Intervista a S. Em.za Rev.ma il Card. Darìo
Castrillon Hoyos
Prefetto della Congregazione per il Clero e Presidente della Pontificia
Commissione “Ecclesia Dei”.
Rilasciata alla rivista La Nef (Francia), nel dicembre 2000
Come Prefetto della Congregazione per il Clero, quali sono i temi
che trattate piú frequentemente?
La Congregazione per il Clero è divisa in tre sezioni:
la prima si occupa di promuovere la santificazione, la vita, il ministero
e la formazione permanente dei preti diocesani e dei diaconi permanenti,
seguendo anche le realtà ecclesiali che sono piú direttamente
legate a questi elementi, la parrocchia, i consigli presbiteriali e pastorali,
i capitoli dei canonici e i santuari. La seconda sezione si occupa della
catechesi e della formazione della fede dei fedeli. Infine, la terza sezione
aiuta il Santo Padre nella vigilanza sull’amministrazione dei beni ecclesiastici
appartenenti alle diocesi o alle realtà ad esse collegate.
Le giornate mondiali della gioventú hanno una dimensione
missionaria presso i giovani: possono costituire anche un mezzo per far
scoprire loro il senso della vocazione sacerdotale?
Le giornate mondiali della gioventú sono un momento
di grazia per la Chiesa, perché la gioventú è una
risorsa molto importante per la nuova evangelizzazione alla quale ci ha
chiamati la preveggenza del Santo Padre. Queste giornate sono un’occasione
privilegiata di evangelizzazione per i giovani, i quali scoprono in profondità
la loro identità e la loro vocazione nella Chiesa. È chiaro
che in questo processo di maturazione sorgono delle vocazioni al sacerdozio
o alla vita consacrata. Tra i giovani preti di oggi, tanti sono quelli
che hanno iniziato il loro cammino di vocazione in occasione di una delle
giornate mondiali precedenti.
Nel dopo concilio la Chiesa ha conosciuto una crisi che si manifesta
in modo particolare con le numerose riduzioni allo stato laico e un significativo
abbassamento delle vocazioni nei paesi da sempre cristiani: come considerate
questo fenomeno e che ne è oggi di esso?
La crisi dell’ultimo decennio dev’essere ricondotta nel contesto
storico e culturale di questo secolo. Si opererebbe una riduzione semplicistica,
senza rapporto con la verità, se si volesse attribuire la colpa
al concilio ecumenico Vaticano II. Esso, al contrario, è stato giustamente
convocato dal beato Giovanni XXIII, in seguito all’intuizione ed al progetto
del servo di Dio Pio XII, per operare una sincera ricerca da parte della
Chiesa col fine di rispondere alle sfide che il contesto storico e culturale
sollevava in merito all’azione evangelizzatrice. Bisogna tenere conto delle
due guerre mondiali, delle ideologie derivate dal razionalismo, delle pretese
di una ragione che non riconosce piú la trascendenza, del benessere
che pretende collocare l’uomo in un utopico paradiso terrestre, della crisi
delle istituzioni fondamentali, come la famiglia, la scuola, lo Stato,
e, infine, del crollo di tutte queste illusioni che ha generato un vuoto
esistenziale spaventoso. Sono questi gli ingredienti della crisi epocale
degli anni 50, alla quale non è sfuggita neanche la Chiesa, nonostante
tutto questo vivesse in maniera piú o meno nascosta.
Per quanto riguarda le vocazioni sacerdotali, io penso che la crisi
è cominciata come crisi dell’identità sacerdotale, che si
manifestava sia con la contestazione della struttura stessa della Chiesa,
sia con lo scoraggiamento progressivo provocato dall’adombrarsi dell’identità
e dalla mancanza di percezione di una valida finalità per il ministero
sacerdotale. Questi due elementi hanno condotto in seguito alla contestazione
del modello del prete proposto dalla Chiesa. In questo contesto, l’abbandono
di tanti preti non poteva non influenzare i giovani e la loro possibilità
di cogliere la chiamata divina e corrispondervi con slancio ed entusiasmo
missionario. Attualmente le statistiche dimostrano che la crisi va scomparendo
e che le ordinazioni aumentano progressivamente: nei secolari siamo passati
da 3786 ordinazioni nel 1977 a 6352 nel 1998, nei religiosi da 1724 nel
1985 a 2547 nel 1998.
Come giudicate la situazione del clero nella Chiesa odierna in
rapporto a ciò che essa è stata nelle diverse epoche passate?
È difficile stabilire un quadro uniforme. La realtà
della Chiesa, che è universale, si riveste di tante sfumature e
di molteplici punti di vista. Nell’insieme penso si possa dire che una
volta superato il periodo di contestazione degli anni 70 e 80, il clero
mi sembra sia ritornato a guardare la sua identità e la specificità
della sua spiritualità. Il magistero incessante di Giovanni Paolo
II ha contribuito molto in questo senso, in quanto volto a ridare valore
alla configurazione ontologica al Cristo prete e Pastore che scaturisce
dall’ordine sacro. Non si tratta di un impegno o di un lavoro professionale.
Qui ci troviamo nel dominio del mistero della fede! Oggi la scelta della
vocazione si realizza con maggiore chiarezza e con maggiore coscienza.
È sintomatico che i casi di abbandono del ministero, sempre molto
dolorosi, sono in netto calo.
D’altra parte, non posso nascondere un elemento di preoccupazione,
che deriva dal fatto che certi giovani preti, nei primi anni del ministero,
attraversano una crisi, non tanto per delle ragioni ideologiche o disciplinari,
ma a causa di una certa fragilità personale. È importante
tenere conto di questa realtà per mettere in essere, in maniera
piú attenta, la formazione attuale dei seminaristi e dei preti,
che occorre collegare in continuità con la formazione permanente.
La nostra Congregazione insiste sull’importanza della formazione permanente
e sull’accompagnamento personale dei nuovi preti da parte dei vescovi e
di coloro che nella diocesi svolgono questo incarico; e cerca anche di
attirare l’attenzione sul valore delle diverse forme di fraternità
sacerdotale e dei diversi movimenti associativi legittimi che possono aiutare
i preti a rafforzare la loro vita spirituale e a conservare l’entusiasmo
del loro ministero.
Qual è il bilancio attuale delle vocazioni nel mondo?
E cosa fare, in particolare, per far nascere delle nuove vocazioni nei
paesi europei?
Ho parlato prima di statistiche. La nostra Congregazione ha
cercato di raccogliere i dati salienti di questo pontificato, statistiche
che sono disponibili nel sito del dicastero (www.clerus.org). Nei paesi
occidentali, il numero totale dei seminaristi ha incominciato a declinare
dopo la guerra, nel 1950 in Francia vi erano già piú decessi
che ordinazioni; è solo nel 1975 che si è registrata una
inversione di tendenza, con una crescita del numero dei seminaristi diocesani
(dell’1,81); per i seminaristi religiosi la risalita è stata piú
lenta e si è accelerata negli ultimi anni (crescita dell’1,83);
per i religiosi la crescita è stata determinata inizialmente dalla
nascita di nuove comunità di diritto diocesano, mentre gli Istituti
di diritto pontificio hanno registrato una ripresa solo a partire dal 1985.
In totale si è passati dai 60.142 seminaristi dell’inizio del 1976
ai 109.828 dei primi del 2000. Se analizziamo i dati per continente, possiamo
vedere che il 1975 ha segnato una forte accelerazione della crescita nell’America
Latina (da 5.545 seminaristi del 1949 a 30.632 del 1999) e nell’Asia (da
10.571 a 25.481), mentre in Africa si è avuta una crescita lineare
(da 3.470 nel 1969 a 19.654). Il numero dei seminaristi è diminuito
di quasi i due terzi dal 1968 al 1994 nell’America del Nord, ma adesso
è in ripresa; è anche diminuito di un terzo in Oceania e
di un quinto in Europa (da 33.971 a 27.154); quest’ultimo continente è
atipico: si è avuta una forte caduta nel 1975, una rapida ripresa
fino al 1986 ed una nuova ricaduta in certe zone dal 1991, cosa preoccupante
per ciò che può significare sulla concezione del prete in
seno al popolo cristiano.
Dal punto di vista della fede, credo che ciò che vale per l’America
Latina e per l’Africa valga anche per la vecchia Europa: Il Signore continua
a chiamare degli operai per la sua messe. È importante volersi porre
sulla giusta frequenza per ascoltare questa chiamata, cosí come
è importante far risplendere nella sua purezza l’identità
dei preti e permettere al ministero pastorale che ne deriva di dispiegarsi
in tutta la sua pienezza. È necessaria una ripresa della vita
spirituale, la riscoperta della bellissima avventura che si vive nel divenire
amanti di un Dio che si rivela all’uomo. La pastorale delle vocazioni dev’essere
condotta d’intesa con la pastorale familiare e con la vitalizzazione delle
parrocchie e delle scuole, con l’evangelizzazione della cultura e con la
purezza e la sacralità del culto divino, con la preoccupazione motivata
di dar valore alla continuità della Chiesa, e il tutto dev’essere
basato su una solida esperienza di fede. La Chiesa cammina nel tempo, ma
sempre in eodem sensu. Questo dev’essere evidente e percepibile da parte
di tutti.
Chi è il prete e in cosa consiste un buon apprezzamento
del sacerdozio nel mondo moderno? L’identità del prete non è
stata a volte mal compresa negli ultimi decenni (magari prendendo ad esempio
la frequente assenza dell’abito ecclesiastico distinto)?
Il prete è l’uomo segnato in maniera indelebile dal
carattere sacramentale che fa di lui il segno visibile del Cristo, Buon
Pastore e guida della Chiesa. Colui che aiuta a superare la banalità
per favorire l’incontro con la trascendenza, con Dio; egli è l’annunciatore
autorizzato della Parola di Dio, ministro della riconciliazione e della
salvezza. Due documenti mi sembrano fondamentali per la nostra epoca, nel
senso che riaffermano l’identità profonda del prete cattolico: l’esortazione
apostolica Pastores dabo vobis, e il Direttorio per il ministero
e la vita dei preti, pubblicato dalla nostra Congregazione in seguito
al primo documento pontificio. Di fronte all’oscuramento dell’identità
sacerdotale, spesso rafforzato dai mezzi di comunicazione, e di fronte
alle manifestazioni di crisi, bisogna presentare nuovamente con chiarezza
quei valori che la Chiesa ha attribuito da sempre al sacerdozio ordinato.
Credo che la questione della visibilità del prete, al di là
di una semplice questione disciplinare, potrebbe rientrare in questa piú
ampia prospettiva.
L’assenza di preti in molte diocesi francesi obbliga i vescovi
a raggruppare le parrocchie: vi sono da parte di Roma delle istruzioni
particolari in merito a questo problema? E che ne pensate?
Per quanto riguarda la questione piú generale della
collaborazione dei fedeli laici al ministero dei preti, vi sono ben sette
dicasteri della Curia romana, coordinati dalla nostra Congregazione, che
hanno pubblicato un documento con delle direttive, e questo testo ha ricevuto
la specifica approvazione del Santo Padre. Esso stabilisce delle
norme molto chiare e precise in materia, allo scopo di evitare due esagerazioni
entrambe nocive: la clericalizzazione dei laici, che li allontana dal loro
specifico dominio di presenza e di messa in opera della santificatio Mundi,
e la diminuzione pratica del valore insostituibile per la vita della Chiesa,
del sacerdozio ordinato. Non si può rimediare alla mancanza di preti
che si constata in certe zone, con una semplice sostituzione: attribuendo
alcune delle loro funzioni a dei laici; occorre ripensare con forza all’urgenza
della pastorale delle vocazioni, perché una Chiesa senza ministero
ordinato non corrisponderebbe piú a quella voluta da Gesú
Cristo. Bisogna anche evitare di ridurre l’esercizio pieno ed intero del
ministero pastorale dei preti. Questo non esclude che possano attuarsi
nuove forme pastorali per rendere piú concreto l’impatto dei preti
di cui dispone oggi la Chiesa. L’importante è rispettare sempre
la struttura fondamentale della Chiesa, perché questa struttura
deriva dal mistero sacramentale, è cosa divina, e risale a Gesú
Cristo il suo divino fondatore. Personalmente penso che siano opportune
altre iniziative, per esempio la revisione del modo con cui si mettono
a riposo i preti in diversi paesi, con una utilizzazione piú creativa
dei preti anziani ancora in buono stato di salute. Un qualunque approccio
efficientista del ministero sacerdotale è assurdo. Si può
ancora, con molta prudenza, lasciare degli incarichi, ma non ci si può
ritirare dalla propria essenza sacerdotale né dal ministero in sé
stesso. Non si «fa» il prete: si «è» prete!
Quale problema solleva la celebrazione della messa secondo il
rito antico? Voi avete dichiarato che la cosiddetta messa di San Pio V
è u tesoro della Chiesa che manifesta il mistero e il senso del
sacro inerente ad ogni messa: quale ruolo può svolgere secondo voi
la presenza minoritaria della messa detta di San Pio V?
Penso sia importante sottolineare con chiarezza che tutti
i riti approvati nella Chiesa cattolica non si fanno concorrenza reciproca.
Bisogna evitare una attitudine hegeliana nel dominio liturgico, in base
alla quale l’origine e lo sviluppo di un rito andrebbe necessariamente
a detrimento di un altro, come se si trattasse di una tesi e un’antitesi
escludentesi reciprocamente. La nostra Santa Madre Chiesa conosce una ricca
varietà di riti attraverso i quali la liturgia vive e santifica
i fedeli. In questo senso, il messale approvato dal papa Paolo
VI realizza, in una ininterrotta continuità con la tradizione liturgica
di sempre, il mistero eucaristico, compiendo la volontà di Cristo:
Fate questo in memoria di me. Esso lo fa esattamente con la stessa validità
e liceità dei libri liturgici anteriori debitamente approvati. Il
cuore della questione liturgica si trova nell’ecclesiologia, nella dottrina
sulla Chiesa e nell’assistenza divina che la conferma: malgrado il cambiamento
di certe forme esteriori, la Chiesa è e resta sempre identica a
sé stessa; la sposa immacolata dell’ Agnello immacolato non può
rinnegare il suo passato: Ecclesia semper sibi eadem constat. Tutto questo
dev’essere considerato, meditato, insegnato e vissuto.
È in questo modo che si potrà superare un atteggiamento
di confronto e di opposizione tra i due riti. Se l’ultima riforma
ha contribuito, e non poco, all’intelligibilità della celebrazione
e ad una effettiva partecipazione, il rito precedente conserva quel forte
richiamo alla sacralità e alla trascendenza che, nel passato, a
dato vita a tanti santi e ha modellato il viso della Chiesa nel corso dei
secoli. Abbiamo da imparare da entrambe le tradizioni, per correggere eventuali
esagerazioni di aspetti accidentali che nuocciono all’unità essenziale.
Occorre evitare i modi che si nutrono solo dello spirito del mondo, le
banalizzazioni, le eccentricità, gli individualismi e le rotture
con la grande Tradizione. Dev’essere chiaro che la lex orandi è
anche lex credendi, che ogni elemento, ogni segno, deve esprimere delle
profonde verità salutari, che le forme stesse, al di là di
ogni crudo formalismo, aiutano a mantenere e a veicolare la sostanza.
Il concetto stesso di partecipazione dev’essere chiaro: si tratta di una
realtà che impegna tutta la persona, dalla sua piú profonda
interiorità alla sua espressione per mezzo delle parole, dei gesti,
degli atteggiamenti.
Roma ha sempre affermato che il nuovo messale del 1969 era una
semplice riforma del messale anteriore, e logicamente sostituiva il precedente.
Nondimeno, certi teologi (come mons. Gamber, per esempio) hanno cercato
di dimostrare che se il messale di Paolo VI è evidentemente legittimo,
esso non corrisponde a quello che la tradizione liturgica considera come
una evoluzione omogenea (lo stesso cardinale Ratzinger ha parlato di «liturgia
fabbricata»). Per chi osserva dall’esterno la celebrazione della
messa secondo questi due messali, la rottura colpisce molto piú
che la continuità. Su questo importante aspetto, vorrei porvi due
domande: innanzi tutto che ne pensate del dibattito in atto? Poi, che ne
pensate della tesi in base alla quale questi due messali, nella moderna
cultura in frantumi, che è la nostra, risponderebbero ciascuno
al bisogno di differente spiritualità dei nostri contemporanei?
Credo personalmente che il dibattito deve trovare un punto
di equilibrio, per superare il falso antagonismo che vuole creare tra i
due riti. Io non accetto la tesi di una rottura con la continuità
della tradizione liturgica della Chiesa d’Occidente. Al contrario, bisogna
comprendere che la Chiesa di oggi è la Chiesa di sempre; che il
magistero procede in eodem sensu; e bisogna sottolineare che non si costruisce
la Chiesa di oggi sulle macerie di quella di ieri - come diceva già
Paolo VI - e che lo Spirito Santo, anima della Chiesa, non può insegnare
in un dato momento il contrario di ciò che ha insegnato in un altro.
Ho già richiamato i buoni frutti della riforma liturgica di
Paolo VI; tuttavia non vedo perché il carattere obbligatorio
della norma liturgica attuale dovrebbe necessariamente ostacolare la legittimità
di una posizione particolare quando questa sia autorizzata dalla Chiesa;
mi riferisco a coloro che sentono un attaccamento particolare per certe
forme della liturgia latina precedenti l’ultima riforma liturgica, forme
che li aiutano a santificarsi. In questo senso, non posso mancare
di esprimere la mia personale gratitudine a tutti i vescovi che hanno concesso
con coraggio e generosità di celebrare secondo il messale del 1962
nelle loro diocesi, assicurando cosí la comunione di tutti i fedeli
nella diversità dei riti; essi favoriscono l’unità nel rispetto,
e danno prova di un profondo senso pastorale, dimostrando comprensione
per i bisogni della Chiese diocesane.
Infine, io credo che sia urgente per tutti - preti e fedeli dei
sue riti - darsi una formazione leale che contribuisca ad una obbedienza
rispettosamente motivata delle norme liturgiche autentiche, una obbedienza
in grado di garantire un autentico senso del sacro, della trascendenza
e dell’eterno, capace anche di comprendere, nella giusta maniera, le reali
urgenze di evangelizzazione del mondo attuale. Tutti, pastori e fedeli
di ogni tendenza, siamo chiamati a fare un esame di coscienza sul modo
in cui celebriamo l’Eucarestia, sul modo in cui si esprime la fede all’inizio
del terzo millennio, e sulla misura della nostra reale vigilanza, sempre
e dovunque, circa il dovere dell’ortodossia e del sentire cum Ecclesia
in tutto ciò che diciamo nelle nostre omelie, nelle diverse istruzioni
o attraverso i mezzi di comunicazione. Se la santa messa e gli altri sacramenti
sono celebrati in maniera degna, osservando le direttive dei libri liturgici,
se il Santissimo Sacramento è conservato e adorato con l’amore e
l’onore che gli sono dovuti, se le nostre omelie si fanno eco fedele della
Sacra Scrittura come Parola di Dio, del Catechismo della Chiesa Cattolica
e delle dichiarazioni del magistero, avremo già messo insieme un
certo numero di presupposti per superare qualunque antagonismo. Ancor piú
profondamente: le nostre tensioni non sono un invito a chiedere la grazia
di una vita spirituale piú profonda, piú autentica, perché
lo Spirito Santo ci conceda di ritrovarci pienamente nel Mistero di Dio
stesso e di mettere nei nostri mutui rapporti tanta verità quanta
carità, e cioè quella mutua benevolenza a cui ci esorta con
forza san Paolo? La verità senza una autentica carità, e
la carità senza una verità integrale, non son piú
né verità né carità. Dio è inseparabilmente
Luce e Amore.
Certi liturgisti ritengono che sarebbe necessario prendere in
considerazione un giorno una riforma della riforma liturgica del 1969:
che ne pensate?
Le forme liturgiche della Chiesa cattolica sono sempre in continua
evoluzione: lo stesso messale di san Pio V è il punto di arrivo
di una lenta evoluzione durata dei secoli. Da parte sua esso ha dato luogo
ad altri sviluppi che hanno prodotto altrettanti interventi per modificarlo.
Niente
si oppone a che si possano discutere certi aspetti pratici e certe scelte
concrete che sono state fatte al momento dell’elaborazione dell’attuale
riforma liturgica. Inoltre, la realizzazione della riforma, con gli anni,
richiederà certo una nuova revisione. Non si può dunque escludere
che in futuro, come si è sempre fatto, si possano apportare dei
cambiamenti ulteriori e degli adattamenti, rispettando sempre l’essenziale,
cosa questa che vale per tutte le epoche e tutte le circostanze.
Le Responsa pubblicate dalla Congregazione per il Culto Divino
il 3 luglio 1999, nello stesso periodo in cui esplodeva la crisi in seno
alla Fraternità San Pietro, hanno fatto temere ad alcuni che Roma
cercasse di fare marcia indietro sul Motu Proprio Ecclesia Dei, e che tentasse
di mutare l’originaria identità liturgica della Fraternità
San Pietro: che potete rispondere riguardo?
Per l’avvenire della Fraternità San Pietro è
indispensabile prendere conoscenza del carattere specifico del privilegio
liturgico che ad essa ha concesso la suprema autorità della Chiesa;
e al tempo stesso dei suoi limiti a fronte della legislazione generale
del rito latino. Ci siamo sempre sforzati, a piú riprese, di rendere
comprensibile il fatto che la legittimità di una posizione particolare,
propria di quelli che si sentono legati a certe forme della liturgia latina
anteriori all’ultima riforma liturgica, non abolisce e non può impedire
a nessuno la possibilità di usufruire della norma liturgica in vigore
nella Chiesa universale.
Ciò detto, posso solo ribadire che i fedeli che esprimono
la loro fede attraverso la messa detta di san Pio V, secondo il messale
del 1962, partecipano lecitamente all’Eucarestia, poiché l’autorità
competente ha permesso tale celebrazione. Occorre superare nei fatti ogni
forma di sospetto reciproco.
Quest’estate siete intervenuto nella crisi della Fraternità
San Pietro, in occasione del suo capitolo generale: come vedete il suo
avvenire?
Il mio pensiero è chiaramente espresso nella lettera
che ho indirizzato loro in quella occasione. Io credo che siamo in presenza
di un processo doloroso di maturazione e di chiarimento. Dodici anni dopo
la fondazione del 1988, questa comunità si sforza di trovare il
suo posto nell’insieme della Chiesa, a fianco di altre aggregazioni con
finalità diverse. Nella fase attuale, io ritengo che occorra aiutare
i membri della fraternità a mantenere l’equilibrio tra l’autentica
interpretazione del carisma originario e delle sue conseguenze, e le conseguenze
del loro inserimento nella realtà ecclesiale del 2000. La perseveranza
ben comprensibile nella volontà dei fondatori deve armonizzarsi
con le necessità pastorali di tutta la Chiesa. Il mio atteggiamento
fondamentale è di appoggiare chiaramente la Fraternità, nell’apertura
di un dialogo sempre leale e sincero. E so che posso contare nello stesso
atteggiamento della Fraternità.
Il 4 settembre scorso, avete informato i rappresentanti di diverse
associazioni (Una Voce…), venuti ad incontrarvi a Roma, che la Pontifica
Commissione Ecclesia Dei pubblicherà prossimamente un documento
sulle possibili evoluzioni del messale romano del 1962: potete darci qualche
precisazione?
Evoluzione possibile? No, io penso ad un testo sul buon uso
di ciò che è stato concesso con l’indulto del 1984 e col
Motu Proprio del 1988; dunque all’uso del messale del 1962 con alcune possibilità
che guardano alle rubriche del 1965, come è stato fatto già
in certe comunità. Si tratterebbe di una Istruzione sul modo di
servirsi, con prudenza pastorale e senso liturgico, del rito come tale
e delle rubriche che oggi ne regolano l’uso. Quest’ultimo punto è
importante, perché dopo il concilio Vaticano II alcune acquisizioni
liturgiche possono essere valide per tutta la Chiesa, come per esempio
la questione dei lezionarii, o dei nuovi santi che si vorrebbero festeggiare
anche col rito antico, ecc. Questa Istruzione avrebbe in vista una certa
unità nelle celebrazioni del rito antico, e favorirebbe anche i
legami tra le due tradizioni nel rispetto dell’identità di ciascuna.
Si pensa anche ad una sorta di compendium sullo stato attuale
delle norme che regolano tutta la materia, ad uso dei vescovi e dei curati.
Si prenderebbero in considerazioni questioni come queste: chi può
celebrare la messa secondo il rito del 1962? quali sono le condizioni ancora
in vigore? qual è la procedura da seguire per ottenere il permesso?
cosa si intende per “messa privata” e in quali casi occorre l’autorizzazione
dell’Ordinario? come procedere nel caso di matrimonio o di funerale
secondo l’antico rito? Quali sono in pratica i privilegi di cui godono
i preti appartenenti agli istituti dell’Ecclesia Dei? Si tratta evidentemente
di un progetto ancora in fase di riflessione e di studio.
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FS San Pietro
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