Intervista rilasciata al periodico Spectacle du monde 
(n° 464, gennaio 2001) 
da S. Em. Rev.ma il Card. Joseph Ratzinger, 
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.



Il testo è stato evidenziato da noi

Abbé Claude Barthe 
(ACB) - Mons. Billé, Presidente della Conferenza Episcopale Francese, nel corso dell’última assemblea a Lourdes (nel nov. 2000), ha parlato di “radicalizzazione” delle vessazioni a cui è sottoposta la Chiesa: “accuse, derisioni, diffidenza, occultamenti, ostracismo, …”. Egli ha posto questo fenòmeno, molto rilevante negli ultimi dòdici anni, in relazione con “la mentalità liberale e individualista che respiriamo come l’aria”. E ha fatto l’esémpio dell’accoglienza riservata al vostro documento “Dominus Iesus” sull’unicità salvífica in Gesú Cristo, documento che è stato visceralmente rigettato da gente che non lo aveva neanche letto, ma per la quale il fatto che la Chiesa prédichi altro che il pluralismo, è cosa inaccettàbile.

Cardinale Joseph Ratzinger
(CJR) - Certo, con tutta evidenza si tratta di una radicalizzazione del laicismo, del secolarismo, i quali si oppòngono alla presenza della fede nella nostra società; laicismo e secolarismo che vògliono “setteggiare” la fede cattolica, se cosí si può dire, e vogliono ridurre la Chiesa cattolica ad una sètta. La mentalità generale che prevale in Occidente prende sempre piú le distanze dalla fede della Chiesa. È un fatto.
C’è da notare che quando si attacca la “Dominus Iesus” come fosse una espressione di intolleranza, la verità è proprio il contràrio: non si tòllera piú che la Chiesa cattolica possa esprímersi sulla propria identità e sulla propria fede, che essa non impone a nessuno, ma che esprime e difende. In fatto di tolleranza, mi sembra che il mínimo che si possa dire è che la comunità che in definitiva ha formato l’Occidente, possa esprímersi sulla propria fede. D’altronde, questi attacchi violenti dimòstrano che la fede, anche all’interno di questa emarginazione, resta una realtà forte. Non si sentirebbe il bisogno di attaccare la Chiesa, né la fede, se fòssero considerate come delle realtà trapassate o sul punto di ésserlo. Si può dire, dunque, che questi attacchi sono anche un segno della vitalità della fede e della forza che essa conserva nel mondo spirituale.
Aggiungerei che questa emarginazione della Chiesa non è cosí forte in tutte le regioni d’Europa, né in tutte le parti del mondo. Cosí possiamo vedere che in Germania è in atto una paganizzazione, soprattutto nelle zone che prima érano comuniste, e comunque nel nord del paese, in cui il protestantésimo si decompone e lascia il posto ad un paganésimo che non ha piú  bisogno di attaccare la Chiesa, perché la fede è diventata talmente assente che non si sente piú il bisogno di aggredirla. Ma vi sono anche delle situazioni del tutto diverse. Ai giorni nostri si pòssono constatare delle nuove manifestazioni di fede: vi sono tra i giòvani dei movimenti molto forti che dimòstrano la realtà sempre presente di bisogno di assoluto, con una riscoperta della bellezza della fede e del sacro. Questo desidério del sacro, di recúpero di tutte le bellezze perdute, è molto presente presso la nuova generazione. Da questo punto di vista il panorama è diversificato. Da un lato, vi è quanto indicato da Mons. Billé, questa nuova radicalizzazione del secolarismo, il quale vorrebbe trionfare definitivamente e imporre il suo domínio rendendo inaccessíbile, inaccettàbile e intolleràbile la realtà della Chiesa. Dall’altro, senza neanche il sostegno dei mezzi di comunicazione, ma con una profonda forza interiore, vi è una riapparizione della fede. La Chiesa è destinata certamente a vívere in una situazione di minoranza nel nostro continente, ma rafforzàndosi spiritualmente e interiormente, tanto da diventare una speranza per molti uòmini.

(ACB) - Questo rinnovamento di cui parlate, in Francia si manifesta col fiorire di nuove comunità, col manifestarsi di numerose forze vive. Ma esse sono disperse e frantumate, e sono anche in attesa di affermazioni cristiane chiare e decise da parte dei Pastori.
(CJR) - Mi sembra che si possa parlare di una generazione un po’ scoraggiata: la generazione del Vaticano II, la quale, al momento del Concílio, aveva cullato l’illusione di grandi speranze, un po’ irreali, su una nuova unanimità fra la Chiesa e il mondo. La delusione che è seguita a queste speranze mal riposte è stata forte, e oggi non si ritrova piú la forza interiore della fede, che non deve mai contare su una fàcile accettazione da parte del mondo, anche se essa costituisce la risposta ai grandi problemi che oggi si pòngono davanti agli uòmini.
Nella nuova generazione sòrgono molte vocazioni, un po’ disperse. Le diòcesi hanno meno vocazioni perché è presente un clero scoraggiato e delle comunità desolate. L’attrazione che prima esercitava il lavoro nelle parròcchie, oggi la esércitano le comunità viventi, nelle quali si riscontra una grande intensità di gioia e di fede, anche se nella dispersione, questo è vero. Ma a me sembra che questa forte presenza di vocazioni, un po’ minoritaria, un po’ marginalizzata, avrà un gran peso in avvenire.

(ACB) -Vi è un dato che impressiona i Véscovi francesi: su quasi centoventi preti secolari o assimilati, ordinati ogni anno, di tutte le tendenze, dalla Fraternità San Pio X ai piú progressisti, da venti a venticinque - uno su cinque - sono ordinati per il rito tradizionale. Dei rimanenti quattro, due sono vicini alla sensibilità litúrgica tradizionale. Nei seminàrii di Parigi e di Ars, una parte non trascurabile (talvolta un po’ piú della metà) ha pensato di rivolgersi ad un seminàrio della Fraternità San Pietro o della Fraternità San Pio X, ma non l’ha fatto perché questo ridurrebbe o emarginerebbe il loro apostolato. Non sembra sia giunto il momento di cambiare qualcosa sul terreno litúrgico parrocchiale?
 (CJR) - Mi sembra che la priorità non stia nel cambiamento. È l’errore che si fece dopo il Concílio. Si pensò che la riforma consistesse innanzi tutto nel cambiamento.

(ACB) - Non pensavo ai testi, ma a dei cambiamenti concreti, come l’inversione dell’Altare, il silénzio del Cànone, l’Offertòrio.
 (CJR) - Tuttavia, questa dev’éssere la conseguenza di una nuova presenza del sacro nei cuori. È stata cambiata la posizione dell’Altare perché vi era una nuova sensibilità, piú didàttica, direi un po’ piú razionalista. Si è pensata la Messa come fosse un diàlogo col pòpolo. Tutto andava compreso, tutto doveva éssere “aperto” per éssere compreso. E si è perduta la percezione del fatto che compréndere la realtà della liturgia è cosa ben diversa dal compréndere le stesse parole della liturgia.
Una pia vecchietta può compréndere beníssimo la profondità del mistero, senza tuttavia compréndere il significato di ogni parola.
Questo è quello che è accaduto dopo il Concílio. Il Concílio è rimasto ancora molto equilibrato, ma dopo il Concílio è prevalsa l’idea che occorreva aprire tutto, compréndere tutto, cosa questa che derivava da una superficialità circa il modo di compréndere la liturgia e il suo messaggio. Vero è che la liturgia, in questo modo, è annunciata, ma si tratta di un annuncio differente. È molto importante che i giòvani chiamati alla vocazione riscòprano che una liturgia razionalizzata, una liturgia nella quale vige solo la preoccupazione di farsi compréndere dal punto di vista della ragione e dal punto di vista intellettuale, non ha piú la profondità di quella realtà che tocca il mio cuore fino al livello della presenza di Dio in me.
Se si ritorna ad una visione molto piú profonda della liturgia come mistero, nel senso che questo términe ha nel Nuovo Testamento, se ritroviamo l’essenziale in questo contatto tra il pòpolo e il prete, nel Signore, e se è il Signore stesso che ci tocca, allora il piú importante è stato fatto. Penso dunque che una nuova sensibilizzazione nei confronti delle realtà della liturgia e del suo mistero, insieme ad una nuova educazione litúrgica, siano le prime cose da fare. Non bisogna pensare innanzi tutto e súbito a dei cambiamenti. Se si ritrova una piú profonda comprensione, i cambiamenti seguiranno necessariamente.

(ACB) - Rigirare i cuori, prima di rigirare gli Altari. Ma i segni litúrgici aiútano molto.
 (CJR) - Certo, i segni aiútano perché siamo fatti di ànima e di corpo, e le cose devono anche esprímersi cosí.

(ACB) - Voi siete particolarmente sensíbile al recúpero di una lettura della Scrittura in Chiesa. Ora, la recente riedizione di una delle Bibbie piú célebri in francese, contiene delle note in cui si dice che tale o talaltro passo del Vangelo secondo San Giovanni (al pari dell’inno del capítolo 2 dell’Epístola ai Filippesi) rifiútano la divinità di Cristo. Queste note sono state redatte da uno dei piú conosciuti esegeti francesi, il quale ritiene che vi siano tre livelli di redazione in questo Vangelo: Giovanni I, che non credeva nella divinità di Cristo, Giovanni II che vi credeva, e Giovanni III, giudeo-cristiano, che non vi credeva.
(CJR) - Sí, dobbiamo ritrovare una lettura ecclesiale della Scrittura. Ciò di cui parlate deriva, chiaramente, da un’altra forma di lettura della Scrittura. In questi sviluppi troppo azzardati, si tratta della presenza dello storicismo puro. Innanzi tutto, chi prova l’esistenza di questi tre livelli di redazione? Si tratta di ricostruzioni condotte con un método letterario assurdo, viste dal solo punto di vista dello storico di mestiere.
D’altronde, oggi lo studio letterario dei testi conosce un rinnovamento che si rivela fecondo, anche per la Bibbia. Si comprende che non è possibile fissarne il senso ricostruendo un momento storico. E del resto, come si fa a ricostruire questo momento? Le ipòtesi di ricostruzione, che sono delle pure ipòtesi, càmbiano tutti i giorni. Non è cosí che si può compréndere un’òpera letterària, Dante, Racine; non è cosí che si può compréndere la Bibbia. Non è possibile entrare nel dinamismo interno di un testo dell’Antico o del Nuovo Testamento se non si comprende una cosa - appurata dal punto di vista storico - e cioè che questi libri sono nati nella fede, nel seno del pòpolo di Dio, all’interno di una comunità di credenti. Non sono delle invenzioni, non si è in presenza di un autore o di un altro che scrivévano libri come pòssono farlo oggi dei professori. Questi testi sono stati prodotti nella fede e per la fede della Chiesa, e possono compréndersi solo se si entra nello stesso dinamismo della fede.
Questa fede è quella di un soggetto - la Chiesa - che esisteva e che ancora esiste. Di conseguenza, la contemporaneità, il sincronismo con il significato dei testi sacri, non si otténgono con delle ricostruzioni - che, ripeto, per me sono assurde - ma per mezzo dell’identità con il sincronismo della Chiesa come tale. Mi sembra, dunque, che la lettura da voi richiamata abbia fatto il suo tempo. Essa non apporta niente ad alcuno, anche storicamente. Si tratta solo di giuochi d’astúzia che non hanno nemmeno una consistenza stòrica. Occorre ritornare ad una visione piú profonda: conòscere il soggetto che sta all’orígine del libro, e l’identità di questo soggetto. È solo dall’interno di questo soggetto, della Chiesa, che si può realmente compréndere la Scrittura. È per questo che la lettura  piú realística e piú fedele storicamente, è la lettura litúrgica, in cui le parole sono presenza e realtà.

(ACB) -Uno degli aspetti, e non dei minori, della crisi della trasmissione della fede non consiste in una predicazione aséttica, una predicazione “alla Walt Disney”, come dice l’attore cristiano Henri Tisot, in cui “tutti sono gentili e bisogna éssere gentili con tutti”?
(CJR) - Si, oggi si ha paura di parlare del peccato, poiché si teme di offrire una visione negativa della vita, e non si vuole imporre all’uomo moderno, che è già tanto sofferente, una predicazione pesante da parte della Chiesa. Ma noi dobbiamo compréndere bene queste sofferenze molto reali che afflíggono l’uomo nella società odierna. In definitiva, esse sono il prodotto dell’assenza di Dio. E in questo consiste l’essenza del peccato: vívere in assenza di Dio. Ed allora, in questo modo di predicare, vi è un ottimismo falso e molto artificiale, il quale presuppone che tutto sia buono e che noi si sia tutti gentili. Non è questa la realtà dell’uomo di oggi. Se cosí non fosse, non avremmo la droga, il suicídio…

(ACB) - … l’aborto, che in Francia interessa una donna su due…
 (CJR) - … è tutto questo che fa la sofferenza degli uomini della nostra società, ed è questo che bisogna compréndere. Sofferenze profonde, come dimostra il fatto che gli uòmini cércano le risposte ai loro mali nella psichiatria, nella psicanàlisi. È necessario, dunque, préndere le distanze da questo ottimismo falso e fatale. Come sarebbe piacévole parlare solo di cose belle e buone! Ma gli uòmini véngono a noi perché sòffrono; essi vògliono avere una risposta vera per questa pena profonda; essi véngono verso di noi per scoprire che alla base di ciò che li affligge vi è l’assenza di Dio. Perché, se Dio non c’è, cosa faccio? Qual è il senso della mia vita? Dove vado? Perché? Tutto diventa inútile e inaccettàbile. Per noi si tratta di far conòscere che la malattia della vita, il peccato, consiste nella pérdita di Dio; di far conòscere questo Dio che concede il perdono dei peccati. Il perdono è una guarigione per ottenere la quale devo collaborare con Dio nella penitenza. Penso che occorra trovare un nuovo realismo per parlare del peccato. Se ne parliamo con delle fòrmule inaccessíbili all’uomo odierno, esse rimarranno delle fòrmule del passato, prive di significato.

(ACB) - Trovare un linguaggio pastorale realista, che corrisponda all’uditore e alla realtà, non vale anche per ciò che avete richiamato all’inizio, e cioè per il confronto fra la Chiesa e la società?
(CJR) - Certamente. Il Signore ha inviato i suoi discépoli: “predicate e guarite i malati”. È una parte essenziale della missione degli Apòstoli. Il che non signífica che dobbiamo sostituirci ai médici del corpo: io mi riferisco alla vera malattia della vita. È dunque chiaro che la fede che ci è stata donata non è fatta per un mondo chiuso; essa è sempre data per l’umanità. E questo non signífica intolleranza da parte nostra, ma esercízio della responsabilità che noi abbiamo nei confronti degli altri: di annunciare loro questa possibilità di guarigione nel Signore. Occorre avere un coràggio nuovo, occorre éssere convinti che noi si àbbiano in mano i mezzi per guarire gli uòmini, che è nostro dovere dare loro questa parola di Salvezza, e che essa è veramente tanto necessaria per l’uomo. Occorre un nuovo slancio missionario. Non si ama piú parlare di conversione, ma questa è la realtà: noi abbiamo una responsabilità universale, non possiamo esímercene. Sarebbe còmodo, se fosse possíbile, ma invece siamo tenuti ad offrire agli altri ciò che il Signore ci ha dato per gli altri.

(ACB) - Voi sapete, Eminenza, che siete un Cardinale molto popolare: un sondaggio internet vi assegna il 28% di opinioni favorévoli, su cinquantasettemila risposte; appena dopo il Cardinale Martini, che è in testa col 32%. Ora, gli specialisti dícono che nelle risposte spontanee, le opinioni dette di “sinistra” si esprimono sempre piú facilmente… Lo dico per amore dell’aneddoto, ma anche per sottolineare l’eco delle vostre considerazioni. Voi dunque, per i Pastori di domani, proponete un nuovo coràggio nell’annúncio della fede?
(CJR) - Assolutamente. Con la certezza che, se il Signore è con noi, potremo affrontare i problemi del nuovo millénnio. Per quanto riguarda candidature e sondaggi, trovo tutto questo alquanto ridícolo: noi abbiamo un Papa, ed è il Signore che decide in tutto del quando e del come. È vero che éssere Pastore oggi nella Chiesa esige un grande coràggio; ma anche con la nostra debolezza - io sono un uomo débole - possiamo ugualmente accettare il ríschio di fare il nostro dovere di Pastori, perché è il Signore che agisce, Egli ha detto ai suoi Apòstoli che nell’ora del confronto, non avrébbero dovuto pensare con inquietúdine a come difendersi e a cosa dire, poiché lo Spírito avrebbe loro insegnato cosa dire.
Questa è per me una cosa molto reale. Anche con la mia poca forza, e direi pròprio a causa di essa, il Signore potrà fare in me ciò che vorrà. Nella Scrittura vediamo sempre svilupparsi questa struttura: il Signore scéglie, per agire, coloro che di per sé non potrébbero fare gran cosa. È in questa fragilità umana che Egli dimostra la propria forza, come dice San Paolo. In questo senso, io credo che un Pastore non abbia mai motivo di aver paura, nella misura in cui làscia agire in sé il Signore.



Ritorna a Documenti