Intervista a S. Em.za Rev.ma il Card. Darìo Castrillon Hoyos
Prefetto della Congregazione per il Clero e Presidente della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”.

Rilasciata alla rivista La Nef (Francia), nel dicembre 2000



Come Prefetto della Congregazione per il Clero, quali sono i temi che trattate piú frequentemente?

La Congregazione per il Clero è divisa in tre sezioni: la prima si occupa di promuovere la santificazione, la vita, il ministero e la formazione permanente dei preti diocesani e dei diaconi permanenti, seguendo anche le realtà ecclesiali che sono piú direttamente legate a questi elementi, la parrocchia, i consigli presbiteriali e pastorali, i capitoli dei canonici e i santuari. La seconda sezione si occupa della catechesi e della formazione della fede dei fedeli. Infine, la terza sezione aiuta il Santo Padre nella vigilanza sull’amministrazione dei beni ecclesiastici appartenenti alle diocesi o alle realtà ad esse collegate.


Le giornate mondiali della gioventú hanno una dimensione missionaria presso i giovani: possono costituire anche un mezzo per far scoprire loro il senso della vocazione sacerdotale?

Le giornate mondiali della gioventú sono un momento di grazia per la Chiesa, perché la gioventú è una risorsa molto importante per la nuova evangelizzazione alla quale ci ha chiamati la preveggenza del Santo Padre. Queste giornate sono un’occasione privilegiata di evangelizzazione per i giovani, i quali scoprono in profondità la loro identità e la loro vocazione nella Chiesa. È chiaro che in questo processo di maturazione sorgono delle vocazioni al sacerdozio o alla vita consacrata. Tra i giovani preti di oggi, tanti sono quelli che hanno iniziato il loro cammino di vocazione in occasione di una delle giornate mondiali precedenti.


Nel dopo concilio la Chiesa ha conosciuto una crisi che si manifesta in modo particolare con le numerose riduzioni allo stato laico e un significativo abbassamento delle vocazioni nei paesi da sempre cristiani: come considerate questo fenomeno e che ne è oggi di esso?

La crisi dell’ultimo decennio dev’essere ricondotta nel contesto storico e culturale di questo secolo. Si opererebbe una riduzione semplicistica, senza rapporto con la verità, se si volesse attribuire la colpa al concilio ecumenico Vaticano II. Esso, al contrario, è stato giustamente convocato dal beato Giovanni XXIII, in seguito all’intuizione ed al progetto del servo di Dio Pio XII, per operare una sincera ricerca da parte della Chiesa col fine di rispondere alle sfide che il contesto storico e culturale sollevava in merito all’azione evangelizzatrice. Bisogna tenere conto delle due guerre mondiali, delle ideologie derivate dal razionalismo, delle pretese di una ragione che non riconosce piú la trascendenza, del benessere che pretende collocare l’uomo in un utopico paradiso terrestre, della crisi delle istituzioni fondamentali, come la famiglia, la scuola, lo Stato, e, infine, del crollo di tutte queste illusioni che ha generato un vuoto esistenziale spaventoso. Sono questi gli ingredienti della crisi epocale degli anni 50, alla quale non è sfuggita neanche la Chiesa, nonostante tutto questo vivesse in maniera piú o meno nascosta.
Per quanto riguarda le vocazioni sacerdotali, io penso che la crisi è cominciata come crisi dell’identità sacerdotale, che si manifestava sia con la contestazione della struttura stessa della Chiesa, sia con lo scoraggiamento progressivo provocato dall’adombrarsi dell’identità e dalla mancanza di percezione di una valida finalità per il ministero sacerdotale. Questi due elementi hanno condotto in seguito alla contestazione del modello del prete proposto dalla Chiesa. In questo contesto, l’abbandono di tanti preti non poteva non influenzare i giovani e la loro possibilità di cogliere la chiamata divina e corrispondervi con slancio ed entusiasmo missionario. Attualmente le statistiche dimostrano che la crisi va scomparendo e che le ordinazioni aumentano progressivamente: nei secolari siamo passati da 3786 ordinazioni nel 1977 a 6352 nel 1998, nei religiosi da 1724 nel 1985 a 2547 nel 1998.


Come giudicate la situazione del clero nella Chiesa odierna in rapporto a ciò che essa è stata nelle diverse epoche passate?

È difficile stabilire un quadro uniforme. La realtà della Chiesa, che è universale, si riveste di tante sfumature e di molteplici punti di vista. Nell’insieme penso si possa dire che una volta superato il periodo di contestazione degli anni 70 e 80, il clero mi sembra sia ritornato a guardare la sua identità e la specificità della sua spiritualità. Il magistero incessante di Giovanni Paolo II ha contribuito molto in questo senso, in quanto volto a ridare valore alla configurazione ontologica al Cristo prete e Pastore che scaturisce dall’ordine sacro. Non si tratta di un impegno o di un lavoro professionale. Qui ci troviamo nel dominio del mistero della fede! Oggi la scelta della vocazione si realizza con maggiore chiarezza e con maggiore coscienza. È sintomatico che i casi di abbandono del ministero, sempre molto dolorosi, sono in netto calo.
D’altra parte, non posso nascondere un elemento di preoccupazione, che deriva dal fatto che certi giovani preti, nei primi anni del ministero, attraversano una crisi, non tanto per delle ragioni ideologiche o disciplinari, ma a causa di una certa fragilità personale. È importante tenere conto di questa realtà per mettere in essere, in maniera piú attenta, la formazione attuale dei seminaristi e dei preti, che occorre collegare in continuità con la formazione permanente. La nostra Congregazione insiste sull’importanza della formazione permanente e sull’accompagnamento personale dei nuovi preti da parte dei vescovi e di coloro che nella diocesi svolgono questo incarico; e cerca anche di attirare l’attenzione sul valore delle diverse forme di fraternità sacerdotale e dei diversi movimenti associativi legittimi che possono aiutare i preti a rafforzare la loro vita spirituale e a conservare l’entusiasmo del loro ministero.


Qual è il bilancio attuale delle vocazioni nel mondo? E cosa fare, in particolare, per far nascere delle nuove vocazioni nei paesi europei?

Ho parlato prima di statistiche. La nostra Congregazione ha cercato di raccogliere i dati salienti di questo pontificato, statistiche che sono disponibili nel sito del dicastero (www.clerus.org). Nei paesi occidentali, il numero totale dei seminaristi ha incominciato a declinare dopo la guerra, nel 1950 in Francia vi erano già piú decessi che ordinazioni; è solo nel 1975 che si è registrata una inversione di tendenza, con una crescita del numero dei seminaristi diocesani (dell’1,81); per i seminaristi religiosi la risalita è stata piú lenta e si è accelerata negli ultimi anni (crescita dell’1,83); per i religiosi la crescita è stata determinata inizialmente dalla nascita di nuove comunità di diritto diocesano, mentre gli Istituti di diritto pontificio hanno registrato una ripresa solo a partire dal 1985. In totale si è passati dai 60.142 seminaristi dell’inizio del 1976 ai 109.828 dei primi del 2000. Se analizziamo i dati per continente, possiamo vedere che il 1975 ha segnato una forte accelerazione della crescita nell’America Latina (da 5.545 seminaristi del 1949 a 30.632 del 1999) e nell’Asia (da 10.571 a 25.481), mentre in Africa si è avuta una crescita lineare (da 3.470 nel 1969 a 19.654). Il numero dei seminaristi è diminuito di quasi i due terzi dal 1968 al 1994 nell’America del Nord, ma adesso è in ripresa; è anche diminuito di un terzo in Oceania e di un quinto in Europa (da 33.971 a 27.154); quest’ultimo continente è atipico: si è avuta una forte caduta nel 1975, una rapida ripresa fino al 1986 ed una nuova ricaduta in certe zone dal 1991, cosa preoccupante per ciò che può significare sulla concezione del prete in seno al popolo cristiano.
Dal punto di vista della fede, credo che ciò che vale per l’America Latina e per l’Africa valga anche per la vecchia Europa: Il Signore continua a chiamare degli operai per la sua messe. È importante volersi porre sulla giusta frequenza per ascoltare questa chiamata, cosí come è importante far risplendere nella sua purezza l’identità dei preti e permettere al ministero pastorale che ne deriva di dispiegarsi in tutta la sua pienezza. È necessaria una ripresa della vita spirituale, la riscoperta della bellissima avventura che si vive nel divenire amanti di un Dio che si rivela all’uomo. La pastorale delle vocazioni dev’essere condotta d’intesa con la pastorale familiare e con la vitalizzazione delle parrocchie e delle scuole, con l’evangelizzazione della cultura e con la purezza e la sacralità del culto divino, con la preoccupazione motivata di dar valore alla continuità della Chiesa, e il tutto dev’essere basato su una solida esperienza di fede. La Chiesa cammina nel tempo, ma sempre in eodem sensu. Questo dev’essere evidente e percepibile da parte di tutti.


Chi è il prete e in cosa consiste un buon apprezzamento del sacerdozio nel mondo moderno? L’identità del prete non è stata a volte mal compresa negli ultimi decenni (magari prendendo ad esempio la frequente assenza dell’abito ecclesiastico distinto)?

Il prete è l’uomo segnato in maniera indelebile dal carattere sacramentale che fa di lui il segno visibile del Cristo, Buon Pastore e guida della Chiesa. Colui che aiuta a superare la banalità per favorire l’incontro con la trascendenza, con Dio; egli è l’annunciatore autorizzato della Parola di Dio, ministro della riconciliazione e della salvezza. Due documenti mi sembrano fondamentali per la nostra epoca, nel senso che riaffermano l’identità profonda del prete cattolico: l’esortazione apostolica Pastores dabo vobis, e il Direttorio per il ministero e la vita dei preti, pubblicato dalla nostra Congregazione in seguito al primo documento pontificio. Di fronte all’oscuramento dell’identità sacerdotale, spesso rafforzato dai mezzi di comunicazione, e di fronte alle manifestazioni di crisi, bisogna presentare nuovamente con chiarezza quei valori che la Chiesa ha attribuito da sempre al sacerdozio ordinato. Credo che la questione della visibilità del prete, al di là di una semplice questione disciplinare, potrebbe rientrare in questa piú ampia prospettiva.


L’assenza di preti in molte diocesi francesi obbliga i vescovi a raggruppare le parrocchie: vi sono da parte di Roma delle istruzioni particolari in merito a questo problema? E che ne pensate?

Per quanto riguarda la questione piú generale della collaborazione dei fedeli laici al ministero dei preti, vi sono ben sette dicasteri della Curia romana, coordinati dalla nostra Congregazione, che hanno pubblicato un documento con delle direttive, e questo testo ha ricevuto la specifica approvazione del Santo Padre. Esso stabilisce delle norme molto chiare e precise in materia, allo scopo di evitare due esagerazioni entrambe nocive: la clericalizzazione dei laici, che li allontana dal loro specifico dominio di presenza e di messa in opera della santificatio Mundi, e la diminuzione pratica del valore insostituibile per la vita della Chiesa, del sacerdozio ordinato. Non si può rimediare alla mancanza di preti che si constata in certe zone, con una semplice sostituzione: attribuendo alcune delle loro funzioni a dei laici; occorre ripensare con forza all’urgenza della pastorale delle vocazioni, perché una Chiesa senza ministero ordinato non corrisponderebbe piú a quella voluta da Gesú Cristo. Bisogna anche evitare di ridurre l’esercizio pieno ed intero del ministero pastorale dei preti. Questo non esclude che possano attuarsi nuove forme pastorali per rendere piú concreto l’impatto dei preti di cui dispone oggi la Chiesa. L’importante è rispettare sempre la struttura fondamentale della Chiesa, perché questa struttura deriva dal mistero sacramentale, è cosa divina, e risale a Gesú Cristo il suo divino fondatore. Personalmente penso che siano opportune altre iniziative, per esempio la revisione del modo con cui si mettono a riposo i preti in diversi paesi, con una utilizzazione piú creativa dei preti anziani ancora in buono stato di salute. Un qualunque approccio efficientista del ministero sacerdotale è assurdo. Si può ancora, con molta prudenza, lasciare degli incarichi, ma non ci si può ritirare dalla propria essenza sacerdotale né dal ministero in sé stesso. Non si «fa» il prete: si «è» prete!


Quale problema solleva la celebrazione della messa secondo il rito antico? Voi avete dichiarato che la cosiddetta messa di San Pio V è u tesoro della Chiesa che manifesta il mistero e il senso del sacro inerente ad ogni messa: quale ruolo può svolgere secondo voi la presenza minoritaria della messa detta di San Pio V?

Penso sia importante sottolineare con chiarezza che tutti i riti approvati nella Chiesa cattolica non si fanno concorrenza reciproca. Bisogna evitare una attitudine hegeliana nel dominio liturgico, in base alla quale l’origine e lo sviluppo di un rito andrebbe necessariamente a detrimento di un altro, come se si trattasse di una tesi e un’antitesi escludentesi reciprocamente. La nostra Santa Madre Chiesa conosce una ricca varietà di riti attraverso i quali la liturgia vive e santifica i fedeli. In questo senso, il messale approvato dal papa Paolo VI realizza, in una ininterrotta continuità con la tradizione liturgica di sempre, il mistero eucaristico, compiendo la volontà di Cristo: Fate questo in memoria di me. Esso lo fa esattamente con la stessa validità e liceità dei libri liturgici anteriori debitamente approvati. Il cuore della questione liturgica si trova nell’ecclesiologia, nella dottrina sulla Chiesa e nell’assistenza divina che la conferma: malgrado il cambiamento di certe forme esteriori, la Chiesa è e resta sempre identica a sé stessa; la sposa immacolata dell’ Agnello immacolato non può rinnegare il suo passato: Ecclesia semper sibi eadem constat. Tutto questo dev’essere considerato, meditato, insegnato e vissuto.
È in questo modo che si potrà superare un atteggiamento di confronto e di opposizione tra i due riti. Se l’ultima riforma ha contribuito, e non poco, all’intelligibilità della celebrazione e ad una effettiva partecipazione, il rito precedente conserva quel forte richiamo alla sacralità e alla trascendenza che, nel passato, a dato vita a tanti santi e ha modellato il viso della Chiesa nel corso dei secoli. Abbiamo da imparare da entrambe le tradizioni, per correggere eventuali esagerazioni di aspetti accidentali che nuocciono all’unità essenziale. Occorre evitare i modi che si nutrono solo dello spirito del mondo, le banalizzazioni, le eccentricità, gli individualismi e le rotture con la grande Tradizione. Dev’essere chiaro che la lex orandi è anche lex credendi, che ogni elemento, ogni segno, deve esprimere delle profonde verità salutari, che le forme stesse, al di là di ogni crudo formalismo, aiutano a mantenere e a veicolare la sostanza. Il concetto stesso di partecipazione dev’essere chiaro: si tratta di una realtà che impegna tutta la persona, dalla sua piú profonda interiorità alla sua espressione per mezzo delle parole, dei gesti, degli atteggiamenti.


Roma ha sempre affermato che il nuovo messale del 1969 era una semplice riforma del messale anteriore, e logicamente sostituiva il precedente. Nondimeno, certi teologi (come mons. Gamber, per esempio) hanno cercato di dimostrare che se il messale di Paolo VI è evidentemente legittimo, esso non corrisponde a quello che la tradizione liturgica considera come una evoluzione omogenea (lo stesso cardinale Ratzinger ha parlato di «liturgia fabbricata»). Per chi osserva dall’esterno la celebrazione della messa secondo questi due messali, la rottura colpisce molto piú che la continuità. Su questo importante aspetto, vorrei porvi due domande: innanzi tutto che ne pensate del dibattito in atto? Poi, che ne pensate della tesi in base alla quale questi due messali, nella moderna cultura in  frantumi, che è la nostra, risponderebbero ciascuno al bisogno di differente spiritualità dei nostri contemporanei?

Credo personalmente che il dibattito deve trovare un punto di equilibrio, per superare il falso antagonismo che vuole creare tra i due riti. Io non accetto la tesi di una rottura con la continuità della tradizione liturgica della Chiesa d’Occidente. Al contrario, bisogna comprendere che la Chiesa di oggi è la Chiesa di sempre; che il magistero procede in eodem sensu; e bisogna sottolineare che non si costruisce la Chiesa di oggi sulle macerie di quella di ieri - come diceva già Paolo VI - e che lo Spirito Santo, anima della Chiesa, non può insegnare in un dato momento il contrario di ciò che ha insegnato in un altro.
Ho già richiamato i buoni frutti della riforma liturgica di Paolo VI; tuttavia non vedo perché il carattere obbligatorio della norma liturgica attuale dovrebbe necessariamente ostacolare la legittimità di una posizione particolare quando questa sia autorizzata dalla Chiesa; mi riferisco a coloro che sentono un attaccamento particolare per certe forme della liturgia latina precedenti l’ultima riforma liturgica, forme che li aiutano a santificarsi. In questo senso, non posso mancare di esprimere la mia personale gratitudine a tutti i vescovi che hanno concesso con coraggio e generosità di celebrare secondo il messale del 1962 nelle loro diocesi, assicurando cosí la comunione di tutti i fedeli nella diversità dei riti; essi favoriscono l’unità nel rispetto, e danno prova di un profondo senso pastorale, dimostrando comprensione per i bisogni della Chiese diocesane.
Infine, io credo che sia urgente per tutti - preti e fedeli dei sue riti - darsi una formazione leale che contribuisca ad una obbedienza rispettosamente motivata delle norme liturgiche autentiche, una obbedienza in grado di garantire un autentico senso del sacro, della trascendenza e dell’eterno, capace anche di comprendere, nella giusta maniera, le reali urgenze di evangelizzazione del mondo attuale. Tutti, pastori e fedeli di ogni tendenza, siamo chiamati a fare un esame di coscienza sul modo in cui celebriamo l’Eucarestia, sul modo in cui si esprime la fede all’inizio del terzo millennio, e sulla misura della nostra reale vigilanza, sempre e dovunque, circa il dovere dell’ortodossia e del sentire cum Ecclesia in tutto ciò che diciamo nelle nostre omelie, nelle diverse istruzioni o attraverso i mezzi di comunicazione. Se la santa messa e gli altri sacramenti sono celebrati in maniera degna, osservando le direttive dei libri liturgici, se il Santissimo Sacramento è conservato e adorato con l’amore e l’onore che gli sono dovuti, se le nostre omelie si fanno eco fedele della Sacra Scrittura come Parola di Dio, del Catechismo della Chiesa Cattolica e delle dichiarazioni del magistero, avremo già messo insieme un certo numero di presupposti per superare qualunque antagonismo. Ancor piú profondamente: le nostre tensioni non sono un invito a chiedere la grazia di una vita spirituale piú profonda, piú autentica, perché lo Spirito Santo ci conceda di ritrovarci pienamente nel Mistero di Dio stesso e di mettere nei nostri mutui rapporti tanta verità quanta carità, e cioè quella mutua benevolenza a cui ci esorta con forza san Paolo? La verità senza una autentica carità, e la carità senza una verità integrale, non son piú né verità né carità. Dio è inseparabilmente Luce e Amore.


Certi liturgisti ritengono che sarebbe necessario prendere in considerazione un giorno una riforma della riforma liturgica del 1969: che ne pensate?

Le forme liturgiche della Chiesa cattolica sono sempre in continua evoluzione: lo stesso messale di san Pio V è il punto di arrivo di una lenta evoluzione durata dei secoli. Da parte sua esso ha dato luogo ad altri sviluppi che hanno prodotto altrettanti interventi per modificarlo. Niente si oppone a che si possano discutere certi aspetti pratici e certe scelte concrete che sono state fatte al momento dell’elaborazione dell’attuale riforma liturgica. Inoltre, la realizzazione della riforma, con gli anni, richiederà certo una nuova revisione. Non si può dunque escludere che in futuro, come si è sempre fatto, si possano apportare dei cambiamenti ulteriori e degli adattamenti, rispettando sempre l’essenziale, cosa questa che vale per tutte le epoche e tutte le circostanze.


Le Responsa pubblicate dalla Congregazione per il Culto Divino il 3 luglio 1999, nello stesso periodo in cui esplodeva la crisi in seno alla Fraternità San Pietro, hanno fatto temere ad alcuni che Roma cercasse di fare marcia indietro sul Motu Proprio Ecclesia Dei, e che tentasse di mutare l’originaria identità liturgica della Fraternità San Pietro: che potete rispondere riguardo?

Per l’avvenire della Fraternità San Pietro è indispensabile prendere conoscenza del carattere specifico del privilegio liturgico che ad essa ha concesso la suprema autorità della Chiesa; e al tempo stesso dei suoi limiti a fronte della legislazione generale del rito latino. Ci siamo sempre sforzati, a piú riprese, di rendere comprensibile il fatto che la legittimità di una posizione particolare, propria di quelli che si sentono legati a certe forme della liturgia latina anteriori all’ultima riforma liturgica, non abolisce e non può impedire a nessuno la possibilità di usufruire della norma liturgica in vigore nella Chiesa universale.
Ciò detto, posso solo ribadire che i fedeli che esprimono la loro fede attraverso la messa detta di san Pio V, secondo il messale del 1962, partecipano lecitamente all’Eucarestia, poiché l’autorità competente ha permesso tale celebrazione. Occorre superare nei fatti ogni forma di sospetto reciproco.


Quest’estate siete intervenuto nella crisi della Fraternità San Pietro, in occasione del suo capitolo generale: come vedete il suo avvenire?

Il mio pensiero è chiaramente espresso nella lettera che ho indirizzato loro in quella occasione. Io credo che siamo in presenza di un processo doloroso di maturazione e di chiarimento. Dodici anni dopo la fondazione del 1988, questa comunità si sforza di trovare il suo posto nell’insieme della Chiesa, a fianco di altre aggregazioni con finalità diverse. Nella fase attuale, io ritengo che occorra aiutare i membri della fraternità a mantenere l’equilibrio tra l’autentica interpretazione del carisma originario e delle sue conseguenze, e le conseguenze del loro inserimento nella realtà ecclesiale del 2000. La perseveranza ben comprensibile nella volontà dei fondatori deve armonizzarsi con le necessità pastorali di tutta la Chiesa. Il mio atteggiamento fondamentale è di appoggiare chiaramente la Fraternità, nell’apertura di un dialogo sempre leale e sincero. E so che posso contare nello stesso atteggiamento della Fraternità.


Il 4 settembre scorso, avete informato i rappresentanti di diverse associazioni (Una Voce…), venuti ad incontrarvi a Roma, che la Pontifica Commissione Ecclesia Dei pubblicherà prossimamente un documento sulle possibili evoluzioni del messale romano del 1962: potete darci qualche precisazione?

Evoluzione possibile? No, io penso ad un testo sul buon uso di ciò che è stato concesso con l’indulto del 1984 e col Motu Proprio del 1988; dunque all’uso del messale del 1962 con alcune possibilità che guardano alle rubriche del 1965, come è stato fatto già in certe comunità. Si tratterebbe di una Istruzione sul modo di servirsi, con prudenza pastorale e senso liturgico, del rito come tale e delle rubriche che oggi ne regolano l’uso. Quest’ultimo punto è importante, perché dopo il concilio Vaticano II alcune acquisizioni liturgiche possono essere valide per tutta la Chiesa, come per esempio la questione dei lezionarii, o dei nuovi santi che si vorrebbero festeggiare anche col rito antico, ecc. Questa Istruzione avrebbe in vista una certa unità nelle celebrazioni del rito antico, e favorirebbe anche i legami tra le due tradizioni nel rispetto dell’identità di ciascuna.
Si pensa anche ad una sorta di compendium sullo stato attuale delle norme che regolano tutta la materia, ad uso dei vescovi e dei curati. Si prenderebbero in considerazioni questioni come queste: chi può celebrare la messa secondo il rito del 1962? quali sono le condizioni ancora in vigore? qual è la procedura da seguire per ottenere il permesso? cosa si intende per “messa privata” e in quali casi occorre l’autorizzazione dell’Ordinario?  come procedere nel caso di matrimonio o di funerale secondo l’antico rito? Quali sono in pratica i privilegi di cui godono i preti appartenenti agli istituti dell’Ecclesia Dei? Si tratta evidentemente di un progetto ancora in fase di riflessione e di studio.

 
 
 

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