Risposta della Fraternità Sacerdotale San Pio
X alla Santa Sede
(22 giugno 2001)
Alla lettera del Card. Castrillon Hoyos a Mons. Fellay
(7 maggio 2001),
con la quale la Santa Sede ha rifiutato le condizioni
preliminari poste dalla Fraternità per la prosecuzione dei contatti
in corso,
il Superiore Generale ha inviato al Cardinale la seguente
risposta
Riportiamo la parte principale della lettera del Card. Castrillon:
«Per quanto riguarda la prima condizione, un certo
numero di cardinali, vescovi e fedeli ritengono che un tale permesso non
debba essere concesso [liberalizzazione della Santa Messa tradizionale]:
e ciò non perché il sacro rito precedente non meriti tutto
il rispetto, o che si disconosca la sua solidità teologica, la sua
bellezza ed il suo apporto alla santificazione durante i secoli e nella
Chiesa, ma perché questo permesso potrebbe creare una confusione
nello spirito di molte persone che lo interpreterebbero come un deprezzamento
del valore della santa messa che la Chiesa celebra attualmente. È
chiaro che, negli statuti per il vostro reinserimento, si offrono tutte
le garanzie perché i membri della Fraternità, e tutti coloro
che hanno una particolare predilezione per questa nobile tradizione liturgica,
possano celebrarla liberamente nelle vostre chiese e luoghi di culto. Si
può ugualmente celebrarla nelle altre chiese con il permesso degli
ordinari diocesani.
Per quanto riguarda la seconda condizione, il Santo Padre ha la
ferma volontà di concederla quando sarà formalizzato il ritorno».
La traduzione in italiano è stata condotta da Roma Felix
- Lettera mensile di informazione della Fraternità Sacerdotale
San Pio X in Italia - via Trilussa, 45 - 00041 Albano Laziale (Roma)
- www.sanpiox.it
(I neretti sono nostri)
Eminenza,
con lo sguardo fisso al Sacro Cuore, di cui oggi celebriamo
la festa, secondo i suoi desideri, io imploro la Sua misericordia affinché
si degni di impregnare della sua luce e della sua carità le seguenti
parole.
Il gesuita mons. Pietro Henrici, allora segretario di
Communio,
in una conferenza sullo sviluppo del Concilio, diceva che nel Concilio
Vaticano II si erano scontrate in lotta due tradizioni teologiche che assolutamente
non possono comprendersi tra loro.
La Vostra lettera del 7 maggio ha causato un sentimento
simile di incomprensione e di delusione; noi abbiamo l’impressione che
essa ci impone un dilemma: o entriamo nella piena comunione, ed allora
dobbiamo tacere sui grandi mali che travagliano la Chiesa (in mancanza
di una gabbia dorata, ci si impone una museruola) oppure restiamo “fuori”.
Questa dilemma noi lo rifiutiamo. Perché, da un
lato, noi non abbiamo mai lasciato la Chiesa e, dall'altro, la nostra attuale
situazione, certamente spiacevole, non è il risultato di una condotta
colpevole da parte nostra, ma la conseguenza di una situazione disastrosa
nella Chiesa, contro la quale noi abbiamo in qualche modo cercato di proteggerci.
Le varie decisioni prese da Mons. Lefebvre sono state dettate dalla volontà
di non perdere la fede cattolica e di sopravvivere in mezzo ad un disfacimento
universale a cui Roma non è estranea. Noi chiamiamo ciò uno
“stato di necessità”.
Se vogliamo superare il vicolo cieco al quale conduce
la Vostra lettera, bisognerebbe cambiare abbastanza profondamente la prospettiva,
lo status quaestionis.
In effetti, per Vostra Eminenza,
- noi siamo in rottura di comunione;
- le ragioni avanzate per giustificare le nostre azioni,
tra cui le consacrazioni, sarebbero totalmente
insufficienti. Poiché, essendo la
Chiesa santa ed il magistero sempre assistito dallo Spirito Santo, le
deficienze di cui ci lamentiamo sarebbero
inesistenti o solamente degli abusi limitati. Il nostro
problema deriverebbe da una visione della
storia della Chiesa e della sua crisi troppo rigida, limitata,
che ci impedisce di cogliere l’evoluzione
omogenea e giustificata dei diversi adattamenti al mondo
d’oggi operati dal Concilio e dal successivo
magistero;
- Roma è abbastanza generosa nell’offrirci la
struttura propostaci. È un abusare il chiedere di piú, forse
anche ingiurioso verso la Santa Sede, in
questa circostanza in cui è Roma a fare il primo passo.
Nessuna condizione preliminare sarà
accordata. Soprattutto la Messa, che causerebbe un turbamento
nella Chiesa.
Da parte nostra, mi sembra di poter affermare,
seguendo i Papi Pio XII e Paolo VI, che la Chiesa si trova in una situazione
letteralmente apocalittica.
È innegabile che le disfunzioni nella Gerarchia
cattolica - il cardinale Seper diceva che “la crisi della Chiesa è
una crisi dei Vescovi” - le lacune, i silenzi, le suggestioni, la tolleranza
di errori ed anche atti positivi di distruzione si riscontrano fin dentro
la Curia e disgraziatamente fin presso il Vicario di Cristo. Sono fatti
pubblici e constatabili da tutti.
Affermare l’esistenza di questi fatti non è in
contraddizione con la fede nella Santità della Chiesa né
nell’assistenza dello Spirito Santo. Noi tocchiamo qui il mistero della
Chiesa, della congiunzione e del coordinamento dell’elemento divino e dell’elemento
umano nel Corpo Mistico.
Per restare nella verità della realtà,
bisogna che noi ci atteniamo tanto alle affermazioni della fede quanto
alla constatazione dei fatti.
Nell’affermare l’infallibilità del Sommo Pontefice,
il Concilio Vaticano I ha fissato esplicitamente un limite all’assistenza
dello Spirito Santo: “lo Spirito Santo non è stato promesso ai
successori di Pietro perché manifestassero, per la sua rivelazione,
una nuova dottrina, ma perché con la Sua assistenza custodissero
santamente ed esponessero fedelmente la Rivelazione trasmessa dagli Apostoli,
cioè il deposito della Fede” (Denzinger-Hunermann, n° 3070).
Noi aderiamo evidentemente con tutto il cuore anche ai
paragrafi seguenti della Pastor Aeternus cosí come della
Dei
Filius. Ma è esattamente qui che tocchiamo il piú profondo
del mistero attuale. Sono precisamente le novità della nuova teologia,
condannate dalla Chiesa sotto Pio XII, che fanno il loro ingresso col Vaticano
II.
Come mai i piú grandi protagonisti del Concilio,
i periti teologi, sono tutti colpiti da sanzioni sotto Pio XII: De
Lubac, Congar, Rahner, Courtney-Murray, Dom Beaudoin (morto poco prima
del Concilio). E, per risalire un po’ piú lontano, Blondel, Teilhard
de Chardin.
Oggi ci si vorrebbe far credere che queste novità
sarebbero uno sviluppo omogeneo con il passato. Esse sono state condannate
almeno nel loro principio. Lo stesso cardinale Ratzinger chiama la Gaudium
et spes un contro-Sillabo (Theologische
Prinzipienlehre, p. 398, Eric Wewel Verlag, Monaco, 1982).
Bisogna dunque necessariamente scegliere.
Che queste dottrine siano state in seguito sanzionate
da un Concilio che non si volle dogmatico non è sufficiente per
legittimarle. Il sigillo di una votazione non trasforma un errore in verità
infallibile: ne fa fede la risposta di Mons. Felici al Concilio sulla questione
dell’infallibilità di quest’ultimo (Notificazione del
16.11.64, DH 4350-4351).
Inoltre, il problema del Concilio non è
anzitutto dal lato delle intepretazioni individuali, ma nasce anche dalla
sua mancanza di precisione nei termini, dalle sue ambiguità volute
- secondo uno degli esperti del Concilio - e che rendono possibili diverse
interpretazioni.
Esso viene inoltre da certe interpretazioni date dalla
stessa Santa Sede. Se si seguono le indicazione di quest’ultima, si arriva
ad Assisi, nella Sinagoga e nelle foreste sacre del Togo: “Vedete Assisi
alla luce del Concilio” (Giovanni Paolo II, udienza del 22.8.86).
Come spiegare alla luce della fede cattolica questa parola
chiave della teologia di Giovanni Paolo II, che illumina molti passaggi
altrimenti incomprensibili, quali “la strada della Chiesa è l’uomo”
ovvero Gaudium et Spes n.22: “Nello Spirito Santo, ogni persona
ed ogni popolo sono diventati, attraverso la Croce e la resurrezione di
Cristo, dei figli di Dio, partecipi della natura divina e eredi della vita
eterna”? (Giovanni Paolo II, Messaggio ai popoli d’Asia del 21.2.1981,
DOC 1894, 15.3.81, p. 281).
Un magistero che contraddice l’insegnamento del passato
(ad esempio l’attuale ecumenismo e Mortalium animos), un magistero
che contraddice se stesso (ad esempio la dichiarazione congiunta sulla
Giustificazione e la nota precedente del cardinale Cassidy, o la condanna
e la lode del termine “Chiese Sorelle”), questo è il problema
lancinante.
Questa crisi magisteriale pone un problema praticamente
quasi insolubile. Come operare la necessaria distinzione tra ciò
che è veramente il magistero e ciò che ne ha solo l’apparenza?
E l’incubo si estende dalla Curia ai Vescovi residenziali.
Ecco due esempi molto recenti, scelti tra tanti:
Quando Mons. Tauran dichiara nelle Filippine
il 4.6.2001:
“Sarebbe sbagliato considerare il fedele di altre religioni
come qualcuno da convertire. Egli è piuttosto una persona che bisogna
comprendere, lasciando a Dio il compito di illuminare la sua coscienza.
Le religioni non debbono entrare in competizione le une con le altre, ma
debbono essere piuttosto come fratelli e sorelle che camminano mano nella
mano per costruire dei canali di fratellanza, edificando un mondo bello
nel quale sia possibile vivere e lavorare”.
È forse fedele alla dottrina cattolica?
Quando il cardinal Kasper dichiara a New York:
“La vecchia teoria della sostituzione non ha piú
corso a partire dal Concilio Vaticano II. Per noi, cristiani d’oggi, l’alleanza
con il popolo ebreo è una eredità vivente. Non può
esservi una semplice coesistenza tra le due alleanze. Gli ebrei ed i cristiani,
nelle loro specifiche rispettive identità, sono intimamente legati
gli uni agli altri. La Chiesa crede che il giudaismo, cioè la risposta
fedele del popolo ebreo all’irrevocabile alleanza di Dio, è fonte
di salvezza per essi, in quanto Dio è fedele alle sue promesse”.
Esprime forse la fede cattolica, è forse fedele
a S. Giovanni, a S. Paolo, allo stesso Nostro Signore?
Eppure, essi sono: il primo, un intimo collaboratore del
Papa, il secondo, un principe della Chiesa, recentemente onorato della
porpora cardinalizia, elettore del futuro Vicario di Cristo.
È impossibile essere in comunione con costoro:
essi non hanno piú fede.
Potremmo citare decine e decine di espressioni episcopali
del medesimo tenore.
Che fare allorquando i custodi della Fede vengono
meno?
Seguirli ciecamente?
Non meritano costoro gli appellativi di cui S. Caterina
da Siena gratificava certi principi della Chiesa della sua epoca?
Dire queste cose non ci metterà nelle buone grazie
della Santa Sede. Ma noi abbiamo delle preoccupazioni ben piú gravi.
I milioni di fedeli cattolici che perdono la fede e si dannano a causa
di queste deficienze di Roma, ecco la nostra preoccupazione. “Quicumque
vult salvus esse, ante omnia opus est ut teneat catholicam fidem: nisi
quisque integram inviolatamque servaverit, absque dubio in aeternum peribit”
(Simbolo di san Atanasio,DH 75).
Bisogna distinguere Roma da Roma. Noi cerchiamo di farlo.
Le parole di Pio XII, allora Segretario di Stato di Pio
XI, risuonano nelle nostre orecchie:
“Supponete, caro amico, che il comunismo non
sia che il piú visibile degli strumenti di sovversione contro la
Chiesa e contro la tradizione della rivelazione divina, allora noi stiamo
per assistere all’invasione di tutto ciò che è spirituale,
la filosofia, la scienza, il diritto, l’insegnamento, le arti, la stampa,
la letteratura, il teatro e la religione. Io sono assillato dalla confidenze
della Vergine alla piccola Lucia di Fatima. Questa ostinazione della Buona
Signora davanti al pericolo che minaccia la Chiesa è un avvertimento
divino contro il suicidio che rappresenterebbe líalterazione della
fede, nella sua liturgia, la sua teologia e la sua anima.
“Io sento intorno a me dei novatori che vogliono smantellare
la Cappella sacra, distruggere la fiamma universale della Chiesa, rifiutare
i suoi ornamenti, darle rimorso per il suo passato storico.
“Ebbene, mio caro amico, ho la convizione che la Chiesa
di Pietro deve rivendicare il suo passato; altrimenti si scaverà
la fossa.
“Verrà un giorno in cui il mondo civilizzato
rinnegherà il suo Dio, in cui la Chiesa dubiterà come Pietro
ha dubitato. Essa sarà tentata di credere che l’uomo è diventato
Dio, che il Suo Figlio non è che un simbolo, una filosofia come
tante altre, e nelle chiese i cristiani cercheranno invano la lampada rossa
dove Dio li aspetta”
(Mons. Roche e P. S. Germain: Pio XII devant l’histoire,
pp. 52-53).
Al suo amico Jean Guitton, Paolo VI diceva in sostanza
che nella Chiesa c’è un pensiero di tipo non cattolico; che può
essere che esso prevalga, ma non sarà mai la Chiesa cattolica
(Jean Guitton, Paolo VI segreto).
Davanti a questa catastrofe, come debbono reagire i
fedeli?
È permesso loro reagire?
Noi seguiamo semplicemente il consiglio di S. Vincenzo
di Lerins nel suo Commonitorium (n.3): “Che farà dunque il
cristiano cattolico, se qualche particella della Chiesa si stacca dalla
comunione della fede universale? Che altra scelta fare, se non preferire
al membro incancrenito e corrotto il corpo che nel suo insieme è
sano ? E se qualche contagio nuovo si sforza di avvelenare non piú
soltanto una piccola parte della Chiesa, ma la Chiesa tutta intera? Anche
allora, la sua piú grande preoccupazione sarà di attaccarsi
all’antichità, che ovviamente non può essere sedotta da alcuna
novità menzognera”.
Ecco lo “status quaestionis” da cui bisognerebbe
partire per cercare di trovare una soluzione.
Noi non siamo che un segno tangibile della terribile
tragedia che attraversa la Chiesa, forse la piú terribile di tutte
fino a questo momento, in cui non un solo dogma, ma tutti sono attaccati,
dall’interno delle stesse università pontificie fino ai banchi delle
scuole materne.
Il problema liturgico è consimile.
Ed inoltre i fedeli sono messi nella necessità
di cercare da se stessi una liturgia degna. Essi non possono piú
andare semplicemente in parrocchia. È un fatto che non riguarda
soltanto i tradizionalisti.
Di qui una grande trasformazione nel mondo cattolico,
in ogni caso nel vecchio mondo: la disgregazione della vita parrocchiale;
la crescita dei movimenti ecclesiali è dovuta in gran parte al fatto
che i fedeli non trovano piú nella loro parrocchia il nutrimento
di cui hanno bisogno per vivere la fede e la grazia. La nuova liturgia
non è estranea a questo fenomeno.
Non possiamo ignorare questo problema gigantesco. Con
tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, noi vogliamo lavorare
alla restaurazione della Chiesa, ma non possiamo comportarci come se tutto
andasse bene o si trattasse di questioni di dettaglio.
Noi siamo pronti a rendere conto della nostra fede
a Roma, ma non possiamo chiamare “bene” ciò che è male e
“male” ciò che è bene.
Si degni, Eminenza, di scusare la lunghezza di questa
lettera, le sue generalizzazioni e certe affermazioni che avrebbero richiesto
di essere precisate molto di piú. Noi siamo disposti a proseguire
questo lavoro, se Roma lo vuole.
Noi vogliamo rimanere cattolici, vogliamo conservare
tutta la nostra fede senza abbandonare nulla: ecco la causa della nostra
battaglia, delle nostre fatiche, delle opposizioni di cui soffriamo. Siamo
persuasi che non facciamo nessun male alla Chiesa agendo cosí, anche
se le apparenze sono contro di noi.
Voglia ricevere, Eminenza, l’espressione dei miei sentimenti
devoti e religiosi in Cordibus Jesu et Mariae.
+ Bernard Fellay
(luglio 2001)
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