio 1988, 3 giorni dopo la rottura, il Santo Padre pubblica un
motu proprio, che inizia con le parole «Ecclesia
Dei afflicta est».
Questo documento è parecchio interessante, non solo perché
ammette in un certo modo l’uso della liturgia anteriore alla riforma post-conciliare,
ampliando il famoso indulto del 1984, ma soprattutto perché indica
chiaramente le ragioni che hanno condotto a tale rottura. In esso infatti
si dice che «la radice di quest’atto scismatico si trova in una
nozione contraddittoria e incompleta della tradizione. Incompleta perché
non tiene sufficientemente conto del carattere vivente della tradizione,
la quale, come insegna il Concilio Vaticano II, trae la sua origine dagli
Apostoli e progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo».
Questo documento venne accettato da una parte dei sostenitori di Mons.
Lefébvre e da altri gruppi tradizionalisti, come base di una vita
condotta «secondo la tradizione liturgica latina» in seno alla
Chiesa e sotto l’autorità del Papa.
La Commissione Pontificia, che il Papa creò con lo stesso motu
proprio, ha potuto accettare questi gruppi nel seno della Chiesa e ha potuto
fornire loro una forma canonica quando si è trattato di preti o
di religiosi.
È cosí che è nata la Fraternità San Pietro,
come società di vita apostolica, e la Fraternità San Vincenzo
Ferreri, di ispirazione domenicana; è cosí che si è
fornita una forma canonica ai monasteri di Le Barroux, una abbazia per
monaci (che oggi conta piú di 70 monaci, che invano tentano di ottenere
l’autorizzazione per la fondazione di altre abbazie, cosí necessarie!),
e ad un altro per religiose; piú tardi sarà la volta di una
abbazia per canonici regolari della Madre di Dio, a Gap, in Francia (che
cercano anch’essi una abbazia piú grande); e poi ancora i domenicani
dello Spirito Santo di Pontcalec, le Madri della Croce in Tanzania, i Servi
di Gesú e Maria in Austria e in Germania. A questi ultimi è
stato concesso il privilegio di poter continuare a celebrare la liturgia
romana nella forma anteriore al Concilio e di vivere secondo le antiche
tradizioni.
Essi hanno accettato tutti con gioia le disposizioni del motu proprio,
che permette di vivere nel seno della Chiesa conservando le proprie tradizioni
spirituali e liturgiche. Resta aperta la questione di sapere se tutti hanno
accettato le parole del Santo Padre sulla «tradizione vivente»
che «trae la sua origine dagli Apostoli e progredisce nella Chiesa
sotto l’assistenza dello Spirito Santo».
Alcuni recenti avvenimenti accaduti in seno alla Fraternità
San Pietro e tra i fedeli ad essa collegati, fanno pensare che questa frase
del Santo Padre sia stata compresa solo parzialmente da alcuni di questi
gruppi. Come spiegare altrimenti l’ostilità ancora cosí forte
nei confronti dei fratelli che accettano di celebrare occasionalmente con
la nuova liturgia, permettendo cosí un piú ampio inserimento
nelle Diocesi in cui vivono? Una cosa è insistere sulla continuità
della tradizione a partire dalle origini apostoliche, altra è voler
arrestare arbitrariamente la tradizione al periodo anteriore al Concilio
Vaticano II.
Evidentemente esiste ancora un problema che aspetta di essere risolto.
Tuttavia, vi è ancora un altro problema ben piú grave,
piú profondo: nel 1988, anno del motu proprio, una gran parte dei
sostenitori di Mons. Lefèbvre non ascoltò la voce del Papa,
che ricordava a tutti «il grave dovere di rimanere nell’unità
della Chiesa». Al contrario essi hanno preferito organizzarsi attorno
ai quattro Vescovi scomunicati.
Per giustificare tale scelta viene diffusa l’opinione che la scomunica
non sarebbe valida, perché Mons. Lefèbvre avrebbe agito legittimamente
sulla base di un diritto che gli derivava dalla situazione d’urgenza nella
quale si troverebbe la Chiesa.
«Ecclesia Dei afflicta» veramente.
Ancora oggi le cose perdurano in questo stato: la Fraternità
San Pio X ha un numero impressionante di preti, quasi 350 preti e 250 seminaristi,
che vengono formati in sei seminari: uno in Svizzera, uno in Germani, uno
in Francia, uno negli Stati Uniti, uno in Argentina e uno in Australia.
In piú di trenta paesi i preti svolgono il loro compito pastorale,
hanno delle chiese e delle cappelle, delle scuole e dei movimenti giovanili.
Intorno alla Fraternità gravitano alcune comunità religiose,
come i Benedettini in Brasile (che creeranno una fondazione in Francia
senza alcuna difficoltà, visto che non chiedono il permesso del
Vescovo!), dei Domenicani e dei Cappuccini in Francia, delle Suore di San
Pio X, dei Francescani, dei Domenicani e altri. Migliaia e migliaia di
fedeli assistono regolarmente alle Messe nelle loro cappelle, mandano i
propri figli nelle loro scuole, che godono di una buona reputazione, affidano
i loro giovani al catechismo e ai movimenti di scouts e di altro, e si
servono anche dell’Istituto Universitario San Pio X a Parigi. E questo
accade in Francia come in Svizzera, in Germania come negli Stati Uniti
e nel Canadà, in Australia come in altre regioni del mondo, fino
in Polonia.
Cercare di ristabilire l’unità con loro non è cosa facile.
Perché?
Perché, sfortunatamente, vi sono degli ostacoli seri:
1) Nei loro confronti esiste, in seno alla Chiesa, un rigetto
«a priori» da parte di numerosi Vescovi, preti e laici. Questo
rigetto sembra essere generato dalla mentalità - spesso deplorata,
ma che continua a dominare l’opinione pubblica della Chiesa - in base alla
quale la Chiesa, con il Concilio Vaticano II, ha stabilito un nuovo andamento,
svalutando cosí tutto ciò che era valido prima del Concilio.
In questa ottica, i cattolici legati alla liturgia antica possono
essere solo degli orribili reazionari, che non hanno diritto all’esistenza
nella Chiesa di oggi.
È questo un ostacolo quasi insormontabile e invincibile.
2) La mentalità di questi stessi tradizionalisti dalla tendenza
che si usa chiamare “dura”, si rinchiude sempre di piú in sé
stessa. Anch’essi non hanno approfondito né compreso ciò
che dice il Papa sulla tradizione vivente, al contrario: contro delle verità
scomode di questo genere essi utilizzano facilmente l’arma dell’ironia
o della diffamazione. Nelle loro pubblicazioni, numerose e spesso molto
ben fatte, si critica quasi tutto ciò che non è d’accordo
con loro; tutto quello che di meno buono avviene nella Chiesa - e naturalmente
vi sono delle cose meno buone - viene amplificato per dimostrare
come nella Chiesa sia tutto corrotto. Ogni frase scritta da un teologo
che non è totalmente conforme alla tradizione teologica, nel senso
da loro intesa, diventa un’accusa di eresia diretta contro tutta la Chiesa.
Si direbbe la mentalità di una città assediata, che pensa
solo a difendersi.
Che fare?
La Commissione continua a lavorare per i fedeli legati alla tradizione
liturgica latina, ma non può negare che anche il suo lavoro è
spesso frenato in maniera irriducibile, poiché la Commissione
non ha i poteri giuridici necessari per vincere, per esempio, la resistenza
di un Vescovo.
È per questo che anch’essa deve assistere passivamente ad un
deplorevole andamento: cioè al crescente ritorno dei fedeli ai Priorati
della Fraternità San Pio X. D’altra parte, la Commissione non può
neanche impedire che i tradizionalisti “duri” lo divengano ancor piú,
cosí che la distanza tra loro e la Chiesa divenga sempre piú
grande.
Che fare, allora?
A mio avviso, tutti i «christifideles», siano essi Vescovi,
preti, laici, che si còllochino dalla parte della Chiesa o dalla
parte dei tradizionalisti «lefebvriani», devono comprendere
che non vi è piú tempo da perdere, e che è giunta
l’ora che si riuniscano tutte le forze vive della Chiesa: quelle che hanno
conservato e vogliono conservare la Fede cattolica integrale per reagire
insieme contro l’indifferenza religiosa che si diffonde anche tra i cattolici.
È venuto il momento di superare le differenze liturgiche e di
dare a tutti la possibilità di vivere la Fede e la liturgia nelle
forme accettate dalla Chiesa.
È venuto il momento di prendere tutte le misure giuridiche
necessarie, già annunciate nel motu proprio, per garantire ai fedeli
tradizionalisti una vita normale nella Chiesa, ove possano e debbano partecipare
alla nuova evangelizzazione tanto augurata.
L’anno del grande Giubileo potrebbe essere il momento opportuno, il
«tempus acceptabile» per porre fine all’esclusione di questi
fedeli, che hanno inteso la voce del Papa promettere che «non debbono
piú esserci esclusioni».
Se, al contrario, non si giungesse a porre fine all’esclusione dei
nostri fratelli tradizionalisti, come potranno ancora essere credibili
le dichiarazioni che mirano a sanare le ferite molto piú profonde
ed antiche tra i cristiani, come quelle che sussistono tra l’Occidente
cattolico e l’Oriente ortodosso?
Già nel 1988 un teologo ortodosso che viveva a Parigi aveva
scritto che gli Ortodossi osservavano con la piú grande attenzione
il modo con cui la Chiesa di Roma avrebbe risolto il problema dei suoi
tradizionalisti, i quali, in virtú del loro attaccamento alla liturgia
tradizionale latina, hanno la simpatia degli Ortodossi, anch’essi fortemente
legati alla liturgia bizantina tradizionale che non è mai cambiata
nei secoli.
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